Il calcio nei gulag sovietici raccontato da Varlan Šalamov

Varlan Šalamov - Puntero
Nell’immensità gelida della Siberia orientale, dove la la neve soffoca i suoni e il silenzio diventa una tortura mentale, i gulag sovietici rappresentavano il limite ultimo della disumanizzazione. Erano campi di lavoro forzato. Disseminati nelle terre più remote e inospitali dell’Unione Sovietica, incarnavano un sistema repressivo con cui milioni di persone erano costrette a convivere. Spesso innocenti o colpevoli di crimini insignificanti, venivano gettati in un inferno di fatica e privazioni. La brutalità non si manifestava solo attraverso il lavoro estenuante o il gelo che mordeva le carni, ma si insediava nella coscienza umana, la svuotava gradualmente di ogni speranza e significato. In tale contesto, la resistenza non era solo fisica ma, fondamentalmente, psicologica: un atto di sopravvivenza interiore che implicava la salvaguardia della propria identità, dei propri ricordi e della propria umanità.

La resistenza nei gulag era una questione di sottili atti di resilienza. Ogni prigioniero lottava per preservare una scintilla di dignità: chi si aggrappava ai propri scritti poetici, chi ai propri ricordi, chi costruiva legami con altri prigionieri e chi s’illudeva di una vita futura. Ogni sforzo era vano. La prigionia nei gulag metteva in discussione ogni valore, perché, quando la fame diventa una costante e il freddo una tortura quotidiana, la linea tra ciò che è giusto e ciò che è necessario si sfoca. La sopravvivenza impone il suo crudo imperativo. Il mondo dei gulag, raccontato magistralmente da autori come Varlam Šalamov, ci mostra l’abisso in cui può cadere l’essere umano ma al contempo rivela come, anche in quelle condizioni disumanizzanti, possa persistere un residuo di luce interiore, un’ostinata volontà di non arrendersi del tutto alla morte spirituale.

 

Varlan Šalamov e i gulag

I racconti di Varlan Šalamov trasmettono una sensazione di gelo non solo fisico ma anche morale. Viene a crearsi un’atmosfera in cui la vita si riduce a una lotta nuda e cruda contro la degradazione. Non c’è spazio per il romanticismo della sofferenza. Esiste solo la sopravvivenza, intesa come una battaglia per non perdere sè stessi. I racconti di Kolyma, l’opera più nota di Šalamov, rappresentano un viaggio letterario che immerge il lettore nella disumanizzazione dei campi di lavoro siberiani, dove la speranza appare come un concetto estraneo. Šalamov non offre eroi né redenzioni. Il suo stile è asciutto, scarno, privo di enfasi, proprio come l’ambiente in cui sono ambientati i suoi racconti. Nelle sue storie le persone sono spogliate di ogni idealismo e ridotte a esistenze sospese tra la vita e la morte, dove l’unica certezza è l’indifferenza del gelo e la brutalità del potere.

Nel ciclo di racconti che compone I racconti di Kolyma, Šalamov esplora il progressivo disfacimento dell’individuo, soprattutto sul piano morale. La fame, il freddo e l’isolamento spingono i prigionieri a una regressione primitiva, in cui l’unico obiettivo è sopravvivere alla giornata. Ma è proprio questa spinta alla sopravvivenza che, paradossalmente, porta spesso all’annullamento dell’identità e della coscienza. Infatti, l’autore descrive un mondo in cui l’essere umano si riduce a una mera esistenza biologica, svuotata di qualsiasi contenuto spirituale. Attraverso quest’opera ci restituisce un’immagine della resistenza umana che non si misura in gesti eroici quanto, piuttosto, nella capacità di mantenere, anche solo per un attimo, un briciolo di dignità in un contesto che tende a distruggerla. L’opera non è solo un monito sulla brutalità del totalitarismo ma una riflessione sul potere della letteratura: scrivere diventa uno dei mezzi, nelle mani di chi ha sofferto, per preservare la propria dignità.

 

Il viaggio per Ola

Nel cuore dell’inferno ghiacciato della Kolyma, Varlam Šalamov riesce a cogliere la complessità della vita nei gulag. Ne Il viaggio per Ola, una partita di calcio, giocata dai prigionieri in condizioni surreali, emerge come un’immagine straniante e quasi paradossale. Nel mezzo di un paesaggio desolato l’improvvisa comparsa del gioco sembra rivelare uno strano riflesso di normalità. Tuttavia, il pallone che rimbalza nella neve non rappresenta affatto una parentesi di leggerezza: è piuttosto un’amara parodia della vita, una tregua illusoria in cui la brutalità e la desolazione del contesto permangono. I corpi dei giocatori, emaciati e indeboliti, si muovono come ombre in una coreografia che riflette la loro stessa alienazione. Anche il divertimento, nella Kolyma, porta il marchio della sopravvivenza e della degradazione.

Šalamov usa questo momento apparentemente futile per illuminare la tensione tra l’istinto umano di aggrapparsi a frammenti di umanità e la realtà implacabile che lo circonda. Il gioco, che altrove potrebbe significare libertà e svago, diventa qui una sorta di rituale grottesco, un pallido simulacro della vita civile. Gli spettatori, prigionieri anch’essi, osservano con distacco, consapevoli della farsa in cui sono immersi. La partita si trasforma in una metafora della condizione dei detenuti: un moto perpetuo e senza scopo, dove il movimento nasconde un vuoto assoluto. Šalamov non si sofferma su vincitori o vinti, perché in quel contesto ogni vittoria è priva di significato. Attraverso questa scena, l’autore ci costringe a riflettere sul paradosso di un’esistenza in cui anche gli atti più quotidiani sono impregnati di disperazione e in cui la sopravvivenza diventa l’unico fine, lasciando che ogni altro senso si dissolva nel gelo implacabile della Siberia.

 

Una partita tra i ghiacci

Nell’anticamera del gulag in cui era rinchiuso, Šalamov ha notato un particolare affascinante, un trompe-l’œil forgiato dal destino:

Mi sembrò che i giocatori di entrambe le squadre, cercando il tiro a rete con tutta una serie di passaggi, corressero molto lentamente e che quando il tiro in porta partiva, il pallone descrivesse nell’aria una traiettoria talmente lenta che tutta l’azione da gol poteva essere paragonata ad una ripresa televisiva rallentata.

La loro vita nell’inferno di ghiaccio della Siberia era grigia, compassata, ripetitiva. Questa lentezza veniva incarnata dai calciatori, quasi come se il loro calcio si fosse infettato col germe del totalitarismo, che ormai faceva pienamente parte della loro esistenza. Ma l’illusione non si limitava alla velocità:

Magadan, giornata piena di sole, domenica luminosa. Assistetti alla partita tra due formazioni locali: Dinamo 3 contro Dinamo 4. Il fiato della standardizzazione staliniana aveva determinato questa noiosa uniformità dei nomi.

L’uniformità nella denominazione delle formazioni descritta da Šalamov non era solo una questione di mera formalità, ma un riflesso della volontà del regime di ridurre ogni aspetto della vita pubblica a una mera estensione del potere centrale. In un sistema che cercava di annullare le diversità, anche lo sport veniva privato della sua dimensione di individualità e competizione. Le squadre, ridotte a numeri omologati e privi di carattere, divenivano un microcosmo dell’eterna ripetitività e della grigia monotonia che caratterizzavano il regime stalinista. L’atto di denominare le squadre in modo uniforme rifletteva quindi non solo una strategia di controllo, ma anche un tentativo di infliggere un’ulteriore dose di disumanizzazione a una società già oppressa dalla tirannia.

 

L’insegnamento di Šalamov

Ecco dove sta la grandezza del racconto di Šalamov. Il calcio, sotto il regime stalinista, divenne un palcoscenico per la rappresentazione e la propagazione della sua ideologia. I campionati e le competizioni sportive erano utilizzati per consolidare l’idea di un’omogeneità che rifletteva il controllo e l’autoritarismo staliniano. Le squadre, ridotte a mere entità numeriche, incarnavano l’assenza di individualità e la soppressione della diversità, quella standardizzazione tanto cara a Stalin, che aveva trovato nel calcio terreno fertile per poter fiorire al meglio. Il calcio era diventato uno dei principali strumenti della sua propaganda.

Nei gulag il calcio assumeva una dimensione quasi surreale, diventando un’eccezione in un contesto di estremo disagio e oppressione. I prigionieri, ridotti a scheletri viventi, trovavano nel gioco un momento di distrazione che, purtroppo, non era in grado di alleviare la pesantezza della loro condizione. La lentezza e la ripetitività delle partite, descritte con ironia e malinconia da Šalamov, riflettevano la loro esistenza quotidiana, ridotta a una lotta monotona e incessante per la sopravvivenza. Il calcio nei gulag, pur offrendo un fugace momento di evasione, rimaneva intrinsecamente connesso alla realtà disumanizzante e oppressiva della vita nelle carceri siberiane. Ne evidenziava il contrasto tra il potere simbolico dello sport e la cruda realtà dell’esistenza nei campi di lavoro forzato.

 


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Di Thomas Novello

Studente di Editoria e Giornalismo e aspirante scrittore a tempo perso. Famoso su X (fu Twitter) per proteggere Diego "el más grande" Ribas Da Cunha e Berbatov.