Visit Rwanda sulle maglie: ennesimo caso di sportswashing?

Visit Rwanda - Puntero

È la sera del 6 aprile 1994. Sul televisore scorrono le immagini della semifinale di Coppa d’Africa in corso a Tunisi tra Zambia e Mali. Al di qua dello schermo – a quasi 5.000 chilometri di distanza, dal suo quartier generale sul confine ugandese – siede un uomo alto, magrissimo, giovane eppure già maturo. Incorniciato da una sottile montatura dorata che non fa che affilarne il viso, il suo sguardo si sposta in direzione dell’aiutante di campo che irrompe bruscamente nella stanza nel bel mezzo della partita. Le notizie che porta sono confuse. Riferisce di un’esplosione avvenuta a Kigali, la capitale del Ruanda. Parla di persone in fuga verso il parlamento, di movimenti di truppe.

I pensieri più foschi si addensano nella mente di Paul Kagame e trovano conferma pochi minuti più tardi, quando uno dei suoi comandanti lo informa della gravità della situazione. L’aereo sul quale viaggiava il presidente del Ruanda Juvénal Habyarimana è stato appena centrato da un missile ed è precipitato a pochi metri dalla pista di atterraggio. È il segnale che spalanca le porte dell’inferno nel “Paese dalle mille colline” (questo il significato originario di “Ruanda”), un toponimo che ancora oggi non smette di evocare il ricordo del genocidio di trent’anni fa ma sul quale, a suon di milioni, quell’uomo che imbracciò le armi durante una partita di Coppa d’Africa intende oggi mettere una toppa.

 

Una manica da 30 milioni di euro

La toppa in questione è quella che dal 2018 campeggia sulla maglia dell’Arsenal. Nel maggio di quell’anno, infatti, le agenzie di stampa danno notizia del contratto di sponsorizzazione che il club londinese sigla con il Rwanda Development Board che, alla modica cifra di 30 milioni di euro, si guadagna il diritto di apporre per le successive tre stagioni lo slogan Visit Rwanda sulla manica sinistra di Aubameyang, Özil e compagni.

In quel momento le visualizzazioni giornaliere del marchio Arsenal nel mondo sono stimate in 35 milioni, un dato che evidentemente accende la fantasia di Kagame, ora che è lui il presidente del Ruanda e che per il calcio ha sempre avuto una certa predilezione, almeno da quando – in seno al Fronte Patriottico del Ruanda da lui guidato – vide la luce l’A.P.R. FC (Armée Patriotique du Rwanda), vincitore di 22 degli ultimi trenta campionati nazionali e divenuta in breve tempo la squadra più titolata del paese.

Al fine di trarre il massimo da quella piccola porzione di stoffa pagata tanto caramente da un Paese il cui reddito pro capite non raggiunge i 1.000 dollari l’anno, la campagna di rebranding tesa a promuovere il Ruanda come destinazione turistica non tralascia di coinvolgere attivamente i giocatori dell’Arsenal. A inaugurare questa strategia è David Luiz. È il difensore brasiliano il primo testimonial selezionato per il soggiorno di lusso che nel 2019 lo porta tra i gorilla del Volcanoes National Park, ma anche a colloquio con lo stesso Kagame, al memoriale del genocidio e infine, di fronte a una platea di giovani tifosi agghindati come piccoli Gunners, al Kigali Convention Center che – dall’alto dei 300 milioni di dollari richiesti per la sua costruzione – è oggi uno degli edifici più costosi d’Africa.

David Luiz in compagnia dei gorilla al Volcanoes National Park.

 

Oltre a raccomandare il Ruanda quale località di villeggiatura ideale per tutta la famiglia, a colpire sono le parole che al termine del viaggio David Luiz dedica all’impressione destatagli dal Paese, in piena aderenza al copione scritto e interpretato da Kagame dall’inizio dei suoi sette mandati presidenziali:

Devo dire di essere stato ispirato da quanto ho trovato progredito questo Paese e da quanto rapida sia la sua crescita.

 

Paul Kagame, padre del Ruanda moderno

È sempre stato un uomo ambizioso, spregiudicato e soprattutto risoluto, Paul Kagame. Fin da quando, poco più che ventenne, decise di arruolarsi nella milizia ugandese, erede di quella che solo un paio di anni prima aveva contribuito a deporre il famigerato Idi Amin. Dall’età di quattro anni trascorre la giovinezza da rifugiato proprio in Uganda, dove fuggì nel 1961 in seguito a uno dei primi pogrom, che costrinse all’esilio migliaia di cittadini tutsi, etnia minoritaria di origine pastorale ma storicamente dominante nel Ruanda coloniale. Gli hutu, dediti prevalentemente all’agricoltura, rappresentano invece l’85% della popolazione ma solo alla vigilia dell’indipendenza del 1962 sovvertono l’ordine costituito guadagnandosi i favori dei coloni belgi, evidentemente interessati a lasciare un buon ricordo a coloro che – in virtù di un mero calcolo aritmetico – avrebbero detenuto le leve del potere del neonato stato africano.

Figlio di un imprenditore e di una cugina di quella che sarà l’ultima regina del Ruanda, della sua infanzia in Uganda Kagame ricorda – più che veri e propri episodi di razzismo – l’invisibile ma persistente distanza che i locali anteponevano tra sé e i rifugiati, ricordandogli costantemente come quella non fosse casa loro. È questo sentimento di sradicamento ad alimentare un senso di rivalsa che lo motiva ad adottare la più estrema delle soluzioni pur di riprendersi la sua terra. La formazione in cui Kagame riceve il suo addestramento militare è la stessa che nel 1986 instaura colui che è tuttora il presidente dell’Uganda: Yoweri MuseveniOttenuto appena trentenne l’incarico di direttore dell’intelligence militare, Kagame però non ha dubbi su quale sia il suo reale obiettivo. È così che, a partire dalla nutrita schiera di rifugiati tutsi di origine ruandese allora inquadrata nell’esercito di Museveni, comincia a coagularsi il nucleo di quello che diverrà il Fronte Patriottico del Ruanda (FPR): il gruppo paramilitare che tra gli anni ’80 e ’90 ingaggerà una logorante guerriglia con il governo di Kigali.

Attorno all’allora presidente ruandese Habyarimana monta il sentimento anti-tutsi dopo che la firma di un accordo mediato dall’ONU lo vincola a formare un governo di transizione al cui interno trovano posto anche elementi del FPR. La sua morte apre i cento giorni di sangue che lasciano sul campo una cifra che oscilla tra le 500.000 e il milione di vittime tra tutsi, hutu moderati e altre minoranze, ma che è solo il culmine di un processo pluridecennale che, a profondità variabili, non ha mai smesso di scuotere la società e la politica del Ruanda, trascinando con sé tutta la regione dei Grandi Laghi.

A partire da quella notte, in soli tre mesi Kagame porta a compimento un’implacabile discesa verso sud, sordo alle richieste di cessate il fuoco avanzate dall’ONU, alle quali si dichiara disposto a cedere solamente in cambio dell’interruzione di quei massacri ai danni dei tutsi che continuano senza sosta nelle aree controllate dal governo. Il 4 luglio del 1994 il FPR entra a Kigali ponendo di fatto fine al regime hutu e gettando le basi di quello che è tuttora l’assetto democratico, o presunto tale, del Paese.

 

Il paradosso ruandese

Trent’anni dopo, i segni del genocidio rimangono visibili su un Paese ancora fortemente dipendente dal sostegno finanziario internazionale ma che, sotto le profonde cicatrici, mostra vitalità, dinamismo e stabilità innegabili. A quanti gli rinfacciano l’incoerenza di un investimento in una società milionaria come l’Arsenal da parte di uno Stato che trae ancora il 40% del suo budget dagli aiuti internazionali, Kagame risponde che è proprio l’eccessiva dipendenza dalle donazioni estere e dalle pressioni che ne derivano a rendere necessarie simili operazioni. Nella consapevolezza di questa fragilità risiede l’attenzione che storicamente Kagame ha riposto nella costruzione di una solida reputazione presso la comunità internazionale. Una reputazione che parte dal ruolo di pacificatore generalmente riconosciutogli negli anni successivi al genocidio e che oggi va consolidandosi tramite l’attivismo del Ruanda nel turbolento contesto regionale.

Non è un caso se, nonostante i 14 milioni scarsi di abitanti, quello ruandese sia oggi il terzo contingente più numeroso tra quelli impegnati nelle missioni di peacekeeping dell’ONU, mentre in sede diplomatica intrattiene un ambiguo triangolo con Francia e Gran Bretagna. Corteggiato da Macron – che gli ha offerto la segreteria generale dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia – e allo stesso tempo membro del Commonwealth, il Ruanda si è addirittura offerto come sponda per il piano di esternalizzazione dell’accoglienza dei rifugiati intrapreso dal Regno Unito e che, è lecito pensare, abbia in qualche modo ispirato l’accordo tra Roma e Tirana per il trasferimento dei richiedenti asilo soccorsi dalle autorità italiane in centri di identificazione e accoglienza sul suolo albanese.

Da sempre simpatizzante dei Gunners, Paul Kagame ha ora un motivo in più per tifare Arsenal

 

Dall’inizio del nuovo millennio, il PIL ha registrato una crescita media del 6% l’anno, con punte anche dell’11%. L’accesso all’energia elettrica è passato dal misero 1% precedente alla guerra all’attuale 47%, mentre la speranza di vita alla nascita è balzata da circa 50 a quasi 70 anni. A destare ancora più impressione – ed è questa l’altra faccia della campagna Visit Rwanda – è la classifica stilata dalla Banca Mondiale relativa ai Paesi nel quale è più agevole aprire e condurre un’impresa e dalla quale il piccolo stato africano emerge come un ambiente estremamente business-friendly, terreno fertile per gli investimenti stranieri e, al netto del ripiegamento registrato durante la pandemia, con flussi in costante crescita.

Le flessibilità regolamentari hanno infatti portato il Ruanda al 38° posto a livello globale nella graduatoria degli Stati in cui è più facile fare impresa (per fare un raffronto, l’Italia si trova venti posizioni più indietro) e al secondo in Africa, con un’invidiabile terza posizione assoluta per quanto riguarda l’accesso al credito (l’Italia è al 119° posto). Numeri dietro ai quali si scorgono gli insospettabili orizzonti sognati da Kagame per il suo Paese e sintetizzati nella cosiddetta Vision 2050: un programma per obiettivi presentato nel 2020 che sottende una strategia di sviluppo mirata a inserire il Ruanda entro la metà del secolo nel novero di quelli che la Banca Mondiale classifica come high income countries i Paesi ad alto reddito pro capite. Un club esclusivo da sempre precluso all’Africa, tolti piccoli arcipelaghi a vocazione turistica come Seychelles e Mauritius o Paesi a economia spiccatamente petrolifera come quella della Guinea Equatoriale.

 

Calcio e non solo

La reputazione che Kagame ha saputo coltivare nel tempo oggi si gioca su più tavoli, non ultimo quello sportivo. Da quella manica da 30 milioni di euro sono passati quasi cinque anni ormai. Un periodo sufficiente per trarre delle conclusioni che evidentemente il governo ruandese ha giudicato positive. 1 milione di visitatori e 445 milioni di dollari di entrate per il solo 2022 sono numeri che, a quanto pare, giustificano il rinnovo del contratto di sponsorizzazione con l’Arsenal, esteso fino al 2025, per un totale di 40 milioni di euro in quattro anni. L’iniziativa però non si è limitata a un semplice rinnovo, bensì ha rappresentato un vero e proprio rilancio che ha coinvolto altri due top club come PSG e Bayern Monaco.

Il primo accordo con i parigini risale addirittura al 2019, quando il Rwanda Development Board (RDB) si accorda per far comparire il logo Visit Rwanda sul tabellone del Parco dei Principi, sulla maglia della squadra femminile e sui kit pre-gara di quella maschile in cambio di 8 milioni di euro per tre stagioni. Accordo poi rinnovato, anch’esso fino al 2025, con la curiosa clausola che riconosce al Ruanda l’esclusiva sulla provenienza del caffè servito all’interno dello stadio. Una sponsorizzazione che inoltre suggella il legame con Qatar Airways, main sponsor dei francesi nonché detentrice del 49% della compagnia di bandiera ruandese e del 60% del nuovo aeroporto internazionale in costruzione nel distretto di Bugesera, la cui prossima apertura promette di elevare il Paese a futuro hub dell’Africa orientale.

Il Qatar lega a sua volta i destini del Ruanda e del suo ultimo partner, quel Bayern Monaco spesso citato quale esempio di etica e rigore finanziario. Al termine della stagione 2022-23, infatti, il club bavarese annuncia la fine del contratto di sponsorizzazione che nei cinque anni precedenti lo aveva legato alla compagnia aerea qatariota. Causa del mancato rinnovo è stata indicata da più parti l’opposizione della tifoseria, particolarmente critica nei confronti della condotta dello stato mediorientale in tema di diritti umani. Ebbene, solo pochi mesi più tardi il Bayern annuncia la firma del contratto con il Rwanda Development Board che – in cambio di una cifra che, si stima, si aggira attorno ai 5 milioni di euro a stagione – proietterà fino al 2028 il marchio Visit Rwanda sugli schermi dell’Allianz Arena.

Di qualche mese successivo è infine il contratto concluso dal RDB con la CAF, la confederazione africana che, alla caccia di sponsor per la neonata African Football League, ha trovato in Arabia Saudita e Ruanda gli unici partner disposti a finanziare la sua ultima creatura.

Visit Rwanda però non è solo calcio. Sebbene in tono minore rispetto a Qatar e Arabia Saudita, con le limitate risorse a disposizione, anche il Ruanda guarda all’organizzazione in prima persona di eventi internazionali quale vetrina privilegiata per guadagnare visibilità e, in ultima istanza, attrarre investimenti. Esecutore materiale di questa strategia su larga scala è Clare Akamanzi. Avvocato di formazione, originaria della diaspora tutsi in Uganda al pari di Kagame, è stata negoziatrice per il Ruanda presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio, membro dell’ambasciata ruandese a Londra e soprattutto amministratore delegato del RDB, del quale ha fatto parte dalla sua costituzione – avvenuta nel 2008 – fino allo scorso anno.  È lei ad aver tenuto a battesimo i più importanti contratti siglati negli anni, compreso quello sottoscritto da NBA e FIBA per la creazione della Basketball Africa League: un torneo stile Eurolega che dal 2021 riunisce ogni anno alla Kigali Arena dodici tra i migliori club africani. Un impegno che testimonia il riconoscimento del Ruanda come partner strategico per la penetrazione della NBA nel mercato africano, ulteriormente ribadito con la nomina della stessa Akamanzi quale amministratore delegato di NBA Africa.

Nel frattempo il Ruanda ha organizzato i campionati africani di basket e di pallavolo per nazioni nel 2021, programma il ritorno della Formula 1 in Africa con un gran premio che potrebbe già disputarsi nel 2026 e si appresta a celebrare quella che al momento rappresenta la pietra miliare di questo processo di apertura al mondo: l’assegnazione dei prossimi Mondiali di ciclismo, previsti a Kigali nel settembre del 2025.

 

L’ennesimo caso di sportswashing?

I numeri e soprattutto la narrazione che ne è stata tratta restituiscono un quadro incoraggiante. Tuttavia è difficile ipotizzare come le ricadute positive su un settore che pesa per poco più del 10% sull’economia nazionale come il turismo possa trainare il Paese fuori dall’estrema povertà nella quale ancora si trova, in modo analogo a quanto a fece la manifattura in Estremo Oriente a partire dagli anni ’70. Allora, è dunque possibile che non si tratti di solo turismo? Secondo i rapporti di alcune associazioni per la difesa dei diritti umani come Human Rights Watch, assolutamente sì. Sono tante le voci di attivisti, politici dell’opposizione, giornalisti che si levano contro il giogo che Paul Kagame avrebbe stretto attorno al Paese del quale si presenta come il liberatore. La più nota al pubblico occidentale è senza dubbio quella di Paul Rusesabagina, il controverso direttore d’albergo reso celebre dal film Hotel Rwanda, che durante il genocidio riuscì a proteggere dalle milizie hutu circa 1.200 ospiti della sua struttura.

A lungo residente all’estero e divenuto progressivamente sempre più critico nei confronti di Kagame, nel 2020 è stato vittima di un rapimento che lo ha ricondotto in Ruanda, dove è stato condannato a 25 anni di carcere, prima che una mediazione condotta da USA e Qatar ne permettesse il rilascio nel 2023. Nel frattempo Carine Kanimba, figlia adottiva di Rusesabagina, faceva sentire la sua voce dagli schermi di Channel 4:

Bisognerebbe convincere club come l’Arsenal a smettere di ricevere soldi da un dittatore.

Sono altresì insistenti le accuse circa il coinvolgimento del Ruanda nella destabilizzazione della confinante Repubblica Democratica del Congo (non a caso il TP Mazembe è stata l’unica squadra partecipante all’African Football League a non vestire il logo Visit Rwanda sulle divise), che non fanno che agitare il fantasma dell’ennesimo caso di sportswashing da parte di un regime che, al pari delle monarchie del Golfo, si servirebbe dello sport per distogliere l’attenzione su abusi nei confronti dei quali i suoi partner sembrano più che disposti a scendere a patti.

Come Kagame è solito ricordare ai media occidentali, il concetto di democrazia non è univoco e non dovrebbe coincidere necessariamente con l’interpretazione che se ne fa in Europa e Nord America. Un’interpretazione della quale a Kagame non sfugge l’ironia quando si vede rimproverare le percentuali prossime al 100% che negli ultimi 24 anni lo hanno ripetutamente confermato alla presidenza a fronte di affluenze che in Occidente sono in costante ribasso. Contraddizioni che rivelano l’ipocrisia e la porosità di un sistema che la spregiudicatezza dei nuovi attori globali sta mettendo in evidenza, aprendo crepe nelle quali anche un piccolo Stato africano dalla fama sinistra oggi può trovare posto in un tranquilla serata di coppa.

 


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