A Sunderland il calcio è una cosa maledettamente seria. E lo è al di là di ogni enfasi, romanticismo d’antan o retorica pelosa. Come può esserlo solo quando sofferenza, delusione e frustrazione uniscono, stringono e raccolgono la gente intorno a una squadra. Un’ancora di salvataggio emotivo sbilenca e tutt’altro che sicura, a cui il sentimento popolare non può che attaccarsi comunque, come spesso accade quando vivi in un’area economicamente depressa da una vita e con ben poche prospettive di ripresa, come il nord-est d’Inghilterra. Sono le sconfitte, si sa, la vera unità di misura dell’amore incondizionato nei confronti di una casacca, dei suoi colori e delle due dozzine di professionisti che la vestono con minori e maggiori cura e rispetto. E a Sunderland, prima e dopo una decina d’anni di relativa serenità calcistica a cavallo degli anni ’10, hanno una più che discreta confidenza con il concetto di sconfitta.
Il Sunderland e Netflix per rilanciarsi
Una proprietà americana – Ellis Short e il suo fondo di private equity – ricca ma assente, che nello spietato oceano della Premier ha gestito l’asset finanziario Sunderland senza programmazione né un minimo di continuità tecnica, convinta che un’infinita girandola di nomi e investimenti, per quanto importanti, sarebbero stati sufficienti per restare a galla all’infinito e produrre utili. La dolorosissima retrocessione in Championship del 2016-17 era un’occasione troppo ghiotta per non accendere le luci su una situazione estremamente esemplificativa di quanto pesi il moderno misunderstanding su cosa sia e rappresenti in una società di calcio il rapporto tra tifoseria e proprietà. E un’occasione per lo stesso Short che, stufo di sborsare senza ottenere ricavi, vedeva nella proposta di Netflix una ghiotta opportunità per attirare nuovi investitori.
Forse i produttori della serie Netflix, all’alba della retrocessione del Sunderland dalla Premier League, si crogiolavano nella prospettiva di raccontare quella che potenzialmente avrebbe potuto essere una narrazione di orgoglio e faticoso riscatto: un allenatore più che abituato a navigare tra le mille trappole dell’infinita Championship; una rosa corta e non eccezionale ma equilibrata nella sua mescolanza di vecchie lenze della Premiership e giovani di buona prospettiva; una dirigenza moderna che assicurava di avere le carte in regola per riuscire a sposare gestione economica e rendita sportiva, dopo che il proprietario Ellis Short aveva concluso la stagione delle spese pazze e chiuso i rubinetti. Le nuove, rigide linee guida erano quelle della programmazione e dell’austerità, piuttosto che quelle dell’investimento feroce. Il tutto al netto di spese faraoniche per la gestione strutturale e alcuni ingaggi fuori mercato.
La maggior parte delle volte ti rovina l’intera fine settimana.
Di certo difficilmente avrebbero potuto prevedere di aver puntato le luci sulla ricetta del disastro perfetto.
Un inizio difficile
Sin dalla prima metà del primo episodio, l’aria che tira è tutt’altro che buona. O meglio, è sempre la stessa: uno 0-5 perentorio dal Celtic, tifosi in rivolta e, di nuovo, rabbia, frustrazione e delusione. E siamo solo al 29 luglio, ma la musica racconta ancora della maledizione di un amore sistematicamente non corrisposto. Al di là delle intenzioni dei produttori, nel corso delle due stagioni sarà questo l’unico, vero leit motiv sotterraneo dell’intera serie: il conflitto irrisolvibile tra aspettative e risultati, proiezioni e realtà, cielo e fango. Le dolorose sorti del Sunderland entrano nelle omelie domenicali, dominano le chiacchiere quotidiane, alimentano il livello di disillusione di un’intera comunità: un elemento di totale identità comunitaria tanto quanto lo può essere una fede religiosa, un legame di sangue o un amore che, per quanto unilaterale, nessuno si permetterebbe mai di mettere in discussione.
È questo che ci racconta Sunderland ‘til I die, la serie Netflix che ha in qualche modo riscritto, chissà quanto intenzionalmente, le regole di una certa retorica nella narrazione sportiva. Perché quella tra il Sunderland e i suoi tifosi è una storia d’identità e amore non corrisposto che funziona secondo regole vecchie di secoli e che su quelle si regge, nonostante i più o meno comprensibili tentativi di portare il rapporto a un livello successivo, secondo le più moderne tecniche di fidelizzazione del proprio bacino di utenza da parte del club. Tecniche rivolte a gente che poco sa che farsene degli studi di marketing, delle promozioni che non hanno a che fare con posizioni in classifica, delle innovative strategie comunicative e promozionali.
Non è un caso che più di una telecamera della produzione, troppo insistente nel documentare speculativamente la rabbia di tifosi dei Black Cats esasperati, sia finita in mille pezzi. La sofferenza è sacra, può essere condivisa solo con i propri pari. Perché semplicemente, se davvero può esistere, non è certo questa una possibile grammatica comune tra pancia e cervello del sistema calcio. Un irrisolvibile quanto intenzionale gap di comunicazione e comprensione reciproca tra tifoseria e direzione che è estremamente esemplificativo di ciò che è diventato oggi il mondo del calcio professionistico, con l’applicazione delle dinamiche a stelle a strisce agli sport di squadra.
Io non credo che qui si tratti di calcio al momento. C’è il Sunderland e la gente di Sunderland. La metà di loro non ha niente nella vita. Neanche un vaso in cui pisciare. Eppure sono qui.
Un’altra retrocessione
C’è uno specifico momento, nel corso della seconda stagione del documentario – successiva alla seconda retrocessione consecutiva – che testimonia più di qualsiasi altro esempio lo scollamento ormai cronico in atto ormai da decenni tra la base viva, pulsante e rigorosamente irrazionale dell’universo calcio, la tifoseria, e i padroni del vapore, coloro che investono i soldi direttamente o per interposta persona e che le provano tutte per aumentare l’appeal di ciò che andrebbe trattato come un prodotto puro.
Ad un certo punto Charlie Methven, nuovo CEO della società e moderna creatura di marketing e pubbliche relazioni messo a capo dalla nuova proprietà rappresentata dall’oxfordiano Stewart Donald, con sincero entusiasmo promuove un’iniziativa che vorrebbe “far vibrare lo stadio” inserendo un dozzinale pezzo di trance music per accompagnare l’entrata in campo dei giocatori. L’effetto, con una tifoseria capacissima di far vibrare uno stadio di League One con la sola propria voce, è tanto straniante quanto castrante.
Una spettacolarizzazione forzata, artificiale e volgare. Emozione ricostruita dall’intelligenza artificiale. Un fragoroso peto durante un matrimonio. Come se il rispetto di certe ritualità fondative non fosse un elemento fondamentale negli equilibri degli ecosistemi umani in generale e del calcio in particolare, rito esso stesso. Come se non bastasse, se i risultati e i progetti di un complicato autofinanziamento – che presto vedrà la luce – non si rivelassero all’altezza delle aspettative, si tornerebbe presto al via, nonostante il pubblico faccia come al solito ben oltre le proprie possibilità oggettive, tanto da far registrare il nuovo record di presenze di League One in occasione del Boxing Day del 2020 e invadendo Londra per riempire Wembley, 450 chilometri di distanza, per la finale di Checkatrade Cup.
Abbozzi di rinascita
La tanto annunciata “nuova alba” tarda ad arrivare e a fine campionato, in seguito alla sconfitta nei playoff, il Sunderland è costretto a giocare il secondo campionato di fila in League One. L’anno successivo i Black Cats otterranno il peggior piazzamento della propria storia, arrivando ottavi in classifica. Ma la narrazione ormai non è più dinamica, condannata com’è a un eterna rincorsa dall’abisso, che potrebbe a questo punto produrre sadico piacere solo dalla odiate parti di Newcastle o Middlesbrough. Ormai il sostanziale, sistematico abbassamento del livello del prodotto Sunderland e l’assenza di un twist narrativo davvero positivo, come il sempre mancato ritorno del club biancorosso in Championship, raffredda gli entusiasmi dei produttori, che saltano due intere stagioni calcistiche e riducono quella che dovrebbe essere la terza stagione a un format estremamente light.
Lo spunto, pur ridotto a tre episodi che riassumono simbolicamente ma in modo poco chiaro lo sviluppo degli eventi, lo dà l’ennesimo cambio di proprietà: gli strascichi della precedente gestione e il sostanziale fallimento di quella attuale hanno abbattuto ogni prospettiva di crescita tecnica ed economica della società finché, alla ricerca di investitori di supporto, Stewart Donald non entra in contatto con Kyril Louis-Dreyfus, ventitreenne erede dell’impero Dreyfus, cedendogli le proprie quote e la poltrona presidenziale.
Quello che in un primo momento sembra solo l’ennesimo, sempre più bizzarro capitolo di una tragedia collettiva chiamata Sunderland, dopo un periodo di assestamento tecnico ed economico inizia a dare i suoi pur ridotti frutti: nella stagione 2021-22 il Sunderland esce vittorioso dai playoff e riconquista una Championship, che, tra alti e bassi, conferma nei due anni successivi. In questa stagione, per quanto appena agli inizi, il Sunderland occupa stabilmente le prime posizioni del secondo campionato inglese in ordine d’importanza.
Al netto della prospettiva vagamente più positiva che ci ha offerto con la frammentaria terza stagione, quello che davvero sembra dirci Sunderland ‘til I die tra le righe dell’epica calcistica, delle dinamiche amministrative, dell’antropologia pallonara e dell’enorme bacino di proiezioni che è lo sport, è un’inquietante quanto retorica domanda sul calcio moderno: ma non dicevano forse che sarebbe stato necessario e sufficiente trasformare la passione in prodotto e i suoi enfaticamente reali padroni in consumatori perché lo spettacolo potesse ancora davvero continuare esattamente come prima?
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