Era il 1968, un periodo di crescita, di ricerca di libertà, di protesta in tutto il mondo. Un’annata in cui operai e studenti, ma anche gruppi etnici minoritari, sono stati protagonisti di un fenomeno socio-culturale riconosciuto ancora oggi a livello globale. Quello però è stato anche l’anno di nascita di Zvonimir Boban, un uomo che, considerata la sua esperienza di vita, è venuto alla luce decisamente nel momento che più gli si addice.
Il piccolo Zorro
Al termine della Prima guerra mondiale alcuni politici slavi provenienti da Croazia, Vojvodina, Slovenia e Bosnia ed Erzegovina hanno deciso per uno scisma, dichiarando l’indipendenza dall’Impero Austro-Ungarico. Nacque lo Stato degli Sloveni, Croati e Serbi che, una volta unitosi al Regno di Serbia e al Regno di Montenegro, divenne il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni – l’ordine in questo caso fa la differenza – il primo giorno di dicembre del 1918. Ne sarebbe seguito il Regno di Jugoslavia di Alessandro I, che attuò una politica volta ad eliminare le differenze etniche e culturali presenti all’interno di questo territorio, la cui storia piena di controversie e lotte intestine era appena agli albori.
Dopo la breve parentesi al fianco dell’Italia fascista e della Germania nazista datata 1941, la Jugoslavia fu attaccata dalle potenze dell’Asse, tanto che alcune città jugoslave furono annesse ai Paesi che facevano parte di quest’ultimo, come avvenne per Zara, Istria, Venezia Giulia e Dalmazia con riferimento all’Italia. Una volta terminata la guerra e liberate le terre dall’occupazione nazifascista, fu indetta un’elezione in cui la Lega dei Comunisti di Jugoslavia ottenne il maggior numero di consensi. Nacque così, il 29 novembre 1945, la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia, che nel 1963 sarebbe divenuta la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia governata dal Maresciallo Josip Broz, detto Tito, le cui politiche temerarie portarono all’espulsione – avvenuta nel 1948 – della Jugoslavia dal Cominform.
Cinque anni dopo la nascita ufficiale della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia, nella piccola Imoschi – una città croata di poco più di 10.000 abitanti al confine con l’Erzegovina – una famiglia di origini rom accoglie il piccolo Zvonimir. Una nuova prole della Jugoslavia di Tito è venuta al mondo e, con un padre e un fratello maggiore legatissimi al mondo del calcio, il destino del futuro asso croato è già ben delineato. La strada del pallone lo attende e Zvone si fa trovare subito pronto fin da bambino: in Dalmazia si gioca il campionato municipale della scuola elementare – che in quel paese conta cinque anni obbligatori più tre aggiuntivi – e la squadra del piccolo Boban è in finale. È la prima volta per un bambino di neanche 10 anni, che dimostra di avere una testa già molto matura per la sua età:
La notte prima della finale non ho dormito e la mattina sono andato al campo cinque ore prima del fischio d’inizio. Mi allenavo con gli stop, i tocchi di destro e di sinistro e, in base alla qualità delle mie giocate, mi assegnavo dei punteggi. Per me il calcio era tutto, a 10 anni per due volte a settimana percorrevo 12 chilometri a piedi per andare al campo d’allenamento. Già in tenera età non mi interessava in che ruolo giocassi, mi bastava che vincessimo perché in questo sport il concetto di squadra è la chiave di tutto.
Alla fine Zvone vince praticamente da solo quella partita, firmando tutti i gol del 4-0 finale. Una prestazione che probabilmente tre anni dopo brilla ancora negli occhi dei rappresentanti dell’Hajduk Spalato che decidono di investire su di lui. Una bella opportunità, se non fosse per un piccolo problema: a casa Boban si tifa Dinamo Zagabria:
Ero felice, ma allo stesso tempo sentivo di tradire la mia famiglia. Mia madre, che mi preparava la borsa, una volta attaccò uno sticker della Dinamo sulla mia sacca dell’Hajduk, fu una brutta sorpresa per i più grandi che la videro la prima volta. Ricordo con piacere quel periodo ma fortunatamente in tre mesi non ho mai giocato contro la Dinamo e, poco dopo, mi sono trasferito proprio da loro.
Da un momento all’altro Zvone divide con il fratello una delle stanze sotto la tribuna ovest dell’impianto della Dinamo. Come capitato a Pelè e come accadrà a Cristiano Ronaldo, Boban si ritrova a dormire dentro lo stadio che rimarrà la sua casa per ben otto anni, dal 1983 al 1991. Lasso di tempo durante il quale acquisisce un’esperienza che lo fa maturare umanamente e professionalmente.
Un colpo al regime
La carriera e la vita del croato sembrano aver preso la direzione giusta. Ancora prima di essere maggiorenne, Boban entra nel giro della prima squadra e a 19 anni, nel 1987, ne diventa il capitano. Tutto sta girando in suo favore ma appena tre anni più tardi accade qualcosa di impensabile, di imprevedibile.
Come detto siamo in Croazia, certo, ma soprattutto in Jugoslavia. Nella Repubblica Socialista – orfana da ormai dieci anni del Maresciallo Tito – convivono croati, serbi, macedoni, sloveni, bosniaci e montenegrini, un mix culturale, sociale e religioso costantemente sul punto di esplodere. Ad aggravare la situazione ecco la vittoria dell’Unione Democratica Croata (HDZ) guidata da Franjo Tuđman al secondo turno di elezioni in Croazia, un successo che permette alla nazione di Boban e alla Slovenia di salire in cima al piano di riorganizzazione della Jugoslavia. L’obiettivo è quello di trasformarla in una confederazione ma la Serbia e il Partito Socialista di Milošević non sono dello stesso avviso. La rivalità già caldissima tra serbi e croati si inasprisce ancora di più e questo si ripercuote anche all’interno del campo da calcio.
La Dinamo Zagabria e la Stella Rossa di Belgrado sono da anni ai vertici del campionato jugoslavo e spesso si contendono il titolo. Ma il 13 maggio del 1990, esattamente una settimana dopo la vittoria della HDZ, scoppia il finimondo. Stadio Maksimir di Zagabria, le due squadre sono pronte a sfidarsi ma già prima dell’inizio della gara c’è un clima pessimo, si respira qualcosa di diverso nell’aria. Il rischio di disordini è alle stelle, presagio di una situazione di pericolo costante.
Ci sono tutti gli ingredienti per un cocktail esplosivo e infatti la gara non viene neanche giocata. Alcune ore prima del fischio d’inizio i tifosi serbi si rendono protagonisti di diversi atti vandalici, in tribuna intonano cori che minacciano l’uccisione di Tuđman, quindi si arriva alle aggressioni senza esclusione di colpi, anzi di armi. La polizia – per lo più serba – non esita nemmeno per un secondo ad utilizzare lacrimogeni e manganelli per attaccare i tifosi di casa che poco dopo invadono il campo per raggiungere gli ultras avversari.
Si innesca una reazione a catena che porta a una vera e propria guerriglia tra poliziotti e ultras. Nel bel mezzo del far west che si è scatenato sul campo, Zvone colpisce con una ginocchiata un poliziotto che sta aggredendo un tifoso della Dinamo. È l’episodio che segna la vita di Boban e che, in futuro, diventerà uno degli emblemi dell’indipendenza croata e della fine della Jugoslavia:
Tra me e i calciatori serbi non c’erano problemi, per me Sinisa era come un fratello e noi odiavamo il regime tanto quanto loro, quel giorno però la situazione è sfuggita di mano. I poliziotti non si erano mai comportati così a livello pubblico, non so cosa sia successo, ma di certo non mi considero un eroe, piuttosto un giovane ribelle. Quel giorno abbiamo detto no al regime.
Il gesto del calciatore ha una risonanza incredibile. Da una parte viene etichettato come nazionalista dai serbi, dall’altra i croati lo considerano un eroe nazionale. Ma arriva la condanna delle istituzioni sportive: la Federcalcio jugoslava lo sospende per 9 mesi e lo costringe a pagare le spese del processo. Una pessima notizia, ma al contempo una punizione tutto sommato accettabile per un episodio che si rivelerà il preludio di quanto sarebbe successo di lì a un anno: la dichiarazione d’indipendenza della Croazia.
L’iconica foto della ginocchiata al poliziotto da parte di Boban durante gli scontri del Maksimir
Boban diventa grande
Rientrato dalla squalifica che non gli ha permesso di disputare il Mondiale in Italia nel 1990, Boban ha l’occasione di giocare nel nostro Paese appena un anno dopo. Ad assicurarsi le prestazioni del croato infatti ci pensa il Milan, che per 10 miliardi di vecchie lire lo porta in Lombardia, girandolo subito in prestito al Bari. Esordisce il 17 novembre 1991 in Bari-Lazio 1-2 ma a causa di un’epatite A rimediata nello stesso anno si allontana dal terreno di gioco.
Rientra a Milano nella stagione 1992-93 e, da lì in poi, inizia un percorso che lo porta a vincere con uno dei club più forti del mondo, peraltro da protagonista. Alla prima annata in rossonero Boban porta a casa Supercoppa Italiana e scudetto, l’anno seguente il Diavolo ottiene il secondo sigillo nazionale di fila – il numero 14 in totale – ma soprattutto torna sul tetto d’Europa.
Dopo aver devastato il Copenaghen agli ottavi di finale con un 7-0 totale tra andata e ritorno, il club di Silvio Berlusconi vince il girone da quattro squadre con Porto, Werder Brema e Anderlecht da imbattuto, qualificandosi per la semifinale contro il Monaco. La formula di questa edizione prevede infatti che la prima del Gruppo A e la prima del Gruppo B, quindi Milan e Barcellona, incontrino in una semifinale incrociata a gara unica le seconde classificate. 3-0 il risultato finale della gara tra Milan e Monaco a San Siro. 3-0 il risultato finale della gara tra Barcellona e Porto del Camp Nou.
Il 18 maggio 1994, all’Olimpico di Atene, il Milan di Fabio Capello affronta il Dream Team di Johan Cruijff che, pur orfano di Romário, è convintissimo di poter dominare e vincere contro il club italiano. Nulla di più sbagliato. Due gol di Daniele Massaro, uno di Dejan Savićević e uno di Marcel Desailly al minuto 58 fissano il punteggio su un 4-0 finale che rimarrà per sempre nella storia del Milan e del calcio europeo come vittoria con lo scarto più ampio in una finale della massima competizione europea, al pari di quelle del Real sull’Eintracht del 1960, del Bayern sull’Atletico nel replay del 1974 e dello stesso Milan sulla Steaua del 1989.
Quello di Atene è il quinto alloro europeo per il club, accompagnato poi dalla Supercoppa Italiana e dalla Supercoppa UEFA vinta con l’Arsenal a suggellare una stagione davvero memorabile per il club e per lo stesso Boban. Che nel corso della sua avventura in rossonero vincerà altri due scudetti, uno nel 1995-96 e un altro nel 1998-99. Una stagione, quest’ultima, speciale per la stella croata, non tanto perché l’ultima titolata in carriera, quanto soprattutto per le prestazioni in campo: proprio grazie alla continuità, all’eleganza e alla grinta di Zorro la squadra riuscirà infatti ad ottenere un tricolore sofferto come poche altre volte e chiuso con un solo punto di vantaggio sulla Lazio.
Le statistiche del croato dicono che in Serie A ha segnato 30 gol in 251 presenze ma, al di là di numeri che per un centrocampista contano relativamente, è bene ricordare che Zvone ha lasciato un segno indelebile nella storia del nostro calcio e in quella del Milan, consacrandosi come uno dei croati migliori di sempre.
La generazione d’oro della Croazia
Nata nel 1990 dopo l’indipendenza dalla Jugoslavia, la Nazionale di calcio della Croazia viene riconosciuta e affiliata alla FIFA solo nel 1992, anno in cui gioca la sua prima gara, una sconfitta per 1-0 contro l’Australia. Il primo grande appuntamento internazionale cui la Croazia prende parte risale al 1996, anno in cui si giocano gli Europei. Un’edizione particolare a livello geopolitico: oltre alla Danimarca campione in carica grazie al sorprendente successo di quattro anni prima, partecipa la Germania riunificata, la Repubblica Ceca divenuta indipendente dopo il distacco dalla Slovacchia e, per l’appunto, la Croazia ormai indipendente.
La squadra è forte e ricchissima di talento, ne fanno parte alcuni dei giocatori che hanno vinto il mondiale Under 20 in Cile nel 1987 e partecipato a Italia 1990 con la maglia della Jugoslavia, quali, solo per citarne alcuni, Robert Prosinečki, Robert Jarni e Davor Šuker, oltre allo stesso Boban, cui si aggiunge il giovane Igor Tudor. La vittoria 1-0 contro la Turchia all’esordio viene bissata da un 3-0 alla seconda giornata contro i campioni in carica danesi, rendendo indolore il 3-0 incassato dal Portogallo. La Croazia è ai quarti e si trova di fronte la Germania che, con fatica, si qualifica vincendo 2-1. I vatreni sono fuori dalla rassegna inglese ma quel che è certo è che il mondo deve iniziare a temerli, perché la Nazionale dalla maglia a scacchi fa paura e due anni dopo avrà l’occasione di dimostrarlo.
Siamo a Francia 1998, si gioca l’ultimo Mondiale del secondo millennio. Tra un’Italia che arriva dalla delusione di USA ’94, al Brasile di Ronaldo e alla grande Francia di Zinédine Zidane, spicca la Nazionale di Boban, carica soprattutto perché per la Croazia è il primo Mondiale in assoluto. In un girone con Argentina, Giamaica e Giappone risulta tutto piuttosto agevole: sconfitta con l’Albiceleste, poi due vittorie ampiamente pronosticabili che valgono l’accesso agli ottavi.
Superata la Romania 1-0 grazie al gol su rigore di Šuker, i balcanici si ritrovano nuovamente contro la Germania. Sembra il copione di un film, a soli due anni di distanza i croati, di nuovo in un quarto di finale, affrontano i tedeschi. Ma la Germania non è sul pezzo come accaduto due anni prima, stavolta l’occasione è davvero ghiotta e Boban e compagni non se la lasciano scappare. Finisce 3-0 per la Croazia che, al suo esordio in una Coppa del Mondo, arriva in semifinale contro la Francia padrona di casa.
Il primo tempo del penultimo atto si chiude sullo 0-0 ma la ripresa si apre con un clamoroso colpo di scena. Trenta secondi sul cronometro, Aljoša Asanović pesca Šuker in posizione regolare e l’attaccante, capocannoniere del Mondiale, con il sinistro spinge la palla in rete. Gli underdogs sono avanti, il sogno di una finale sembra iniziare a concretizzarsi e la partita si stappa definitivamente. Purtroppo per i vatreni è tutto un fuoco di paglia: appena un minuto più tardi proprio Boban perde un pallone velenoso nei pressi della propria area di rigore e per Lilian Thuram, imbeccato da Youri Djorkaeff, segnare è un gioco da ragazzi. Al 69’ arriva anche il gol del definitivo 2-1, siglato con un gran sinistro da fuori area proprio da Thuram, nell’inedita veste di bomber.
Una doccia gelata per la Croazia che, nonostante la superiorità numerica avuta dal 76’ in poi grazie all’espulsione di Laurent Blanc, non riesce a pareggiare. La delusione è immensa, inspiegabile a parole, soprattutto perché Boban, il capitano, è il responsabile dell’errore decisivo. Il senso di colpa ancora oggi lo perseguita. Alla fine la Croazia chiuderà il torneo con uno storico bronzo conquistato grazie al 2-1 nella finalina con l’Olanda, mentre a vincere, come due anni prima, sarà proprio la squadra che ha eliminato i croati dalla manifestazione.
Dalla divisa al completo con la cravatta
L’ultima tappa della carriera da calciatore di Zvonimir è Vigo ma il suo passaggio in Spagna è breve, di quelli che è meglio non ricordare. In Galizia, infatti, Boban rimane solo poche settimane, sei per la precisione. Poi il ritiro dal calcio giocato nel 2001, che ci lascia orfani di un grande campione. Ottenuta la laurea in Storia all’Università di Zagabria, il classe 1968 successivamente diventa collaboratore della Gazzetta dello Sport, opinionista tecnico per Sky Sport Italia e per RTL Televizija. Ma gli incarichi di spessore arrivano solo qualche anno dopo.
Il 30 maggio 2016 viene nominato vice-segretario generale della FIFA per lo sviluppo del calcio e l’organizzazione delle competizioni. Fin da subito gioca un ruolo fondamentale per l’introduzione del VAR, tanto che a Russia 2018 fungerà da raccordo tra la FIFA e la Commissione Arbitri della FIFA, nelle persone di Pierluigi Collina e Massimo Busacca. A giugno 2019 rassegna le dimissioni e torna al Milan in qualità di Chief Football Officer, una carica ricoperta solo per nove mesi a causa di alcune divergenze con Ivan Gazidis. Un anno più tardi, nell’aprile del 2021, diventa Head of Football della UEFA, un ruolo creato apposta per lui dal presidente Aleksander Čeferin che lo ha fortemente voluto al proprio fianco. I compiti sono simili a quelli che aveva nella FIFA, ossia rapportarsi con club e leghe, revisionare i calendari, gestire il VAR.
Come nel caso della FIFA, anche in questo caso l’avventura dura circa tre anni, fino all’inizio del 2024, quando l’ex Milan si dimette per problemi con Čeferin con riferimento al tentativo di quest’ultimo di essere nuovamente eletto presidente UEFA nonostante non sia previsto dalle regole. D’altronde già in passato Boban aveva dimostrato di essere un uomo tutto d’un pezzo e le decisioni e le azioni compiute in ambito dirigenziale lo hanno confermato ancora una volta, come ai tempi del siparietto con Mario Balotelli a Sky Sport o per episodi di ben altro spessore, come quel calcio al poliziotto al Maksimir.
Ma Zorro non è stato solo un calciatore incantevole e un uomo deciso. È stato capace di mostrare una grande sensibilità, come dimostra la sua immagine, in lacrime, dopo l’assegnazione del FIFA Best Player Award a Luka Modrić. Il fenomeno croato, protagonista insieme ai suoi compagni di una cavalcata che ha permesso alla Croazia 2018 di poter sognare di vincere il Mondiale, durante la premiazione aveva dedicato il premio proprio a Boban, suo idolo calcistico.
In quell’immagine c’è tutto Zvonimir Boban: un uomo duro all’apparenza ma mosso da un amore sconfinato per il proprio Paese e per la propria gente. Al punto da commuoversi per la vittoria di un premio individuale di un altro calciatore croato. Un amore che va oltre gli interessi personali, un legame viscerale con un popolo che ha sofferto gli orrori della guerra per anni. Una catena che lo legherà per sempre, in maniera indissolubile, a una terra antichissima che lo ha reso una leggenda immortale.
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