Il documentario di Netflix su Vince McMahon è un’atroce bugia

Vince McMahon - Puntero

Sul momento, reduce dalla visione delle sei puntate della serie-documentario prodotta da Netflix e intitolata Mr. McMahon – che parla, appunto, di Vincent Kennedy McMahon, l’ex patron e chairman della World Wrestling Entertainment – ritenni di aver perso sei ore della mia vita. Adesso, a mente fredda, posso dire di averne perso giusto cinque e mezzo.

La base è questa: il documentario dovrebbe analizzare, in 6 episodi, la controversa figura di McMahon. Un miliardario al centro del proprio prodotto, capo del creative – il team di persone che decide quali personaggi e storie mandare in onda tramite il medium del wrestling – e, in generale, mammasantissima della propria federazione, capo assoluto la cui autorità è sempre finale. Per farlo si adopera una narrazione dell’ascesa di Vince McMahon, dall’infanzia fino al successo miliardario, e della WWE con lui attraverso i suoi momenti topici. A ciò si accompagnano anche gli scandali, le luci e le ombre, con testimonianze varie di wrestler, giornalisti, produttori televisivi, persone con cui McMahon ha lavorato, amici e nemici.

 

Netflix e wrestler non sono credibili

E già qui sorge il primo problema: le persone che lavorano nel mondo del wrestling sono perlopiù bugiarde. Dal più pagato dei nomi blasonati al più indipendente dei lottatori indipendenti, è raro che uno di loro non abbia alcun problema nell’abbellire o cambiare la propria versione dei fatti a seconda di cosa gli fa più comodo dire in quel momento, al solo scopo di promuovere se stessi o le persone che gli fanno guadagnare soldi. Peggio ancora quando diventano brand, come John Cena o The Rock: le loro risposte smettono di essere umane, apparendo robotiche come quelle scritte da ChatGPT.

E così si arriva a opere come il documentario prodotto da Netflix: un documento non solo profondamente anti-storico, ma anche spudoratamente inteso come promozione per la WWE, che presto manderà in onda il suo show di punta – Monday Night Raw – ogni lunedì a partire da gennaio, proprio sulla piattaforma di streaming più grande del mondo. Solo da poco, alla luce degli scandali, il tutto è stato arrangiato per essere un po’ più sobrio e neutrale nei toni e nell’analisi della “persona” McMahon.

Il giudizio suonerà forse troppo duro: quello di Netflix non è un documentario pensato per chi è un fan della WWE, dopotutto, ma per il pubblico generalista. Ciò che emerge all’interno delle sei puntate della miniserie è il ritratto di un uomo duro, controverso, che ha messo in TV un prodotto razzista e politicamente scorretto che oggi ci sembra fuori dal mondo, ma comunque un uomo che ha sempre fatto di tutto per il business globale che ha messo in piedi. Una figura quasi romantica ma al tempo stesso da non idolatrare, alla Logan Roy di Succession, serie TV che negli anni tanti paragoni ha ricevuto, da parte di chi segue il wrestling, con McMahon e le sue vicende personali.

Il fatto è che tutte queste cose un fan le sa già da anni e anni. Ed è davvero estenuante vedere quante volte, per una cosa detta all’interno del documentario, bisogna appuntare una specie di asterisco e dire “no, non è andata proprio così”. Se ne perde il conto. Ci vorrebbe un mese a guardare così queste sei puntate. Ci vorrebbero una decina di articoli solo per correggere ogni inesattezza, omissione, bugia. Non c’è niente di nuovo in questa serie del 2024 per chi segue il wrestling da un po’ di tempo e si interessa di quello che succede dietro le quinte. E quasi niente di vero. O, quantomeno, verificabile come tale.

 

Vince McMahon: bugie, abusi e l’amicizia con Trump

Chi non segue questa forma di sport-spettacolo, invece, fatica a credere a quello che vede. Di norma, apprendere degli eventi e delle persone legate al mondo del pro wrestling è paragonabile a ad approcciarsi alla mitologia di una civiltà aliena: sembra tutto troppo assurdo per essere anche solo compreso. Personaggi fuori da ogni logica, comportamenti che nella società civile ci sembrano deprecabili ma che in questo mondo tendono a essere non solo la norma, ma anche il miglior modo di comportarsi. Un mondo iper-testosteronico, fuori da ogni logica.

E a capo di questo mondo troviamo il Dio Vincent Kennedy McMahon. Un uomo di cui è estremamente difficile scrivere, sia da un punto di vista fattuale che etico; dopotutto, se una delle missioni del giornalismo dovrebbe essere quella di analizzare quelli che sono, alla base, i fatti realmente avvenuti, come si può capire cosa è avvenuto e cosa no con un uomo come McMahon, la cui intera vita sembra una bugia costruita ad arte? Un uomo che, da fan, io chiamo per nome: Vince. Perché l’ho visto fare cose che tolgono ogni riverenza possibile per qualcuno che non si conosce, come infilare la faccia nel culo di un suo lottatore.

 

Di Vince non ci si può fidare. Niente di quello che dice ha il beneficio del dubbio: non se lo merita, dopo anni di bugie dette a cuor leggero. Ho già scritto di Vince McMahon una volta, in un articolo che oggi limerei e cambierei levando alcune ingenuità: quando lo scrissi era stato allontanato dalla WWE per la prima volta, ufficialmente “ritirato” per l’età e non per le accuse di molestie sessuali mossegli da Janel Grant, di cui Vince McMahon avrebbe abusato in maniere orribili assieme a Brock Lesnar e John Laurinaitis (ex dirigente WWE e uno dei bracci destri di McMahon, casualmente mai nominato all’interno del documentario). Tornato nemmeno due settimane dopo per riappropriarsi della WWE con un vero e proprio coup d’Étât per venderla a Ari Emmanuel e formare il super-gruppo TKO, Vince ha di nuovo mollato tutto quando Grant lo ha portato in tribunale.

Chi è Vince McMahon? Non la figura tracciata nel documentario, nonostante gli interventi dell’ex wrestler Tony Atlas e dei giornalisti Dave MeltzerPhil Muschnick a controbattere alle menzogne di Vince; forse non lo sa nemmeno più McMahon stesso. Eppure è un uomo importantissimo. Josie Riesman, autrice di una eccellente biografia “non autorizzata” su Vince, Ringmaster, parla di Vince McMahon come la cosa più vicina possibile a un “migliore amico” che ha l’ex Presidente degli Stati Uniti e attuale candidato alla presidenza, Donald Trump. Vince era una delle persone con cui Trump desiderava parlare in privato, uno dei pochi che non solo non era possibile intercettare, ma nemmeno ascoltare qualora i due parlassero al telefono.

Eppure nessuno parla di lui. A nessuno sembra importare; i media italiani, o i media in generale, questo documentario non lo hanno calcolato granché. Dopotutto il giornalista Dave Meltzer, il maggiore esperto di cronaca del wrestling, lo dice apertamente più volte nel documentario: del wrestling non frega niente ai media. È qualcosa di sporco, da giornale scandalistico, roba che noi associamo ai programmi di Barbara D’Urso. Anche i media del settore sportivo la giudicano robetta controversa e di cui alla fine a nessuno importa. Se non puoi parlarne bene non parlarne affatto. È wrestling, chi se ne importa? Al massimo basta capire se è “vero o finto”.

 

WWF e WWE tra stereotipi e dispotismo

È anche grazie a questa mentalità che Vince ha sempre vinto, facendo cose che un qualsiasi altro milionario più in vista avrebbe evitato di fare se non avesse voluto perdere immagine o potere: dal truffare in diretta i propri dipendenti al trattamento delle donne nei suoi programmi, dallo sfruttamento dei propri wrestler fino all’utilizzo di temi sensibili quali il terrorismo o il razzismo per fare soldi. Ci sono lunghi stralci nel documentario dedicati a spiegare come è ovvio che il prodotto della WWF (oggi WWE) sia invecchiato male: era un’epoca più razzista, sessista, politicamente scorretta di oggi. Loro promuovevano qualcosa che fosse in accordo con l’esprit du temps.

Nessuno ha sottolineato come loro non dovessero farlo e come no, questa non è minimamente una giustificazione per promuovere personaggi come l’arabo terrorista o l’invasore giapponese che vuole vendetta per Pearl Harbor. Dopotutto sono solo giustificazioni pedestri. McMahon, una volta, durante un episodio di Raw, la mise così, parlando al pubblico in arena in character: “Voi non sapete cosa vi piace! Io vi dico cosa vi piace e voi ve lo fate piacere!”. Altro che seguire le mode: Vince vuole dettare le tendenze. E se quelle tendenze includono razzismo vecchio stampo, sessismo becero e chi più ne ha più ne metta, beh: l’importante è che se ne parli, no? E se piace, ancora meglio.

Certo, è una dichiarazione fatta come il personaggio Mr. McMahon, non come la persona Vince McMahon. Ma non chiude lui stesso il documentario dicendo che a volte non sa dove inizia l’uno e finisce l’altro? E non dicono tutti i suoi colleghi, amici, nemici e collaboratori che l’uomo Vincent Kennedy McMahon è esattamente come il personaggio che interpreta? Quest’uomo ci costringe all’eterna speculazione per non farci dare un giudizio vero e proprio.

Per questo occorre parlarne, scriverne, mettere sotto scrutinio ciò che viene detto o fatto. Vince McMahon non è un uomo unico tra tutti gli altri: ce ne sono tanti, troppi come lui. Bugiardi cronici, o che abusano del proprio potere per cambiare la storia, la narrazione, i modi in cui sono andate le cose. È anche per questo che esiste il giornalismo. Per assicurarsi che la storia, e le storie, abbiano una pluralità di voci che parlino e vengano ascoltate. E non solo quella di un miliardario che si vanta di aver impedito ai propri lottatori di formare un sindacato per poterli sfruttare meglio.

 


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