Mirko Šarić, quando il peso del talento spegne un essere umano

Mirko Šarić - Puntero

Prima di cominciare il racconto di oggi è necessario fare una piccola introduzione sul complesso concetto di talento, partendo dal suo significato. L’etimologia di “talento” ha origine nell’antica Grecia con la parola “τάλαντον”, talanton, la cui traduzione è “bilancia” o “peso“. Successivamente il termine cominciò a essere utilizzato anche in ambito economico, facendo leva sul suo significato letterale. I greci infatti furono i primi, dopo i turchi, a introdurre un nuovo mezzo di scambio, la moneta, il cui valore era direttamente proporzionale al peso della stessa. Proprio per questo motivo, nel linguaggio comune il talento di ciascun individuo iniziò a rappresentare la ricchezza di cui questo disponeva.

Al giorno d’oggi il significato che attribuiamo al termine ha subito un’ulteriore evoluzione, le definizioni si sprecano e spesso non coincidono. Tuttavia, quando si parla di talento, si intende la qualità innata che una persona ha nel fare una determinata cosa. Questa particolare predisposizione può riguardare svariati ambiti e in generale è vista come un mezzo grazie al quale realizzarsi. Individuando il proprio talento e sfruttandolo al meglio è possibile trovare una propria collocazione nella società e, soprattutto, affermarsi a livello personale.

La parola ha dunque conservato la propria accezione positiva. Il talento è visto infatti come una particolare ricchezza insita in ognuno di noi, in grado di caratterizzare l’io e di contribuire alla diversità tra le persone. Lo sport, fin da quando esiste, è stato in grado di raccontarci eccezionali storie umane ancora prima che sportive. Sono infatti molti gli atleti che hanno usato i propri talenti per trovare un posto nel mondo, riscattando la propria condizione sociale. È però presente un capitolo oscuro nel libro contenente questi racconti, quello di chi aveva tutte le carte in regola per farcela ma per un motivo o un altro non ci è riuscito. Oggi diamo voce alla storia di uno di loro, Mirko Šarić.

 

I primi calci

Mirko Šarić nacque il 6 giugno 1978 a Buenos Aires da genitori di origine croata, immigrati in Argentina in cerca di fortuna. I Šarić, una famiglia umile di onesti lavoratori, trovarono la propria stabilità nella capitale argentina, più in particolare nel quartiere di Flores. Terzogenito di quattro fratelli, fin da piccolissimo Mirko cominciò a nutrire una passione smisurata per il calcio. Assieme al fratello più piccolo, Martin, cominciò a tirare i primi calci al pallone nel proprio quartiere: entrambi fin da subito dimostrarono qualità non comuni per i ragazzi della loro età e ben presto iniziò a spargersi la voce della presenza di due baby fenomeni che ogni giorno davano spettacolo per strada.

La loro vita cambiò per sempre nel 1990. Un giorno, mentre i due fratelli stavano giocando con i loro amici, furono notati da un osservatore del San Lorenzo, lì proprio per visionare i due talentini di origini croate. Rimase profondamente persuaso dalle loro qualità, in particolare da quelle di Mirko, e non esitò un secondo nel contattare i genitori dei due per cominciare l’iter che avrebbe portato al tesseramento nel rinomato club argentino. Il San Lorenzo, per i Šarić, non era solo uno dei club più blasonati di tutta l’Argentina, era la squadra di cui i due bambini erano tifosi. Insomma, i presupposti della nuova avventura erano rosei. Sia Martin che Mirko non ebbero problemi nel superare il provino e nel giro di qualche settimana divennero ufficialmente due giocatori del San Lorenzo.

 

L’inizio del sogno

Fu proprio grazie a questa opportunità che i due fratelli ebbero modo di coronare uno dei sogni che ogni tifoso del mondo si auspica di vivere nella propria vita. Era il 1995 e il San Lorenzo non vinceva un titolo da ben 21 anni. Ciò significa che né Mirko né Martin avevano mai visto la propria squadra del cuore trionfare in una qualsiasi competizione. Proprio in quell’anno il club di Buenos Aires tornò a giocarsi il titolo nazionale. Tutto dipendeva dall’ultima partita, la più insidiosa: i rossoblù si sarebbero giocati tutto in una complicatissima trasferta a Rosario in cui avrebbero dovuto strappare una vittoria per interrompere un digiuno che durava da ormai troppo tempo.

Molti tifosi del San Lorenzo si organizzarono per poter assistere dal vivo all’ultimo atto di quel campionato, ma tanti di loro non vi riuscirono a causa dell’elevatissima domanda. I fratelli Šarić rimediarono un biglietto in quanto tesserati del club. Il match fu poi vinto dal club di Buenos Aires, che tornò ad aggiudicarsi il campionato dopo più di vent’anni: Mirko e Martin, assieme alle centinaia di tifosi che invasero il campo a fine partita per festeggiare il trionfo, contribuirono al pandemonio. Martin rubò il seggiolino di legno di uno dei fotografi presenti a bordo campo, un modo di portarsi a casa un pezzo di storia.

Le gioie non finivano qui. La carriera giovanile di Mirko procedeva alla grande e ben presto si affermò come una delle promesse più interessanti del vivaio, tanto che gli addetti ai lavori lo definirino un giocatore dalle caratteristiche quasi uniche per l’epoca. Fin da piccolo aveva un fisico più preminente dei suoi coetanei: la sua statura, un metro e 88 centimetri, gli consentiva di disimpegnarsi in tutte le zone del campo. Dopo un inizio da attaccante, fu arretrato in difesa. Ma fu a centrocampo, nel ruolo di volante central, che trovò il suo habitat naturale. Alla rocciosità che gli garantiva la struttura fisica, infatti, abbinava una grandissima visione di gioco e un’ottima tecnica individuale. I trascorsi nelle altre posizioni lo avevano aiutato a sviluppare un senso tattico fuori dalla norma, che sfruttava in ogni suo movimento.

Fin da subito furono scomodati paragoni importanti per cercare di inquadrare le caratteristiche del talento di origine balcanica. Al tempo, molti quotidiani accostarono il suo gioco a quello del numero cinque del Real Madrid, Fernando Redondo. Volendolo paragonare a un giocatore più attuale, Rodri probabilmente sarebbe il più adatto per caratteristiche tecniche e fisiche.

 

Consacrazione e testa sulle spalle

Per l’esordio in prima squadra era semplicemente questione di tempo e avvenne nel 1996. A novembre Mirko iniziò ad allenarsi con frequenza con i “grandi” per volere di Carlos Aimar, al tempo tecnico del San Lorenzo. Gradualmente fu aggregato definitivamente in prima squadra e a 18 anni fu mandato in campo nei minuti conclusivi di Unión-San Lorenzo, ultimo turno del campionato di apertura. La partita terminò con una sconfitta ma non era importante per Mirko: ciò che contava era il traguardo, a quel punto più vicino che mai. Finalmente era pronto per spiccare il volo.

Gli esordi di Šarić furono estremamente convincenti e il suo impiego aumentò sempre di più. Tutti, a partire dai compagni, erano concordi sul fatto che i suoi occhi brillassero di una luce diversa. Grazie ad alcune ottime prestazioni fu promosso dalla squadra giovanile a quella delle riserve, con cui vinse uno storico titolo nazionale. A consegnare la vittoria ai ragazzi del quartiere Boedo fu una memorabile partita pareggiata con il River Plate. Quella squadra entrò nel cuore dei tifosi come la cicloneta – il piccolo ciclone – per la grande quantità di talento presente nella rosa.

Al termine di quell’annata Jorge Castelli prese il posto di Aimar sulla panchina del San Lorenzo e fin da subito decise di promuovere in pianta stabile Šarić, reputando il suo percorso giovanile ormai concluso. L’esordio da titolare avvenne in una vittoria per 5-2 contro il River Plate, vincitrice sia dell’apertura che del clausura 1997. L’inserimento di Šarić sulla linea di centrocampo assicurò alla squadra maggiore filtro davanti alla difesa e un passo in avanti nella fase di costruzione del gioco.

Poche giornate dopo Šarić trovò anche il primo gol. Lo realizzò sul campo del Racing con un pregevole sinistro al volo dal vertice sinistro dell’area e, se è vero che la partita si concluse con un successo per 2-1 degli avversari, è altrettanto vero che il volante central aveva dimostrato ancora una volta che a quei livelli poteva starci. Eccome.

Da quel momento in poi il ragazzo non fece altro che incrementare il già ottimo livello dimostrato nelle sue prime uscite. Il 1998 fu l’anno della definitiva consacrazione: nel giro di pochi mesi, Šarić raggiunse picchi elevatissimi e sembrava che nulla potesse interrompere la sua crescita. Tutti in Argentina erano convinti delle qualità del ragazzo e la voce dell’esistenza di un nuovo baby fenomeno del calcio argentino raggiunse l’Europa, tanto che a bussare le porte del club di Buenos Aires fu addirittura il Real Madrid, fortemente interessato all’acquisizione del cartellino del ragazzo.

Le ottime prestazioni gli spalancarono anche le porte della rappresentativa giovanile del proprio Paese. Sempre nello stesso anno entrò a far parte dei convocati dell’Argentina Under 23, che di lì a poco avrebbe disputato una serie di incontri durante una tournée in Giappone. Ma palcoscenici ben più prestigiosi erano pronti ad accogliere Šarić. Era uno dei talenti più pregiati di quella formazione e di ciò era convinto anche il ct della Nazionale maggiore, Marcelo Bielsa. Il Loco nutriva una stima profondissima nel ragazzo cresciuto venuto da Flores. In quel momento nessuno avrebbe potuto immaginare che la tournée in Giappone avrebbe rappresentato solo il bel panorama sopra il precipizio.

Nonostante l’esposizione mediatica a cui andò incontro e l’iniziale serie di successi, Mirko non perse mai di vista i veri valori della vita. Continuò ad aiutare la propria famiglia e si dedicò alla beneficenza per aiutare i giocatori delle giovanili del San Lorenzo provenienti dalle realtà più difficili dell’Argentina: parte del suo stipendio veniva devoluta per assicurare ai ragazzi di poter inseguire i propri sogni, garantendo loro istruzione e viveri. Nulla lasciava presagire quello che di lì a poco sarebbe successo.

Quando usciva dagli allenamenti, decine e decine di sue fan si radunavano fuori dal centro sportivo del San Lorenzo per poterlo salutare. Ma Mirko era già fidanzato con una coetanea conosciuta nel quartiere in cui era nato, tanto da essere sicuro che sarebbe stata quella donna la madre dei suoi figli.

 

Luce prima delle tenebre

La stagione successiva si aprì con un terremoto in casa San Lorenzo. Castelli si dimise e il suo posto fu preso dalla leggenda del calcio argentino e del San Lorenzo, Oscar Ruggeri. L’ex difensore confermò la linea tracciata dal suo predecessore: Šarić sarebbe stato un elemento imprescindibile della rosa. I due instaurarono fin da subito un grande feeling, che andava ben oltre il mero rapporto lavorativo. I risultati erano sotto gli occhi di tutti: l’inizio di quel campionato fu travolgente, la squadra rimase imbattuta nelle prime sette uscite stagionali e mirava con decisione alla prima posizione in classifica. A un tratto però qualcosa si ruppe, in Mirko ancora prima che nella squadra.

Il volante central abbassò vertiginosamente il proprio rendimento e a risentirne fu l’intera squadra. Il centrocampo non girava più, il filtro davanti alla difesa risultava insufficiente. Il periodo no di Šarić coincise con una serie di sconfitte consecutive per il San Lorenzo, che vide svanire nel giro di poche settimane le possibilità di ambire al trono del campionato. A quel punto Ruggeri non poté fare altro che intervenire mettendo in panchina Mirko, il suo più grande pupillo. Cosa era successo? Perché il rendimento si era abbassato così drasticamente nel giro di poche settimane? Per capirlo è necessario fare un salto temporale nel passato, tornando indietro di qualche mese, più precisamente al ritorno di Mirko Šarić dal Giappone dopo la tournée con la Nazionale.

 

Tradimento e sfortuna

Appena tornato dal Giappone, Šarić venne accolto dalla propria ragazza, che aveva un annuncio da fargli: era incinta, Mirko sarebbe diventato padre. Nonostante lui fosse follemente innamorato di lei, il sentimento non era ricambiato. Lei era solita sfruttare le lunghe trasferte del fidanzato per frequentare altri uomini e proprio durante una di queste scappatelle con uno dei numerosi amanti rimase incinta.

Nella famiglia Šarić tutti sapevano la verità e a più riprese avevano già provato a far aprire gli occhi a Mirko, in particolare la madre. L’episodio della gravidanza arrivata mentre si trovava in Giappone allarmò non poco la donna, che esortò a più riprese il figlio a effettuare un test del DNA per fare chiarezza sull’avvenimento. Alla fine Mirko si convinse: il test era negativo, scoprì in quel momento che il bambino che aveva accudito fino a quel momento in realtà non era suo figlio. La notizia lo devastò e le prestazioni sul rettangolo di gioco non erano altro che la conseguenza della drammatica piega che stava iniziando a prendere la sua vita.

Mirko non sapeva ancora che questa dolorosa scoperta sarebbe stata solo l’inizio di ciò che avrebbe vissuto da quel momento in avanti. Su di lui si accanì pure la malasorte. Cominciò a infortunarsi sempre più spesso e il suo impiego, già ridotto a causa delle prestazioni non all’altezza, non fece altro che calare ulteriormente. Un episodio in particolare può essere visto come la fotografia del momento che stava vivendo Šarić: durante una partita del San Lorenzo cominciata in panchina, un’auto medica lo investì durante il riscaldamento a bordo campo. La vettura passò sopra alla caviglia del giocatore, che uscì malconcio dall’incidente. Ci vollero tre punti di sutura e qualche settimana di riposo perché potesse tornare ad allenarsi con i compagni.

I continui acciacchi e le difficoltà patite dal giocatore nel ritrovare la continuità che potesse assicurargli di scendere in campo convinsero Ruggeri a retrocedere momentaneamente Mirko nella squadra riserve, in modo da poter ritrovare la condizione ottimale senza fretta. Se da una parte tutto lo staff tecnico continuava a nutrire fiducia nello sconfinato talento di Šarić, la stampa, che solo qualche mese prima lo aveva incensato, non perse tempo per scaricarlo.

Sui giornali si cominciò a speculare sul perché un talento del genere stesse riscontrando quelle difficoltà, il tutto ovviamente senza conoscere la verità e senza neanche la pretesa di provare a scoprirla. Il ragazzo venne accusato in patria di essere stato spedito nella seconda squadra del club come punizione per atteggiamenti poco professionali. Ciò non fece altro che abbattere ulteriormente Mirko, passato da essere innalzato a eroe a venire buttato via come il più indesiderato dei rifiuti nel giro di pochi mesi.

Poche settimane dopo questi avvenimenti, un altro episodio fu decisivo per le sorti della sua vita. Era l’ultima giornata del campionato riserve, San Lorenzo-River Plate. Mirko cominciò quella gara tra i titolari. Nel tentativo di controllare un pallone, il volante central del San Lorenzo rovinò a terra. Nessuno lo aveva toccato e le sue mani si portarono istantaneamente all’altezza del ginocchio. Poi un grido animalesco di dolore. La diagnosi non lasciò spazio a interpretazioni: rottura del legamento crociato e più di sei mesi di stop. L’infortunio, oltre a interrompere bruscamente la sua carriera, di fatto gli impedì di partecipare alle Olimpiadi del 2000, dove sarebbe stato quasi certamente convocato se tutto fosse andato per il meglio.

 

Depressione

Fu proprio in quel momento che fece la conoscenza del più grande nemico contro cui avesse avuto a che fare fino a quel momento: la depressione. La squadra e la famiglia gli stettero molto vicini in quel periodo e gli affiancarono uno psichiatra. Mirko però non ne voleva sapere di curarsi e si rifiutava di assumere i farmaci che gli prescriveva lo specialista. L’allontanamento forzato dallo sport che amava complicò ulteriormente la situazione.

In questa bolla autodistruttiva avvenne un ulteriore episodio sfortunato. Qualcuno potrebbe, a un primo impatto, sottovalutare l’entità della vicenda, ma bisogna leggerla con gli occhi e con i pensieri di Mirko per capire pienamente cosa rappresentò. Un giorno, mentre si trovava a poco meno di cento metri da casa a bordo della sua auto, fu coinvolto in un incidente potenzialmente mortale: un camion, proveniente dall’opposto senso di marcia, non fece in tempo a frenare e urtò la vettura del calciatore, che finì per schiantarsi contro una terza macchina in sosta. Mirko uscì dall’incidente miracolosamente illeso. Ecco il momento in cui potrebbero crearsi incomprensioni. Probabilmente potreste pensare che in quell’occasione abbia avuto fortuna ma la sua lettura fu diametralmente opposta. Si era trovato per l’ennesima volta al posto sbagliato nel momento sbagliato, un normale viaggio in macchina stava per trasformarsi in una tragedia.

Pochi giorni dopo l’accaduto, Šarić si presentò a casa di Ruggeri, una sorta di secondo padre per lui. Come dichiarato dall’ex difensore in un’intervista di qualche anno fa, questi non avrebbe mai immaginato di cosa si sarebbe trovato a discutere con Mirko. Quando lo vide alla porta di casa sua, il tecnico pensò subito che volesse sottoporgli qualche questione tattica, ma ciò che accadde lo sorprese. Il giovane calciatore gli rivelò che non riusciva più a trovare un senso alla vita e che giocare a calcio in quel momento gli era impossibile. Ruggeri, appena finito l’incontro, si precipitò al telefono per informare del fatto il padre del ragazzo, il quale rispose che il figlio era già in cura e con un po’ di tempo tutto sarebbe tornato alla normalità. Nessuno dei due poteva immaginare cosa sarebbe successo l’indomani.

 

L’ultima notte

Mirko trascorse la notte successiva al colloquio con Ruggeri nella casa dei genitori. Al mattino la madre si svegliò presto per preparare il pranzo. Man mano tutti i componenti della famiglia si svegliarono, uscendo dalle rispettive camere, e all’ora di pranzo all’appello mancava solo Mirko, così sua madre decise di andarlo a svegliare. Una volta arrivata davanti alla camera bussò delicatamente, pronunciando il nome del figlio ad alta voce ma con dolcezza. Dall’interno della stanza non arrivarono rumori. Allora aprì piano piano la porta, in modo da non svegliarlo all’improvviso. Dal salotto di casa gli altri membri udirono un urlo disperato. Accorsero velocemente a vedere cosa fosse successo e, quando arrivarono, la scena che si trovarono davanti fu drammatica: Mirko se n’era andato.

Nella notte del 3 aprile 2000, a soli 21 anni, Mirko Šarić si suicidò legando una corda al soffitto. Ricordate il seggiolino di legno che il fratello Martin rubò a un fotografo in occasione della vittoria del titolo del San Lorenzo nel 1995? Mirko usò proprio quello come piedistallo che lo avrebbe condotto alla morte. Proprio quell’oggetto che simboleggiava la gioia scaturita dalla realizzazione di un sogno e dall’inizio di un altro, era stato anche quello che aveva portato alla fine di tutto. Al trionfo della tristezza sulla felicità e del fallimento sulla voglia di risollevarsi.

 

La condanna che il talento porta con sé

Adesso facciamo un piccolo sforzo di memoria e riallacciamoci all’introduzione di questa storia, a quello che abbiamo detto sul talento. Analizzando l’etimologia del termine, era stato possibile concludere che questa avesse un’accezione positiva. Ma la risposta in realtà è solo parzialmente corretta, riflettendo ulteriormente sull’origine della parola è possibile individuare un altro significato, più cupo, angosciante: nella società moderna abbiamo un grande problema nella gestione del talento. Il mondo, dal dopoguerra in avanti, ha cominciato a viaggiare a velocità insostenibili, quotidianamente ognuno di noi viene valutato in base alle performance offerte e ci sarà sempre qualcuno pronto a prendere il nostro posto, una situazione che non fa altro che recare danno al talento, che non viene più curato e aspettato. Anzi, talvolta finisce per diventare una zavorra.

Ecco che torniamo all’originario significato del termine, cioè “peso”. Spesso, chi lo possiede finisce per essere travolto da un carico di responsabilità a cui non riesce a far fronte. Alle volte si pensa che chi abbia questo particolare dono debba riuscire in ciò che fa in modo naturale, senza fatica. La verità, purtroppo, è un’altra: i momenti di difficoltà arrivano per tutti e le aspettative, proprie e degli altri, non fanno altro che amplificarli in termini di portata e frequenza. Improvvisamente, le persone che fino a quel momento erano sempre state vicine si allontanano, innescando un processo autodistruttivo per l’io e per il talento stesso.

Chissà se in quei giorni almeno una volta Mirko non abbia desiderato un po’ di normalità. Forse, se fosse stato come tutti gli altri, non sarebbe stato travolto da quella portata di negatività ingestibile per un 21enne. Se solo non fosse stato baciato da quel talento così puro, magari il suo caso sarebbe stato avvolto da meno mediaticitá e i giudizi della gente nei suoi confronti sarebbero meno crudi.

 


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