Le elezioni presidenziali statunitensi segnano, dal dopoguerra ad oggi, un appuntamento tra i più importanti e controversi del panorama socio-culturale del nostro pianeta. Non è solo la politica, però, a scendere in campo. Lo sport, ad esempio, è fortemente condizionato da questo avvenimento, tanto che negli ultimi anni decine di campioni a stelle e strisce hanno sentito il bisogno di esprimere le proprie idee e farsi portavoce delle istanze dei cittadini americani, in particolare delle minoranze. Ma se oggi il dibattito tra il candidato dei repubblicani Donald Trump e la sua avversaria democratica Kamala Harris sembra acceso, talvolta ai limiti dell’infuocato, in passato la corsa alla Casa Bianca ha provocato avvenimenti ancora più devastanti.
4 aprile 1968, piena campagna elettorale. Una grande folla, perlopiù formata da donne e uomini afroamericani, si radunò in una zona povera di Indianapolis per ascoltare il comizio di Robert F. Kennedy, candidato democratico alla Casa Bianca. La folla trasudava ottimismo poiché praticamente tutti si aspettavano che il senatore sarebbe presto diventato il secondo Kennedy a prendere residenza al 1600 di Pennsylvania Ave. A differenza di oggi, nel 1968 le notizie non viaggiavano così velocemente. Radio, notiziari serali e giornali del mattino erano ancora lontani decenni dall’essere conquistati da internet e la forma più efficace di social media era ancora il passaparola. Quel giorno, però, la notizia era di quelle capaci di far tremare il mondo. Di quelle che viaggiano su ali veloci, incuranti degli spazi e degli ostacoli.
Martin Luther King era sul balcone della sua stanza, al secondo piano del Lorraine Motel, appena fuori Memphis, nel Tennessee. Il leader del movimento per i diritti civili era in città per sostenere uno sciopero dei netturbini e stava andando a cena, quando un proiettile lo colpì. Poco dopo il suo arrivo in ospedale, a soli 39 anni, il dottor King fu dichiarato morto. Proteste e rivolte scoppiarono in più di cento città degli Stati Uniti, alcune delle quali durarono più di un anno. L’assassinio era stato annunciato alle 20.19 nella capitale. Alle 21.25 la prima finestra era stata distrutta.
Ad Atlanta, il governatore Lester Maddox si rifiutò di ammainare la bandiera per King. Si dice che abbia intimato alla polizia di stato di “sparare [ai manifestanti] e ammucchiarli“, se avessero provato a entrare nel Campidoglio dello Stato. Maddox, in seguito, fu caldamente invitato a cambiare idea e ammainò la bandiera dietro mandato federale. In stretta concomitanza con questo evento, si stavano per disputare le prime partite delle finali della Eastern e Western Division della NBA e Philadelphia si ritrovava a ospitare Gara 1 delle finali a Est, lo stesso round in cui Wilt Chamberlain e i suoi 76ers avevano finalmente superato i Celtics di Bill Russell l’anno precedente.
A casa di Bill Russell a Reading, Massachusetts, a circa 26 chilometri dalla città di Boston, il tempo sembrava essersi fermato. Il giocatore-allenatore dei Celtics conosceva bene l’attivista per i diritti civili, avendolo incontrato di persona diversi anni prima in vista della marcia su Washington, nell’hotel in cui entrambi alloggiavano quella notte. Nella capitale, seduto in prima fila, il giocatore più decorato nella storia della NBA avrebbe assistito, insieme a più di 200mila persone, a uno dei momenti decisivi del XX secolo, quando MLK pronunciò l’iconico discorso di 17 minuti “I Have a Dream“. Un appassionato appello alla giustizia sociale nella lotta contro il razzismo e la disuguaglianza. Russell era uno degli atleti più in vista tra quelli coinvolti nel movimento per i diritti civili e per lui l’assassinio di King fu una specie di conferma:
Cose che ho detto dieci anni fa, che tutti liquidavano come le parole di un n***o arrabbiato, escono oggi.
La mattina seguente Russell raggiunse i suoi compagni di squadra per il breve volo che li avrebbe portati a Philadelphia, per giocare la prima partita della loro serie allo Spectrum. I suoi Celtics erano pronti a sfidare il loro avversario storico, Wilt Chamberlain e i Philadelphia 76ers. Russell contro Chamberlain era, senza alcun dubbio, la rivalità principale nel basket e probabilmente nell’intero sport americano dell’epoca. Ma l’immagine che i due offrivano di loro stessi non avrebbe potuto essere più contrapposta.
Russell era l’uomo sapiente, difensivo, socio-politico, riflessivo e perfino provocatorio. Lo stesso che partecipò alla marcia su Washington e guidò la dinastia di Boston attraverso le parole, ma anche le azioni. Chamberlain era il fenomeno della natura alto sette piedi, il playboy affascinante che ammassava statistiche con facilità. Nel 1967 era riuscito, per la prima volta a eliminare Russell e i Celtics nella corsa verso l’Olimpo dei campioni. Dopo l’atterraggio a Philadelphia, cinque ore prima del fischio d’inizio, il campione dei Celtics dichiarò ai media che tutto ciò a cui riusciva a pensare era l’omicidio del dottor King. Così chiamò il suo amico di lunga data e rivale Chamberlain nel primo pomeriggio del 5 aprile. Sebbene non fosse mai stato in prima linea nel movimento per i diritti civili, Chamberlain era a sua volta sconvolto e scosso. Nessuno dei due voleva giocare Gara 1, ma c’era esitazione a rinviarla: il rischio di disordini in città era altissimo. Mancavano solamente poche ore alla palla a due e nessuna delle due squadre sapeva esattamente cosa fare.
Nello spogliatoio dei 76ers, solo venti minuti prima dell’orario previsto per l’inizio della partita, Chamberlain decise che la squadra avrebbe dovuto decidere autonomamente se giocare o posticipare fino al funerale di Martin Luther King, che si sarebbe svolto ad Atlanta qualche giorno dopo. Come descritto nel libro di John Taylor The Rivalry: Bill Russell, Wilt Chamberlain and the Golden Age of Basketball (La Rivalità: Bill Russell, Wilt Chamberlain e l’epoca d’oro del basket, ndr), Chamberlain ordinò a tutti di uscire dallo spogliatoio, tranne i giocatori.
Mentre la maggior parte non voleva giocare, Hal Greer pensò che fosse troppo tardi per annullare la partita e Chet Walker si astenne, definendola una “triste farsa”, sulla scia della mancanza di rispetto della lega nei confronti dei giocatori neri. Alla fine, sette dei dieci giocatori votarono per giocare, mentre Chamberlain e Wali Jones votarono contro. Chamberlain a questo proposito dichiarò:
Sono solo un individuo, non voglio istigare nessuno, seguo la maggioranza.
Queste parole pronunciate da Chamberlain connotavano perfettamente quella che era l’attenzione di Wilt the Stilt ai problemi sociali dell’epoca. Non era la prima volta, però, che una delle principali leghe sportive americane si ritrovava direttamente interessata da un assassinio di alto profilo. Cinque anni prima la NFL aveva giocato dopo l’assassinio del presidente Kennedy, una scelta tristemente nota come domenica nera e che l’ex commissario della massima lega di football, Pete Rozelle, avrebbe definito come “la decisione peggiore che abbia mai preso”.
Il connubio tra sport e attivismo esiste ovviamente da prima di Russell e Chamberlain. Sin dai tempi del pugile Jack Johnson e in seguito della leggenda dell’atletica Jesse Owens, la battaglia per i diritti e l’uguaglianza nella società si è manifestata storicamente dentro e fuori i campi di gioco. Gli atleti che si esponevano mettevano spesso a repentaglio la propria carriera e queste battaglie avevano un impatto mediatico maggiore durante le campagne elettorali delle elezioni presidenziali. L’influenza di Chamberlain sulla NBA lo metteva sullo stesso livello di Jim Brown nel football, di Muhammad Ali nella boxe e dello stesso Russell. Ma i paragoni si fermavano qui. I tre, assieme agli sprinter John Carlos e Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, divennero i volti pubblici dell’attivismo tra gli sportivi neri negli anni ’60, in un decennio segnato da omicidi politici, chiese incendiate, rivolte. Un’ondata crescente di mobilitazione per l’emancipazione degli afroamericani.
Comunque sia il 5 aprile, un giorno dopo l’assassinio di Martin Luther King e dopo un’esaustiva deliberazione da parte dei giocatori di entrambe le squadre, i Celtics e i 76ers scesero in campo. Lo fecero non solo al cospetto di una folla gremita allo Spectrum, ma anche di fronte a un folto pubblico televisivo in diretta nazionale su ABC. La prima partita delle finali della Eastern Division del 1968 si svolse come da programma. D’altra parte, la decisione dei giocatori fu avallata non soltanto per un mero interesse economico e di spettacolo. Esistevano delle concrete preoccupazioni per la sicurezza in città: se le squadre non avessero giocato, Philadelphia avrebbe probabilmente aggiunto il suo nome alla crescente lista di città in rivolta.
A partire dalla palla a due, i 14.412 tifosi presenti si accorsero che qualcosa non andava. Celtics e i 76ers giocavano chiaramente distratti, i loro pensieri andavano a perdersi ben oltre il campo da basket. L’energia e l’agonismo tipici di una partita playoff erano completamente assenti. Inutile anche il fatto che si stessero affrontando le due acerrime rivali della Eastern Conference,
“Shock e scoraggiamento”, avrebbe scritto il cronista del New York Times Leonard Koppett, aggiungendo che si era disputato l’evento sportivo più “inquietante e gentile” che avesse mai visto. Per la fredda cronaca. il risultato fu: Celtics 127, 76ers 118.
La dimostrazione di stoicismo di quella sera non passò inosservata agli uffici della NBA. Il commissario Walter Kennedy prese rapidamente la decisione di ritardare l’inizio delle partite successive, sia nella Eastern Division che nella Western. Il motivo era chiaro: consentire a tutti coloro che lo desideravano di partecipare alla cerimonia commemorativa per il defunto Martin Luther King, che si sarebbe tenuta nella sua città natale, Atlanta. Inoltre, la serie di eventi che hanno avuto luogo tra il 4 e il 10 aprile spinse la NBA a cogliere il momento e a muoversi in un momento critico nella storia, che ha avuto un impatto sulla vita di molti dei suoi giocatori e, più in generale, su quella di molti afroamericani.
Già da tempo la federazione cestistica aveva fatto notevoli passi avanti dal punto di vista dell’integrazione, qualcosa in più rispetto ad altre importanti leghe degli Stati Uniti, promuovendo star afroamericane come Oscar Robertson, Elgin Baylor, il giovane Kareem Abdul-Jabbar, Walt Bellamy e, naturalmente, Russell e Chamberlain. Entro la fine del decennio, il 58% dei giocatori della NBA era afroamericano. Come riferito nel libro Basketball: A Love Story dal commissioner emerito David Stern:
L’NBA ha aperto la strada, non per qualche scopo ingegnoso, ma per il talento dei nostri giocatori e per l’esposizione che siamo stati in grado di dare loro. Hanno avuto un impatto tremendo sulla società.
Russell e Chamberlain si recarono in Georgia per rendere omaggio di persona alla figura più importante nella lotta per i diritti civili negli Stati Uniti. Era 9 aprile 1968, il momento in cui iniziò la metamorfosi di Wilt, che fino a quel momento si era tenuto alla larga dal dibattito politico e sociale. La figura di MLK, sebbene non più in vita – o forse proprio per quel motivo – scosse la coscienza del lungo di Philadelphia, che iniziò ad avvicinarsi al mondo della politica. Giusto per dare una connotazione di quel che fosse il Chamberlain-pensiero fino a quel momento, Wilt una volta dichiarò:
Il modo migliore per favorire l’integrazione è vivere bene e in modo sano.
Wilt faceva donazioni alla NAACP – l’associazione americana per lo sviluppo delle persone di colore – e alla National Urban League. Si tratteneva però dall’alzare pubblicamente la voce o dal chiedere un cambiamento nei modi che trasformarono Russell, Brown e Ali in figure mitiche fuori dall’ambito sportivo. Nella sua seconda stagione NBA, Chamberlain declinò l’invito di John F. Kennedy ad aiutarlo nella campagna presidenziale del 1960. E quando giocatori del calibro di Elgin Baylor, Oscar Robertson e Tommy Heinsohn minacciarono di boicottare l’All-Star Game 1964, battendosi per avere migliori condizioni contrattuali e più diritti sindacali, Wilt fu il solo che votò per giocare. Temeva che la NAACP, ancora agli albori e assai lontana dall’enorme entità culturale di oggi, non si sarebbe mai risollevata. Per spiegare la differenza rispetto al sentire degli altri campioni afroamericani della lega, basti pensare che quando l’allora proprietario dei Lakers gli ordinò di giocare, Baylor rispose: “Dite a Bob Short di andare a farsi fottere”. Ma la processione dopo il funerale di King ad Atlanta e la dura realtà del corpo esanime del leader pacifista spinsero Chamberlain a farsi avanti.
Quel momento fu un punto di svolta per Chamberlain che, fino ad allora rimasto apolitico, decise di schierarsi dalla parte del Partito Repubblicano, appoggiando Richard Nixon.
Continuo a chiedermi cosa posso fare per aiutare gli Stati Uniti, e in particolare la mia gente, ad arrivare in cima alla montagna e vedere la terra promessa di cui il dottor King ha parlato così tante volte. Qualcosa mi è venuto in mente proprio in quel momento. Mentre camminavo con migliaia di persone dalla chiesa battista di Ebenezer verso la sua ultima dimora, mi sono avvicinato silenziosamente all’ex vicepresidente Nixon e gli ho detto che mi piaceva il suo programma e che volevo unirmi alla sua squadra.
Il cestista e il politico si erano conosciuti anni prima su un volo da New York a Los Angeles ed era subito nata un’intesa. Oltre a rimanere colpito dalle sue opinioni in materia di politica estera, Chamberlain aveva trovato in Nixon il suo alter ego: entrambi venivano percepiti negativamente dall’opinione pubblica. “E perché? Perché non ero molto loquace, non parlavo in modo brillante o eloquente”, scrisse nella sua autobiografia del 1973 Just Like Any Other 7-Foot Black Millionaire Who Lives Next Door (Un qualunque altro milionario nero di 2.13 della porta accanto, ndr).
Lo stesso accade nello sport. Ad esempio, tutti dicono che Muhammad Ali è un tipo intelligente perché parla tanto e bene. Beh, considero Muhammad un buon amico, ma a parte due argomenti – religione e pugilato – non ne sa abbastanza da mettere insieme tre frasi sensate.
Chamberlain si rivedeva in parte nei fallimenti politici di Nixon:
Credo che la mia decisione di supportare Richard sia stata influenzata inconsciamente da tante cose che avevamo in comune. In tutta la sua carriera politica l’hanno sempre chiamato “perdente”, uno che non sapeva vincere quando contava. Ed è successo anche a me.
Wilt non era solo nella sua decisione di sostenere la campagna di Nixon. Con lui l’ex campione dei pesi massimi Joe Louis, Bennie McRae dei Chicago Bears di football e l’ex UCLA e All-American Walt Hazzard dei Seattle Supersonics. Ma la comunità afroamericana degli Stati Uniti non fu esattamente entusiasta della scelta di Chamberlain, anzi.
Il 1968 è rimasto impresso nella storia americana come The Unraveling, l’anno dello sfascio. Omicidi politici, chiese incendiate, rivolte a Detroit, Baltimora e Watts (California), crescenti proteste anti-Vietnam, l’offensiva per i diritti civili e l’uguaglianza tra gli uomini. Fu l’anno che racchiuse la rabbia di un decennio. Dopo aver supportato il partito negli anni successivi alla Ricostruzione, la comunità nera aveva di fatto abbandonato i repubblicani negli anni ’60. Nel 1968, i democratici erano ormai diventati il partito dei liberali e si erano guadagnati una larga fetta di preferenze tra i neri, in parte grazie al loro impegno per i diritti civili.
Aram Goudsouzian, presidente della facoltà di storia alla University of Memphis e autore di King of the Court: Bill Russell and the Basketball Revolution (Il Re del Campo: Bill Russell e la Rivoluzione del Basket, ndr) racconta:
Si poteva ancora essere liberali e repubblicani nel ’68, ma stava diventando sempre più difficile. Il partito era sicuramente mosso da quanto accaduto con la candidatura di Barry Goldwater nel ’64. La nuova destra stava iniziando a emergere. L’odio razziale era uno dei fattori in quel tipo di neoconservatorismo. I neri votavano democratico, per la stragrande maggioranza. Prima nel ’64 a supporto di Lyndon B. Johnson, ma soprattutto perché erano terrorizzati da Goldwater. Nel ’68, però, i democratici divennero il partito della riforma liberale.
Dopotutto, Barry Goldwater è considerato il grande vecchio del Tea Party, l’ala ultraconservatrice del partito che fece da precorritrice alla candidatura di Donald Trump alle presidenziali del 2016. Nixon voleva disperatamente conquistare il voto dell’America nera: nelle precedenti elezioni del 1964, del 1960 e del 1956, i candidati repubblicani non riuscirono ad accaparrarsi il 40% dei voti della comunità di colore. Stavolta l’appoggio di Chamberlain poteva essere il grimaldello di cui aveva bisogno, come lo stesso giocatore dichiarò al Sentinel nel luglio del 1968:
Spero di fare tra la mia gente e per Nixon la metà dei punti che sono stato capace di segnare in campo.
Nonostante questo, molti neri snobbarono Nixon, convinti che le sue politiche di “legge e ordine” fossero razziste. E nonostante la popolazione afroamericana si fosse creata le proprie imprese e una propria economia sin dalla fine della schiavitù, venendo terrorizzata a causa del proprio successo, Chamberlain si espresse apertamente a favore del concetto nixoniano di capitalismo nero e se ne fece portavoce. Visitò comunità di colore in tutti gli Stati Uniti, cercando di diffondere il verbo di Nixon. Wilt ricorda che nel 1968, in un quartiere nero di Philadelphia, sua città natale, un militante di colore disse al candidato presidente: “Sei una banderuola, bello. Peccato che la mia gente non se ne accorge. Meglio che ti porti quel bestione appresso ovunque vai”. Facendo questo grande favore al suo amico Nixon, Chamberlain sperava di portare alla Casa Bianca altri argomenti che gli stavano a cuore.
Tutti i miei amici di colore rimasero sorpresi e si arrabbiarono parecchio.
Ma Wilt non si definì mai un repubblicano quanto, piuttosto, un sostenitore di un candidato repubblicano. Nello sport, diceva, faceva il tifo per i singoli atleti. E in politica, secondo lui, l’uomo era più importante del partito. Molti afroamericani, tuttavia, vedevano Nixon come un nemico. Egli, infatti, si oppose pubblicamente al busing, ossia al trasporto e all’inserimento di studenti in scuole lontane da casa per favorire l’integrazione. In seguito lanciò la “guerra alla droga”, che prendeva apertamente di mira la gente di colore. A questo proposito John Ehrlichman, ex responsabile della politica interna di Nixon, dichiarò pubblicamente:
La campagna di Nixon nel ’68 prima e il suo mandato alla Casa Bianca poi avevano due avversari: la sinistra antimilitarista e i neri. Sapevamo che non potevamo rendere illegale l’essere contro la guerra o contro i neri. Ma convincendo l’opinione pubblica ad associare gli hippy alla marijuana e i neri all’eroina e criminalizzando entrambe, fummo in grado di spaccare queste due comunità. Riuscimmo ad arrestare i loro leader, a fare retate nelle loro case, a interrompere le loro assemblee e infangarne la reputazione sera dopo sera nei telegiornali. Sapevamo di mentire sulla droga? Ma certo.
Le critiche dirette a Chamberlain – e più in generale al trattamento politico della gente di colore da parte dei repubblicani – furono durissime. Nixon sconfisse il candidato dei democratici Humbert Humphrey a novembre, dopo che a giugno Robert F. Kennedy venne ucciso da un colpo di pistola presso l’Hotel Ambassador di Los Angeles. Quest’ultimo si era aperto una strada ben tracciata per la candidatura alla Casa Bianca, vincendo le primarie in diversi stati.
Per Nixon sarebbe stato un temibile avversario per ottenere la vittoria. Una vittoria che, vista oltre quarant’anni più tardi, fece più danni che benefici, come scrisse Richard Cohen sul Washington Post nel 2014. Nixon vinse senza praticamente alcun sostegno da parte della comunità di colore: solo il 12% lo votò. E nelle ultime settimane di campagna, anche il supporto di Chamberlain si ridusse al minimo.
Russell, ovviamente, non si poté certo definire felice della presa di posizione del rivale. Le sue parole, in particolare quelle sul concetto di capitalismo nero, coniato da Nixon e appoggiato da Chamberlain, risuonarono alquanto sibilline:
Il capitalismo nero è come la storia della bella addormentata che aspetta il principe azzurro. È una favoletta. Per avere un capitalismo nero bisogna avere un qualche controllo dell’economia e i bianchi non rinunceranno mai a questo controllo in favore dei neri. È una brutta presa in giro. Prima che un nero diventi capitalista, dev’essere in grado di darsi da mangiare. L’uomo di colore viene da sempre analizzato, incasellato ed esaminato e solo ora sta iniziando a prosperare. E adesso che i bianchi hanno fatto ai neri tutto quello che gli veniva in mente, hanno deciso di farne dei capitalisti. È come avere uno che ti picchia in testa e si chiede perché strilli.
Le due grandi icone unirono le forze e si incontrarono alla fine della marcia insieme ad altre figure dello sport. Tra questi il pugile Floyd Patterson, il giocatore di football Jim Brown e il pioniere Jackie Robinson, che infranse le barriere razziali nel baseball. La lezione che Russell e Chamberlain hanno offerto al resto del mondo ha a che fare con la presa di coscienza di ognuno di noi. Il non stare a guardare ciò che ci succede intorno, ma essere parte di un cambiamento. Hanno affrontato le avversità e non sono rimasti in silenzio, in un momento in cui la società americana aveva bisogno di forti voci rappresentative all’interno dello sport. Uniti si sono schierati e uniti hanno parlato, determinati. Ognuno seguendo il proprio modo, per far sì che le loro azioni dentro e fuori dal campo non cadessero inascoltate.
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