Il Manchester United del treble era una squadra pazzesca

Manchester United 1999 - Puntero

Football, bloody hell! Pochi istanti dopo essere diventato per la prima volta Campione d’Europa con il suo Manchester United, è con queste tre parole che Alex Ferguson consegna alla storia una delle più grandi imprese mai realizzate nel calcio.

Non esiste una traduzione letterale per la frase, ma queste tre parole sono la metafora perfetta della finale di Champions League giocata a Barcellona tra Manchester United e Bayern Monaco il 26 maggio 1999. Una trama folle che solo il diavolo in persona avrebbe potuto ideare, con un finale imprevisto che nel giro di tre minuti ha fatto passare milioni di tifosi dallo sconforto all’euforia più totale. Questa è la storia di un’impresa memorabile che ha origini lontane: da un lato un club che ha dato al suo allenatore il tempo per costruire un ciclo vincente, dall’altro l’estro di un tecnico fuori dagli schemi, capace di plasmare una squadra a propria immagine e somiglianza. Ma questa è anche il racconto di un gruppo di giovani cresciuti insieme. Talenti che hanno saputo scrivere la storia del club che amano da sempre. Quando il Manchester United fu in grado di vincere tutto, nel 1999.

 

Le origini dell’impresa – Il Manchester di Ferguson

Alla base di ogni impresa calcistica c’è sempre un visionario. Un demiurgo capace di vedere il potenziale dove sembra non esserci, di infondere fiducia nell’ambiente e plasmare il destino di coloro i quali, un giorno, scriveranno la storia. Per il Manchester United nessun uomo è in grado di incarnare queste virtù meglio di Alex Ferguson, allenatore scozzese che al termine della sua carriera sarà il più longevo e titolato della storia dei Red Devils.

Eppure le premesse non sembravano essere così rosee. Ferguson assume la guida della squadra nel 1986 dopo tre lustri disastrosi, con l’apice negativo raggiunto in seguito alla retrocessione in Second Division del 1974. I primi anni non sono facili, ma il club concede al tecnico il tempo necessario per ambientarsi e per costruire un progetto vincente. Dopo un’iniziale fase di assestamento, all’alba degli anni Novanta Ferguson riesce finalmente a mettere insieme una rosa competitiva e nel 1992 il Manchester United torna finalmente a vincere quel titolo inglese che mancava da ben ventisei anni e che nel frattempo aveva assunto il nome di Premier League.

Il ritorno al successo apre un ciclo di vittorie che durerà (seppur con qualche eccezione) per tutto il decennio. Al dominio della squadra in patria corrisponde però una fattuale difficoltà di affermazione in campo europeo: in Champions lo United incassa di anno in anno pesanti sconfitte che portano a cocenti e premature eliminazioni, per le quali lo stesso Ferguson finisce sul banco degli imputati.

Una sequela di delusioni che porta l’allenatore scozzese ad alcune intuizioni di carattere tecnico. Il dubbio è che giocatori affermati e carismatici come il centrocampista Paul Ince o il campione francese Eric Cantona non siano abbastanza affamati per trascinare la squadra alla conquista di quel titolo europeo che nel frattempo sta diventando un’ossessione. Questa nuova consapevolezza porta Ferguson a mettere in atto una lenta ma inesorabile rivoluzione all’interno della rosa: a partire dall’estate del 1995 i “vecchi” campioni saranno via via ceduti per essere sostituiti con giovani e talentuosi giocatori provenienti dal vivaio.

 

Sei ragazzi di Manchester – The class of ’92

Nicky Butt, Ryan Giggs, Paul Scholes, Gary Neville, Phil Neville e David Beckham.

Tra lo scetticismo e l’incredulità di molti, sono questi i nomi dei giovani giocatori che Ferguson vuole lanciare definitivamente nel grande calcio. A un primo sguardo sembrano ragazzi comuni, dal viso pulito e con un fisico non esattamente prestante. Vengono subito soprannominati “The Class of ’92”, perché in quell’anno avevano vinto con l’Academy del Manchester United la FA Youth Cup, uno dei trofei giovanili più prestigiosi d’Inghilterra.

Ferguson trova ben presto una posizione adatta a loro nel suo inossidabile 4-4-2: i fratelli Neville rimpinguano la difesa, Scholes detta i tempi a centrocampo mentre Butt deve sfruttare la sua capacità negli inserimenti. Le fasce, porzione di campo fondamentale per i principi di gioco del mister, vengono affidate ai due giovani più talentuosi: Ryan Giggs da una parte, David Beckham dall’altra. Il primo è un giocatore dalle lunghe leve, rapidissimo nel dribbling e molto abile in fase realizzativa. Beckham possiede invece un destro telecomandato che lo rende un abile crossatore e un fantastico battitore di calci piazzati.

L’impatto del nuovo Manchester con la Premier League è però burrascoso e avaro di soddisfazioni. Questi giovani calciatori, catapultati d’improvviso nel calcio che conta, sembrano non essere ancora pronti per giocare in una squadra come lo United, in cui ogni anno si ha il dovere di lottare per il titolo. Le critiche non tardano ad arrivare e in molti si chiedono se i Red Devils riusciranno a prolungare il loro ciclo vincente o se sia invece arrivato il momento di un “Change of the Guard”.

È in questo momento che Alex Ferguson si dimostra essere non solo un allenatore, ma un vero e proprio padre calcistico per i ragazzi della classe del ’92. Per lui che è cresciuto in una tipica famiglia della classe lavoratrice scozzese, la meritocrazia e il duro lavoro rappresentano l’unico mezzo attraverso il quale si possono ottenere i risultati. Conosce questi ragazzi da quando sono entrati nell’Academy a dieci anni, sa benissimo quali sono le loro qualità ed è consapevole dell’enorme potenziale. Decide di non cambiare idea e dare loro fiducia. Una scelta che trasforma Ferguson nel massimo punto di riferimento per la squadra, la quale crea attorno alla figura dell’allenatore quella coesione e senso di famiglia che a Manchester mancava da molto tempo.

Nel giro di poco tempo iniziano ad arrivare anche i risultati. La squadra sembra spiccare il volo da un momento all’altro, spinta dall’entusiasmo e dalla fame di vittoria di quei giovani che nel frattempo da brutti anatroccoli si sono trasformati in Fab Boys. A quel punto, in molti iniziano a intravedere nel nuovo Manchester United di Ferguson diverse analogie con i Red Devils di Matt Busby. L’uomo che con i suoi Busby Boys, ovvero i ragazzini lanciati in prima squadra dopo il tragico incidente aereo di Monaco che fece perdere la vita a molti dei campioni di dieci anni prima, dominò in Europa e vinse una storica Coppa dei Campioni nel 1968.

Per rispettare questo paragone mancava ancora la vittoria più prestigiosa. All’alba della stagione 1998, però, dopo due titoli e un secondo posto nei tre anni precedenti, il Manchester United sembra pronto per iniziare la missione verso il trofeo più ambito.

 

Il treble

Certe cose non esistono finché qualcuno le nomina, rendendole reali. Sarà per questo motivo che fino al 1999 nessuno in Inghilterra si affannava pensando alla realizzazione del “treble”, ovvero la vittoria di campionato, coppa nazionale e Champions League in una sola stagione. Appena un gradino sotto troviamo il “double”, il massimo risultato mai raggiunto da club inglesi sino a quel momento. Un traguardo comunque difficile ma meno prestigioso, che comprendeva la vittoria dei soli trofei nazionali. Con l’avanzare della stagione 1998/99, però, la possibilità di compiere quell’impresa ancora irrealizzata si fa sempre più concreta. Eppure l’anno calcistico non era iniziato nel migliore dei modi: il Manchester United era stato sconfitto in Charity Shield dal più agguerrito Arsenal di Wenger e a questa débâcle si era aggiunto un girone d’andata dall’andamento altalenante, in cui la squadra sembra ingolfata e arida di motivazioni.

A questo clima si aggiungevano le pressioni e le cattiverie che i tabloid perpetravano nei confronti della stella della squadra, David Beckham, reo di essere stato espulso l’estate precedente nel match contro l’Argentina, valido per gli ottavi di finale del Campionato del Mondo. Espulsione che, a detta di molti, fu decisiva per l’ennesima eliminazione mondiale dei Tre Leoni.

Quando tutto sembra pronto a precipitare, è di nuovo Alex Ferguson a prendere in mano la situazione. Il manager decide di chiudere le porte di Carrington a chiunque non facesse parte della squadra. “Noi contro tutti, noi contro il mondo”. È questo il grido di battaglia dal quale parte la rincorsa dei Red Devils verso la gloria. Da quel momento lo United rinasce e inizia un filotto di vittorie impressionante che lo porta a giocarsi tre titoli negli ultimi 270 minuti della stagione. Dal 16 al 26 maggio 1999, infatti, il Manchester gioca nell’ordine: l’ultima gara di campionato decisiva per la conquista del titolo, la finale di FA Cup e, soprattutto, la finale di Champions League.

 

Manchester United 2-1 Tottenham (1 su 3)

La scalata verso il sogno inizia domenica 16 maggio. Il Manchester, tallonato dai rivali dell’Arsenal distanti un solo punto, va in svantaggio a Old Trafford contro il Tottenham. Ma trova immediatamente la forza di reagire e ribalta la partita nel giro di cinque minuti grazie ai gol di Beckham e Andy Cole. Lo United è di nuovo campione d’Inghilterra. Per la quinta volta negli ultimi sette anni. Il primo dei tre obiettivi è stato raggiunto, ma il tempo per festeggiare è poco. Sei giorni dopo, a Londra, i Red Devils tornano in campo per la finale di FA Cup.

 

Manchester United 2-0 Newcastle (2 su 3)

Sabato 22 maggio 1999 va in scena una partita a senso unico. Il Manchester United entra in campo con grande concentrazione, determinato a chiudere la pratica Newcastle il prima possibile al fine di salvaguardare le energie in vista della finale di Barcellona. Teddy Sheringham, istrionico attaccante di riserva dei Red Devils, schierato nell’undici iniziale, non fa rimpiangere i titolari e al minuto 11 realizza il vantaggio dopo un’azione personale di pregevole fattura. Il raddoppio che chiude l’incontro si materializza al cinquantacinquesimo della ripresa. Il gol viene realizzato dal giocatore che in quel momento lo merita di più: quel Paul Scholes che per squalifica dovrà saltare la finale di Champions. Una consolazione, seppur magra, che cuce definitivamente la coccarda della FA Cup sulla maglia dello United.

Anche il secondo trofeo è stato conquistato. Adesso il sogno non è più così lontano, inizia a prendere forma. I giocatori, l’allenatore e i tifosi possono persino intravederlo. Mancano soltanto 90 minuti di fuoco per raggiungere lo storico treble.

 

La cavalcata verso la finale

Per aggiudicarsi la possibilità di giocare la partita più importante, il Manchester ha dovuto affrontare uno dei percorsi più difficili e travagliati della storia della massima competizione europea per club. Nella prima fase i Red Devils sono stati sorteggiati nel più classico dei gironi della morte. Gli avversari erano il temibile Barcellona di Figo e Rivaldo, il solido Bayern Monaco futuro finalista della competizione e i norvegesi del Brøndby, squadra apparentemente senza speranze ma che, come da tradizione per le squadre del Nord Europa, proponeva alle avversarie una trasferta insidiosa.

Lo United affronta questo girone con il pragmatismo tipico del suo allenatore. Riesce a chiudere le sei sfide con quattro pareggi contro le due big – alcuni rocamboleschi come il 3-3 a Barcellona, nel futuro teatro della finale – e due vittorie contro il Brøndby che portano nelle casse dei Red Devils i 6 punti necessari a superare il turno per il rotto della cuffia. Il format della Champions di allora non prevedeva gli ottavi di finale, bensì la qualificazione diretta ai quarti per le sei squadre vincitrici dei gironi e le due migliori seconde classificate. Tra queste figura proprio il Manchester United, che si aggiudica l’ultimo posto a disposizione per perseguire il sogno.

La fase a eliminazione diretta è un testa a testa tra i più forti club d’Europa. Un clan d’Élite al quale i Red Devils sentono di aver ormai acquisito il diritto di far parte. Ai quarti il Manchester United elimina senza troppe difficoltà – 3-1 il risultato complessivo – quell’Inter che era stata capace di chiudere la fase a gironi davanti a un Real Madrid non ancora galactico.

La semifinale prevede lo scontro con la  Juventus. I bianconeri di Lippi sono una corazzata che ha sempre raggiunto la finale nelle tre edizioni precedenti. È in questa occasione, come ammetterà lo stesso tecnico scozzese, che il Manchester United diventerà grande, e si sentirà veramente pronto a fare la storia. I Red Devils vengono messi sotto sul piano del gioco sia all’andata che al ritorno, ma esibiscono una tenacia impressionante che permette loro di restare sempre aggrappati alla partita e sferrare colpi mortiferi al momento giusto. A Old Trafford, Giggs riesce a pareggiare al novantaduesimo l’iniziale vantaggio di Conte. Al ritorno, lo United sotto 2-0 dopo soli 11 minuti per la doppietta di Inzaghi, riesce a rimettersi in corsa e realizza una rimonta clamorosa culminata con il gol di Cole al minuto 83.

Una semifinale al cardiopalma giocata dagli undici in maglia rossa con una ferocia e con un agonismo mai visti, che costa però a Ferguson la perdita per squalifica dei due giocatori che rappresentano la spina dorsale del centrocampo. Roy Keane e Paul Scholes non potranno prendere parte alla finale di Barcellona. Un colpo durissimo in vista della partita più importante degli ultimi trent’anni del club.

Juventus 2-3 Manchester United – semifinale di ritorno Champions League 1999

 

La notte più bella – Manchester United 2-1 Bayern Monaco (3 su 3)

Alle ore 20.30 del 26 maggio 1999 la tensione si taglia con il coltello. Gli spalti del Camp Nou di Barcellona sono gremiti di gente che attende l’ingresso in campo di Manchester United e Bayern Monaco, le due squadre che si contendono la Champions League. Ferguson ha dovuto fronteggiare il compito più spinoso: ridisegnare la squadra dopo il forfait dei due centrocampisti titolari. In molti si aspettano un cambio di modulo con il passaggio ai tre attaccanti, ma il tecnico scozzese decide di rimanere fedele al proprio credo e ripropone il solito 4-4-2 con Beckham spostato in mezzo al campo, lo svedese Blomqvist sulla sinistra e Giggs dirottato a destra.

Fin dalle prime battute della partita si capisce che la squadra non funziona come al solito. Gli automatismi collaudati non vengono replicati dai nuovi interpreti e la manovra si ingolfa. Dall’altra parte, il Bayern mette in campo fisicità e pressione a tutto campo e al sesto minuto si porta in vantaggio con un calcio di punizione realizzato da Basler. Da quel momento in poi, il match sembra prendere le sembianze di un tiro al bersaglio nel quale i bavaresi giocano al gatto col topo, con un avversario inerme e incapace di reagire. Il calcio però, si sa, è uno sport strano. Nonostante la miriade di palle gol, infatti, il match scivola via senza ulteriori marcature. E quando scocca il novantesimo, l’incontro sembra essere indirizzato verso una vittoria di misura in favore del Bayern. I tifosi del Manchester United, convinti di aver perso l’occasione che aspettavano da trent’anni, sono ormai disperati.

In quel momento però entra in campo il fattore che risulterà essere decisivo per la storia di questa finale: l’orgoglio dei Red Devils. Messi alle strette, gli uomini di Ferguson sanno che non avranno una seconda possibilità e si gettano in avanti con tutto l’ardore che hanno a disposizione. Senza più nulla da perdere, le gambe dei giocatori tornano improvvisamente a girare, gli schemi riprendono incredibilmente a funzionare. È così che Beckham trova finalmente lo spazio che sulla fascia cercava da tutta la partita: dopo una bella sgroppata, passa a Gary Neville che guadagna un calcio d’angolo sotto lo spicchio dei tifosi del Manchester che improvvisamente riprendono a cantare con tutta la loro forza.

È lo stesso Becks che si incarica della battuta con il suo destro tagliato verso la porta. Il cross arriva sul secondo palo e dopo un batti e ribatti viene respinto al limite dell’area sui piedi di Giggs. Il gallese calcia in modo insolitamente sporco, ma il suo tiraccio diventa un assist perfetto per Sheringham, che con l’istinto del rapace d’area gira in porta di prima intenzione il pallone del pareggio. 1-1. Lo United è ancora vivo.

Il settore dei tifosi inglesi ora ribolle. Mancano ancora due minuti e tutto fa pensare che la partita si deciderà ai supplementari. Ma i Red Devils, ora sulle ali dell’entusiasmo, vogliono provare a fare il colpaccio. I cori dei sostenitori diventano un grido di battaglia che spinge la squadra verso l’impossibile. Minuto 93, l’ultimo del recupero assegnato da Pierluigi Collina, lo United guadagna nuovamente un calcio d’angolo.

Nel frattempo Ferguson aveva provato il tutto per tutto: nell’indifferenza generale, l’attaccante norvegese Ole Gunnar Solskjær era subentrato al posto di Andy Cole. Una sostituzione sensata ma inattesa, dato che il nordeuropeo aveva giocato poco nel corso di tutta la stagione, pur senza creare mai alcuna polemica. È un ragazzo timido, abituato sin da bambino all’indifferenza degli altri. Ma crescere tra gli scogli e il vento dell’oceano ha temprato il suo carattere e l’ha reso un uomo deciso a prendersi la sua rivincita di fronte al mondo. E il suo momento arriva.

Ultima azione. Angolo di Beckham, Sheringham salta altissimo e prolunga il pallone di testa, la sfera arriva docile proprio sul destro di Solskjær, che da pochi passi non può fare altro che spingere in porta il più facile dei tap-in. È finita. Il Manchester United è campione d’Europa per la seconda volta nella sua storia.

I tifosi sono in visibilio, i giocatori della panchina corrono sul terreno di gioco per festeggiare la più clamorosa rimonta della storia del calcio europeo. Il campo in quel momento propone una fotografia che spiega alla perfezione l’essenza del Gioco: da un lato la gioia immensa di chi ha vinto quando pensava che tutto fosse perduto, dall’altro il dolore e lo sconforto di chi pensava di avere in pugno il trofeo che aspettava da tutta la vita. Il presidente UEFA dell’epoca Lennart Johansson, tre minuti prima del fischio finale, era salito sull’ascensore del Camp Nou per recarsi in anticipo verso la tribuna in cui avrebbe dovuto consegnare il trofeo ai vincitori. In seguito con una frase racconterà ciò che ha visto: “Sono salito sull’ascensore del Camp Nou vedendo in lacrime chi ha vinto, e ballare chi ha perso”.

Gli highlight della storica finale di Champions League tra Manchester United e Bayern Monaco

 


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Di Nicolò Panato

Laureato in Comunicazione e a breve in Marketing. Sono cresciuto a pane e calcio. Racconto storie di vita che si intrecciano col mondo dello sport.