Per alcuni allenatori è la panacea di tutti i mali che affliggono l’organizzazione difensiva, altri la vedono come il fumo negli occhi ritenendola limitante per lo sviluppo di un calcio propositivo e d’attacco. Stiamo parlando della difesa a 3, ovvero quella particolare impostazione tattica che vede l’impiego contemporaneo di tre difensori centrali in luogo dei tradizionali due all’interno di una linea a 4 completata dai terzini. Un argomento attuale, dal momento che in Serie A giocano a 3 ben 11 squadre su 20 causando, tra i tifosi, vere e proprie guerre di religione tra fedeli dello schieramento a 3 e adepti della difesa a 4 nel momento in cui la propria squadra del cuore passa da un sistema all’altro (di recente è successo, con traiettorie opposte, a Juventus e Napoli).
L’adozione di questo schieramento è in realtà un fenomeno in crescita in tutta Europa, anche in quelle culture calcistiche tradizionalmente devote alla difesa a 4 come Spagna e Inghilterra.
Ci sono però due paesi che spiccano su tutti per percentuale di utilizzo: si tratta come detto della nostra Serie A e della Bundesliga, due leghe che peraltro possono portare almeno svariati esempi di successo nelle ultime stagioni (Inter, Atalanta, Bayer Leverkusen, Borussia Dortmund e RB Leipzig solo per citare i più importanti). Proviamo allora a capire perché proprio Italia e Germania siano le “patrie” ideali della difesa a 3, prima di analizzare alcuni sviluppi tattici peculiari tipici del 3-5-2, 3-4-3 e relative varianti.
Le radici storiche della difesa a 3 nel calcio sono profonde e possiamo tracciarne le origini risalendo a oltre novant’anni fa. Nel 1925 l’International Board, antenata della FIFA, decretò un cambiamento epocale della regola del fuorigioco, che fino ad allora decretava la presenza minima di tre giocatori (dunque il portiere e due giocatori di movimento) tra l’attaccante e la porta. All’epoca tutte le squadre giocavano con la cosiddetta Piramide o 2-3-5, con l’impiego dunque di due soli difensori centrali, per cui era sufficiente che uno dei difensori scattasse in avanti per mettere in fuorigioco il portatore di palla avversario.
Il conseguente calo di reti e di spettacolarità determinò l’introduzione della regola tuttora in vigore – seppur con vari aggiornamenti di concetto e di dettaglio – che riduceva a due il numero di difensori necessari tra attaccante e porta per considerare l’azione valida. La variazione regolamentare sortì il suo effetto e per qualche mese gli attaccanti tornarono a dilagare come facevano a inizio secolo, finché i più preparati allenatori europei non furono in grado di elaborare opportune contromosse tattiche. La scuola continentale, guidata spiritualmente da Vittorio Pozzo e dall’austriaco Hugo Meisl, vide l’introduzione del cosiddetto Metodo o WW (sigla che assomigliava alla veduta della formazione dall’alto) che era un adattamento filosoficamente abbastanza vicino alla piramide: le ali semplicemente retrocedevano sulla mediana, posizionandosi sulla linea del centrocampista centrale arretrato – il celeberrimo centromediano metodista, fulcro tattico della formazione.
Nello stesso periodo in Inghilterra il mitico Herbert Chapman, coach dell’Arsenal e poi della Nazionale dei Tre Leoni, fu il primo a schierare le sue squadre con il cosiddetto Sistema o WM che prevedeva invece tre difensori puri, due dei quali molto larghi per marcare a uomo le ali avversarie, e una mediana disposta a quadrilatero con due centrocampisti di contenimento e due di fantasia. Questo schema con centrocampo a quadrilatero, che oggi forse chiameremmo 3-2-2-3, fu adottato con grande successo appunto dall’Arsenal sbarcando dopo circa un decennio sul continente, dove fu adottato con enorme successo dal Grande Torino evolvendo poi nell’MM con cui si schierava la formidabile nazionale ungherese dei primi anni ’50.
Nello stesso periodo, in Svizzera il Sistema fu rivisto in chiave ulteriormente difensiva venendo definito Verrou o catenaccio, togliendo un uomo al centrocampo per inserire un libero con compiti puramente di copertura dietro la linea dei difensori. Questa variante ebbe grande successo soprattutto in Italia una decina d’anni più tardi, dove il Paròn Nereo Rocco al Milan e il Mago Helenio Herrera all’Inter avrebbero saputo interpretarlo a livelli di eccellenza assoluta, portando le due squadre milanesi in vetta all’Europa e al mondo.
L’interpretazione della scuola tedesca a fine decennio stravolse il concetto tattico del libero, con l’affermazione internazionale del grande Franz Beckenbauer. Partendo dietro due difensori centrali, in un ruolo svincolato da marcature (ricordiamo che all’epoca si difendeva ancora esclusivamente a uomo), il Kaiser aveva la possibilità di osservare lo sviluppo del gioco da una posizione privilegiata e adattare la sua posizione in campo “leggendo” la partita. Le sue straordinarie capacità calcistiche gli consentivano con profitto di avviare l’azione dal basso e, all’occorrenza, di sganciarsi in avanti con o senza palla, sorprendendo le difese con letali incursioni divenute uno dei suoi marchi di fabbrica. Le qualità tecniche, fisiche e caratteriali di Beckenbauer sono state pressoché un unicum nella storia del calcio, ma il riflesso della sua carriera fu l’integrazione progressiva del ruolo del libero nella tattica calcistica mitteleuropea (e non solo).
Sono queste due esperienze tecniche a segnare profondamente il calcio italiano e quello teutonico, con il conseguente sviluppo di due moduli utilizzati in maniera egemone per circa un ventennio. Nel Bel Paese tutti adottano quello che sarà poi denominato come Modulo all’italiana, una sorta di 4-4-2 sghembo in cui i difensori in realtà sono più spesso 3 o 5. In fase di possesso il terzino sinistro gioca costantemente in propensione offensiva (Giacinto Facchetti docebat), mentre quello destro è a tutti gli effetti un marcatore che supporta uno dei due centrali – lo stopper – col libero che pattuglia l’area qualche metro più indietro. Quando la palla è in possesso degli avversari i difensori sono aiutati, a seconda dello sviluppo dell’azione, dal mediano o dall’ala destra (cosiddetta ala tornante, mentre l’ala sinistra è di fatto una punta che parte larga sulla fascia ma taglia dentro l’area).
In Germania si sviluppa invece il 5-3-2, una formazione simmetrica in cui entrambi i terzini hanno grande libertà di spinta e il libero troneggia al centro della difesa. Una leggera variante vede l’avanzamento di uno dei centrocampisti in posizione di “10” classico dietro le punte, ed è questa la formazione che esalta il genio di Diego Armando Maradona nel Mondiale del 1986. Il minimo comune denominatore tra le squadre italiane, quelle tedesche e la stessa Argentina di Carlos Bilardo è la solidità difensiva del pacchetto arretrato, composto sempre da tre difensori centrali di cui un libero, due terzini e uno o due centrocampisti di contenimento, con la manovra offensiva demandata quasi esclusivamente alla doti individuali dei singoli che agiscono nelle zone più avanzate del campo.
L’affermazione su scala mondiale del 4-4-2 e del “sacchismo” a fine anni ’80 spinge progressivamente nel dimenticatoio queste formazioni in Italia. In Germania il 5-3-2 non perde invece di attualità ed evolve integrando i princìpi della difesa a zona, venendo poi riscoperto anche nel nostro Paese nei primi anni Duemila con quello che comincia a essere denominato come 3-5-2: questioni di lettura o, almeno in parte, di un ruolo più offensivo svolto dagli esterni a tutta fascia, ormai non più definibili strettamente come terzini.
Abbiamo visto come per circa un ventennio in Italia e Germania si sia preferito un calcio più difensivo, simboleggiato dalla linea più arretrata con tre difensori centrali, mentre nel resto d’Europa imperversavano moduli basati essenzialmente sulla difesa a 4. Tuttavia è stata la patria per definizione del calcio d’attacco, l’Olanda, a dimostrare con due interpretazioni su tutte che la difesa a tre poteva essere il pilastro su cui costruire formazioni che fanno del possesso palla e del calcio offensivo la propria prerogativa principale.
Quando nel 1988 Johan Cruijff assunse il ruolo di allenatore del Barcellona, dopo esserne stato leggenda anche da giocatore, era deciso a proporre un’idea di calcio molto vicina a quella introdotta negli anni ’70 dall’Ajax e dalla Nazionale olandese, squadre di cui Cruijff era stato il profeta. Il Calcio Totale olandese si basava sul modulo 4-3-3, accompagnato da un sistema di marcature a zona a tutto campo, una novità assoluta per il calcio mondiale. Cruijff, non a caso considerato un genio visionario già quando calcava i campi, optò invece per un 3-4-3 che lui stesso definì orizzontale e verticale.
I blaugrana si disponevano con un linea difensiva a 3 uomini, di cui uno arretrato in posizione di libero con libertà di sganciarsi in avanti, un centrocampo a 4 disposto “a rombo” – un mediano, due mezzali e un trequartista – e un attacco a 3 formato da un centravanti e due ali che partivano molto larghe sull’esterno. Se immaginiamo di leggere la formazione orizzontalmente, noteremo tre giocatori sulla catena di sinistra (terzino, mezzala e ala), quattro in mezzo a costituire la spina dorsale della squadra (libero, mediano, trequartista e centravanti) e nuovamente i tre giocatori della catena di destra. La squadra aveva il compito di giocare molto corta e larga, con i difensori esterni che in fase di possesso agivano da terzini puri, mentre il mediano – vero giocatore chiave della formazione – si abbassava sulla linea difensiva per ricevere palla e orchestrare il gioco da una posizione arretrata.
Con questa tattica il Barcellona tornò a vincere tutto in Spagna e in Europa, mentre pochi anni dopo questo stesso particolarissimo modulo venne adottato anche da Louis van Gaal nell’Ajax dei “ragazzini terribili” che vinsero la Champions League nella stagione 1994/95 (certo, averne di ragazzini come Clarence Seedorf, Edgar Davids, Patrick Kluivert, Marc Overmars e Nwankwo Kanu).
Formazione dunque identica, stessa fondamentale importanza tattica riposta nel mediano (un giovanissimo Josep Guardiola nel primo caso, l’esperto Frank Rijkaard nell’altro) ma interpretazioni per il resto non completamente sovrapponibili. Laddove Cruijff riproponeva gli stessi concetti di fluidità e intercambiabilità dei ruoli dell’Arancia Meccanica che aveva incantato il mondo nei Mondiali del 1974, Van Gaal optava per un’interpretazione strutturalmente più rigida nella quale i giocatori avevano compiti ben definiti e la squadra doveva mantenere identica forma in ogni momento della partita: i catalani basavano la loro forza sull’imprevedibilità dei movimenti di ciascun portatore di palla, i lancieri eseguivano alla perfezione uno spartito studiato nei minimi dettagli da un condottiero maniacale.
Queste differenze erano rispecchiate dalla diversa applicazione del pressing: quello del Barcellona era aggressivo e corale, sostenuto da un blocco difensivo altissimo e caratterizzato dalla ricerca del recupero immediato del possesso. Anche l’Ajax pressava abbastanza alto ma in maniera più strutturata, cercando principalmente di chiudere le linee di passaggio e mantenere la squadra compatta. Una differenza tattica importante risiedeva nei compiti affidati al centrocampista più offensivo: Michael Laudrup nel Barça agiva da fantasista puro, con libertà di movimento totale e possibilità di occupare spazi anche sull’esterno nel momento in cui gli attaccanti tagliavano dentro l’area, mentre Jari Litmanen nell’Ajax giostrava da seconda punta mascherata, con libertà di movimento esclusivamente verticale (gli esterni d’attacco biancorossi agivano da ali pure ed erano loro a dare ampiezza all’intero schieramento).
L’esperienza olandese dimostrò a tutto il mondo che difendere a 3 non significava necessariamente proporre un calcio attendista, concetto ripreso anche alle nostre latitudini specialmente da Alberto Zaccheroni (e anche da Ezio Glerean nel campionato cadetto). Il tecnico romagnolo stupì tutti col gioco geometrico e frizzante della sua Udinese, terza nel campionato 1997-98 con Oliver Bierhoff capocannoniere e con il tipico 3-4-3 in linea che creava non pochi grattacapi alle difese avversarie. L’anno seguente, scelto dal Milan dopo due annate a dir poco deludenti, Zaccheroni fu chiamato per dare freschezza, ringiovanendo la rosa e portandosi dietro da Udine i fedelissimi Bierhoff e Thomas Helveg: il risultato fu uno scudetto a dir poco insperato, anche se il prosieguo di carriera del tecnico – rimasto sempre fedele a questo modulo – non toccò più gli splendori di queste due annate.
Uno degli esempi più nitidi dell’efficacia del 3-4-3 di Zaccheroni. In dieci dal 3′, l’Udinese batte 3-0 a domicilio la Juventus futura campione d’Italia
Grazie anche a Zaccheroni, molte squadre di alto livello in Italia adottarono rapidamente i moduli a 3. Queste squadre spesso preferivano però un approccio più equilibrato, che si configurava numericamente in un 3-4-1-2: difesa solida con tre centrali puri, centrocampo muscolare ed esterni a tutta fascia a sostenere l’inventiva del rifinitore dietro le punte. È il caso della Roma dello scudetto 2000-01 in cui Francesco Totti fu mattatore assoluto, ma anche di uno storico sostenitore della difesa a 4 come Carlo Ancelotti, che optò per questo modulo alla Juventus allo scopo di esaltare la fantasia di Zinédine Zidane. I bianconeri giocarono un calcio a tratti sublime sospinti dalla classe del francese, giunto ormai all’apice della maturazione calcistica, ma per una serie di contingenze non riuscirono a vincere nessun trofeo e la fine del bienno ancelottiano vide il ritorno di Lippi e la restaurazione del 4-4-2.
Con i primi anni Duemila andò affermandosi quello che originariamente veniva chiamato “modulo alla francese”, adottato sia da Aimé Jacquet che da Roger Lemerre nel vittorioso Mondiale del 1998 e, ahinoi, Europeo del 2000: il 4-2-3-1, adottato a ruota praticamente da tutti in Europa grazie alla flessibilità interpretativa che lo contraddistingueva e alla possibilità di schierare quattro calciatori offensivi all’interno di uno spartito difensivamente solido.
Giungiamo così grossomodo ai giorni nostri, quando pensavamo che la difesa a tre fosse caduta definitivamente in disuso e invece, ancora dall’Italia, è arrivata un’altra resurrezione: sono allenatori come Antonio Conte (inizialmente alfiere del 4-2-4 a Bari, poi convertitosi al vangelo della difesa a 3) e Gian Piero Gasperini a proporre questo assetto difensivo nell’ambito di esperienze di grande successo. Conte in particolare predilige soluzioni con due punte centrali, mentre Gasperini non rinuncia ai tre uomini offensivi anche se al Genoa parte con tre punte larghe in puro stile olandese, disponendo solo successivamente, nel passaggio all’Atalanta, l’attacco a triangolo: un trequartista sostiene l’azione giostrando alle spalle di due punte molto mobili, oppure un centravanti viene appoggiato da due centrocampisti offensivi (la scelta è basata essenzialmente sulle caratteristiche degli interpreti di volta in volta allenati alla Dea).
Il minimo comune denominatore tra Conte e Gasperini è l’intensità di gioco, caratterizzato da ritmi altissimi e dalla ricerca aggressiva del recupero del pallone. Se però il tecnico pugliese si colloca maggiormente nel solco della tradizione moderna, con difesa a zona anche sui calci piazzati e pressing alto solo nei primissimi secondi dell’azione difensiva, il sistema di Gasperini assume connotati per certi versi rivoluzionari. In fase di costruzione le sue squadre allargano moltissimo i centrali difensivi e tendono a cercare il sovraccarico sull’esterno, con tre giocatori – difensore, esterno di centrocampo e attaccante – che creano superiorità numerica appoggiandosi poi su un centrocampista centrale, che a quel punto ha l’opzione di giocare corto oppure cambiare improvvisamente gioco sul lato debole dove si sono creati grandi spazi.
Peculiarità di questa impostazione è inoltre il fatto che la squadra adotta una marcatura a uomo a tutto campo estremamente aggressiva. Ogni giocatore ha il compito di seguire il proprio avversario diretto ovunque, anche a costo di abbandonare la propria posizione, e deve di conseguenza acquisire la capacità di giocare il pallone anche in zone di campo non esattamente naturali. Difensivamente il focus è sulla pressione totale ai danni dell’avversario, con lo scopo di forzare errori in costruzione e andare in porta con due o tre tocchi. Se però un giocatore viene superato, perdendo quindi il duello individuale, l’Atalanta può essere soggetta a inferiorità numerica in zone nevralgiche della propria metà campo.
Tutta l’impalcatura si basa sull’equilibrio tra rischio e ricompensa e, quando l’Atalanta è al massimo della condizione atletica, ben poche squadre sono in grado di sostenere il ritmo che caratterizza il calcio gasperiniano; di contro un singolo momento di blackout fisico o mentale può costare carissimo ai nerazzurri.
Sempre in Italia va infine segnalata la proposta di Simone Inzaghi, prima con la Lazio e poi con l’Inter. Si tratta in questo caso di una interpretazione meno estrema sul piano atletico ma comunque decisamente offensiva, del 3-5-2: ai difensori esterni viene chiesto di partecipare attivamente alla costruzione del gioco e in alcuni casi anche di andare a chiudere l’azione. È la massima espressione tattica del “braccetto”, giocatore che può nascere indifferentemente come centrale difensivo o terzino e che deve essere in grado di svolgere con profitto entrambi i compiti all’interno della partita e a seconda della situazione contingente.
La manovra d’attacco prevede una struttura a rombo in avvio di azione, in cui il mediano arretra con compiti di regìa mentre gli altri giocatori cercano di occupare lo spazio in maniera armonica e talvolta scambiando le posizioni all’interno delle catene laterali: Bastoni e Pavard agiscono non di rado con e senza palla negli ultimi 30 metri, Dimarco e Dumfries in fase offensiva entrano spesso in area per chiudere l’azione ma al tempo stesso devono occupare diligentemente la fascia in ripiegamento difensivo.
L’Inter in condizioni normali cerca il possesso palla ma può prediligere una manovra più diretta a seconda del momento della partita. I primi 10-15’ sono solitamente caratterizzati da pressing altissimo e soluzioni di passaggio verticali per forzare il vantaggio, mentre nella fase centrale del primo tempo il ritmo si abbassa e si cerca soprattutto il giro palla all’altezza dei 60 metri. Si tratta in ogni caso di un gioco molto dispendioso sul piano fisico, così come quelli di Gasperini e Conte, e difatti uno dei trademark dei tre allenatori è il cambio di entrambi gli esterni di centrocampo nel corso della partita: sono in effetti ruoli a cui è affidata la copertura di zone molto ampie di campo, particolarmente gravosi anche in termini di fatica mentale data la quantità di movimento senza palla e l’esposizione a situazioni di uno contro uno sia in attacco che in difesa.
Idee tattiche molto simili sono espresse, con alcune variazioni in termini di schieramento, anche da Xabi Alonso con il Bayer Leverkusen – quasi sempre in campo con un 3-4-1-2 – e Thomas Tuchel in pressoché tutte le esperienze a livello di club, con una specifica predilezione per il 3-4-2-1. Questa interpretazione della difesa a tre, oltre che da alcune squadre di vertice in Italia e Germania, è oggi adottata con profitto in Europa anche da altri club. Meritano una citazione Real Sociedad e Villarreal in Spagna, Lille e Monaco in Francia e Chelsea in Inghilterra.
Dopo questo ampio excursus storico, nel quale abbiamo cercato comunque di fornire spunti di riflessione tattica, possiamo prendere in esame più da vicino le caratteristiche che accomunano i sistemi a tre nella loro accezione più attuale. I benefici offerti da 3-5-2, 3-4-3 e relative varianti risiedono in primo luogo in una maggiore flessibilità dell’assetto difensivo. Partendo nominalmente a 3 la linea può configurarsi facilmente a 5 in caso di pressione avversaria, oppure a 4 nel caso in cui uno degli esterni effettui una scalata diagonale in fase di transizione difensiva. Soprattutto per squadre di livello medio-alto riveste altrettanta importanza la facilità di costruzione dal basso che questi sistemi offrono, con una configurazione spaziale che favorisce triangolazioni utili ad aggirare la pressione avversaria e limitare così i rischi legati al possesso nella propria metà campo.
Il portiere ha diverse opzioni di distribuzione con passaggi corti, scaricando verso il centrale o uno dei braccetti ma anche direttamente verso il mediano che arretra per formare il classico “rombo” difensivo. In alternativa si rende disponibile anche un altro centrocampista, che generalmente arretra al momento del secondo tocco per formare un pentagono arretrato. Allo stesso modo è possibile una migliore occupazione dello spazio sulle fasce, vista la l’opportunità di creare facilmente superiorità numerica grazie alla partecipazione attiva di difensori esterni, laterali di centrocampo e almeno un terzo uomo pronto a velocizzare la manovra con tocchi di prima spalle alla porta, che sia la mezzala o l’attaccante in appoggio o, in alcuni casi, addirittura entrambi.
La partecipazione dei braccetti al gioco offensivo, infine, aiuta a riciclare il possesso da posizioni avanzate e, specialmente contro squadre che difendono con un blocco basso, può portare anche a incursioni in area di questi difensori, in grado di sfruttare la propria fisicità per sbloccare situazioni di chiusura degli spazi. Ovviamente questo assetto comporta anche l’assunzione di alcuni rischi, peculiari rispetto a quelli che caratterizzano i sistemi a quattro. Abbiamo già accennato all’affaticamento degli esterni, aspetto di cui bisogna assolutamente tener conto in sede di mercato prevedendo rotazioni almeno a quattro uomini sulle fasce.
Il coinvolgimento dei difensori in fase offensiva, certamente positivo per quanto riguarda le molteplici opzioni di circolazione del pallone, presuppone in ogni caso che la linea arretrata sia costituita da giocatori tecnicamente competenti, in grado di gestire la palla sotto pressione e prendere decisioni rapide. Se un membro del terzetto non è all’altezza l’intera manovra rischia di collassare e ristagnare in termini di ritmo. I braccetti in particolare, oltre che abili nel palleggio, devono avere una buona velocità di base dato che il sistema è particolarmente esposto alle transizioni veloci: se la squadra perde palla in fase di costruzione, avendo una struttura che in quel momento prevede tre uomini molto larghi dietro, risulta pericolosamente esposta al contropiede avversario che a quel punto può essere contenuto solo con un uno contro uno in velocità.
Altro rischio risiede in un possibile isolamento degli attaccanti: se nel 3-5-2 le mezzali non sono in grado di cucire proficuamente il gioco con verticalizzazioni o inserimenti senza palla le punte sono facilmente preda dei difensori avversari, facilitati da un gioco prevedibile che ha come unica opzione lo scarico verso l’esterno del campo. Alcuni allenatori preferiscono adottare per questo il 3-4-2-1, con due elementi di spiccata attitudine offensiva a sostegno di un centravanti che devono però saper leggere eccezionalmente bene lo spazio verticale per capire se attaccare l’area o dare sostegno al centrocampo (se la seconda interpretazione prevale, il centravanti si troverà ancora più isolato contro la difesa avversaria).
Nel nostro viaggio abbiamo potuto osservare come i sistemi a tre abbiano in un primo momento saputo collocarsi nel solco di due tradizioni fondamentali per il calcio europeo, quella italiana con il suo gioco accorto e verticale e quella tedesca tipicamente contraddistinta da dinamicità e atletismo. Si trattava in entrambi i casi di interpretazioni di stampo difensivo, finché Cruijff e Van Gaal non hanno stupito il mondo con formazioni estremamente votate all’attacco.
La loro eredità spirituale è stata raccolta con vari gradi di intensità da tantissimi allenatori moderni: possiamo pensare ad esempio all’argentino Marcelo Bielsa, unico tra i tecnici di grido a riproporre in tutte le sue esperienze il 3-4-3 a rombo, ma anche alla schiera di allenatori “giochisti” che hanno incanalato gran parte di quei princìpi di gioco in sistemi tendenzialmente strutturati con un 4-3-3, nel quale tuttavia le abilità tecniche dei difensori centrali risultano meno condizionanti, col risultato che è possibile proporre filosofie orientate al dominio territoriale anche disponendo di organici di livello inferiore.
Con particolare riguardo all’analisi tattica del Barcellona di Cruijff, è naturale pensare alla carriera di Pep Guardiola, che di quella squadra era il perno e che è ripartito dagli insegnamenti del suo maestro per sviluppare un calcio estremamente fluido a livello offensivo ma con una struttura difensiva rigida e definita. Una visione sincretica di interpretazioni eterogenee del calcio, in cui il gioco posizionale (adottato da Van Gaal) favorisce l’interscambio dei ruoli in attacco (di cui Cruijff è stato il primo esponente), con un dominio territoriale che si esplica nel controllo totale del possesso palla piuttosto che nella verticalizzazione, tratto tipico della cultura calcistica iberica.
Per realizzarlo Guardiola è partito inizialmente dal 4-3-3 con vertice basso a centrocampo, sviluppando poi approcci più eclettici: da una riproposizione del 3-4-3 a rombo a Barcellona e Monaco ai sistemi ibridi di Manchester, molto difficili da classificare numericamente e che integrano nelle sigle 3-2-5 e 3-3-4 elementi postmoderni nell’ambito di formazioni visivamente molto simili ai WM e MM d’antan.
In definitiva i sistemi a tre difensori centrali non rappresentano più esclusivamente un’eredità del passato, ma piuttosto una soluzione tattica sofisticata che risponde ad alcune delle esigenze fondamentali del calcio moderno. Nelle accezioni più moderne la flessibilità di adattamento a diverse situazioni di gioco, unita ai benefici nella costruzione dell’azione dal basso e nella circolazione di palla, lo ha reso la scelta preferita di una schiera crescente di allenatori. Ai livelli più alti, in cui negli ultimi trent’anni hanno pressoché dominato i sistemi a 4, schierarsi a 3 significa offrire un grado di imprevedibilità tattica che può portare a sorprese clamorose (in caso di dubbi si può sempre andare a rivedere Liverpool-Atalanta nella scorsa Europa League).
Non è un caso se nella Serie A, che non è più il “campionato più bello del mondo” come amavamo definirlo ma resta ancora il più esigente a livello tattico, quegli allenatori siano oggi la maggioranza. Al di là dei sofismi e delle facili canonizzazioni di allenatori e moduli, proposti ora da una certa stampa compiacente ora da sedicenti esperti di football, occorre ricordare che il calcio è un gioco straordinariamente profondo sul piano strategico e che più di ogni altra cosa conta, e continua a contare, l’interpretazione che dei moduli sanno dare gli uomini in panchina e quelli sul rettangolo verde.
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