Rimonte e finali epici: dieci storie magiche oltre a Sinner

Ogni sport ha le sue regole, le sue dinamiche tecniche e psicologiche, le sue peculiari caratteristiche. Eppure, se c’è qualcosa che li accomuna tutti è proprio la possibilità di farci rimanere con il fiato sospeso fino all’ultimo, a rischiare ribaltoni finché il proverbiale gatto di trapattoniana memoria non è nel sacco. È quello che è successo nella finale dell’ultimo Australian Open di tennis, che ha regalato all’Italia un trionfo in un torneo maschile del Grande Slam a 48 anni dall’ultima volta. Abbiamo confrontato il tennis con altri dieci sport molto diversi tra loro, in nome di un unico tratto comune: un finale epico.

 

Tennis – Finale dell’Australian Open 2024

Impossibile non partire da qui, dall’evento più recente, quantomeno limitatamente a questa rassegna. Siamo a gennaio 2024. Da una parte Daniil Medvedev, tennista russo di quasi 28 anni dal temperamento fumantino, al tempo numero 3 al mondo e secondo tennista dopo Andy Murray a spezzare il regno tricipite di Federer, Nadal e Djokovic in vetta al Ranking ATP. Dall’altra il nostro Jannik Sinner, classe 2001, in quel momento al quarto posto della classifica mondiale, ma alla prima finale di un torneo del Grande Slam al culmine di un periodo di grande crescita sportiva. Sinner non ha mai battuto Medvedev: nei quattro precedenti, il russo si è sempre imposto, circostanza che non fa stare tranquillo il popolo azzurro.

A differenza del collega russo, il cammino di Sinner verso la finale è quasi perfetto: i primi due avversari sono gli olandesi Botic van de Zanschulp e Jesper de Jong, quindi l’argentino Sebastián Báez, testa di serie numero 26, e i russi Karen Khachanov, testa di serie numero 15, e Andrej Rublëv, testa di serie numero 5. Una difficoltà crescente ma, al tempo stesso, una impeccabile costanza: cinque vittorie nette senza concedere neanche un set agli avversari.

In semifinale, di fronte all’altoatesino, c’è il numero 1 al mondo Novak Djokovic. Sinner concede il primo set del torneo ma nel complesso domina in lungo e largo la leggenda serba, rifilandogli un 6-1, 6-2, 6-7, 6-3 con l’ulteriore smacco di un match concluso senza aver mai concesso una palla break. Eventualità occorsa solo una volta al serbo e solo a fronte di un ritiro all’inizio del secondo set, per la precisione nei quarti di finale di Wimbledon nel 2017 contro Tomáš Berdych. In finale i pronostici e le energie sembrano pendere in direzione del tennista di San Candido ma nei primi due set Medvedev si impone con il medesimo punteggio di 6-3, senza particolari patemi, facendo riaffiorare i fantasmi di quel record di 4-0 in suo favore nei precedenti con Jannik.

Stanchezza? Emozione? Niente di tutto ciò: dal terzo set Sinner riprende a macinare e porta a casa una rimonta incredibile: il terzo e quarto set si concludono in maniera analoga, con il primo e unico break del set al decimo game: 6-4 per Sinner in entrambi i parziali. Nel set decisivo, il break che sposta gli equilibri arriva al sesto game: l’inerzia del match diventa alleata dell’altoatesino, che conclude una rimonta straordinaria: 3-6, 3-6, 6-4, 6-4, 6-3 e primo titolo dello Slam alla prima finale. Una rimonta clamorosa, non una novità per Medvedev, che aveva già perso la finale in Australia nel 2022 contro Nadal nonostante un vantaggio di due set a zero.

I momenti salienti dell’impresa di Sinner nella grande rimonta su Medvedev

 

Ciclismo – Inseguimento a squadre maschile, Finale olimpica, Tokyo 2020

A proposito di emozioni forti e lustro per il nostro Paese, impossibile non menzionare la finale olimpica dell’inseguimento a squadre maschile di ciclismo a Tokyo 2020. Il giorno dopo aver guadagnato la finale imponendosi sulla Nuova Zelanda con tanto di record del mondo, il quartetto azzurro composto da Filippo Ganna, Simone Consonni, Francesco Lamon e Jonathan Milan si trova a dover fronteggiare la temibile Danimarca nella finalissima.

Il 4 agosto 2021 le due nazioni sono incollate davanti alla tv, destinate a godersi i 16 giri, per complessivi 4000 metri, a tutto gas all’interno del velodromo di Izu. L’avversaria, forte e di grande esperienza, è arrivata alle Olimpiadi come detentrice del record mondiale, ancorché sfilatole proprio dai nostri. Trascinata dal suo uomo di punta Lasse Norman Hansen, oro nell’Omnium a Londra 2012 e futuro oro nell’Americana a Tokyo, la Danimarca si presenta alla finale con i favori del pronostico. Che, invero, sembrano destinati a essere rispettati perché, dopo una partenza forte dei nostri pistard, la Danimarca si avvicina gradualmente attorno a metà gara fino al sorpasso ai 2375 metri. Preso il comando, la Danimarca scappa: ai 2750 metri il vantaggio è di oltre mezzo secondo (+0,574 s) e ai 3000 metri sale a +0,867 s.

Serve un miracolo e fortunatamente l’Italia ha quello che i cronisti chiamano San Filippo Ganna: all’ultimo chilometro tocca a lui tirare il gruppo, ridotto a tre unità. Ganna abbassa la testa e macina pedalate, trascinando con sé i compagni con un ritmo infernale: dopo 250 metri ha già recuperato un decimo e mezzo e continua a spingere. A due giri dal traguardo, con 500 metri da correre, il cronometro è ancora verde con ampio margine per la Danimarca: quasi mezzo secondo di vantaggio (+0,493 s). Ganna ha quasi dimezzato lo svantaggio ma la distanza dal traguardo non gli è favorevole. All’ultimo giro l’Italia intera è in piedi sul divano: recuperati altri due decimi, rimangono 0,285 secondi da recuperare in un giro. Non facile ma le Olimpiadi di Tokyo ci hanno insegnato che anche i sogni più arditi possono realizzarsi.

A metà giro dalla fine il cronometro è ancora verde per la Danimarca ma il margine è risibile, appena +0,055 s. Ci sarà solo un ultimo riscontro cronometrico, quello del traguardo. O la va o la spacca, pochi secondi che sembrano interminabili per tutti. Le due squadre passano sulla linea del traguardo: il crono dei nostri ragazzi si ferma a 3 minuti, 42 secondi e 32 millesimi. Il cronometro diventa verde e, stavolta, verde significa oro, con tanto di record mondiale. Un’impresa titanica e una gara mozzafiato, resa ancor più epica dal commento di Luca Gregorio e Marco Cannone, che celebrano il successo fino a commuoversi e scrivono una pagina indimenticabile della televisione sportiva.

Un’impresa commovente con una telecronaca da brividi di Gregorio e Cannone

 

Calcio – Finale Champions League 1999

Una partita che racchiude tutto il bello e il brutto del calcio, a seconda del punto di osservazione. È il 26 maggio 1999, il teatro è il Camp Nou di Barcellona, che dà asilo a due big del calcio europeo, il Manchester United di Sir Alex Ferguson e il Bayern Monaco di Ottmar Hitzfield. Il match si sblocca dopo soli 6’: punizione dal limite per i bavaresi, calcia Mario Basler che beffa un non impeccabile Peter Schmeichel sul proprio palo. Lo United ci prova ma il match pare in controllo per i tedeschi, che addirittura colpiscono due legni con Mehmet Scholl e Carsten Jancker. Nel finale accade l’imponderabile, in un mix di cuore e cambi azzeccati: Ferguson si è giocato solo due dei tre cambi a disposizione, inserendo i due attaccanti di riserva, Teddy Sheringham e Ole Gunnar Solskjær.

L’arbitro, il nostro Pierluigi Collina, assegna tre minuti di recupero. Al 91’ c’è un corner per i Red Devils, nell’area avversaria c’è anche il portiere Schmeichel: David Beckham crossa a rientrare dalla sinistra e la palla arriva proprio dalle parti del portierone danese senza che nessuno riesca a colpirla. La retroguardia bavarese respinge con una ciabattata sui piedi di Ryan Giggs, che calcia da fuori area con il destro in maniera altrettanto imprecisa: diventa un assist perfetto per Sheringham, che da due passi trova l’1-1. Ma non è finita. Passano due minuti, ultima azione: altro corner dalla sinistra affidato al magico destro di Beckham. L’area è meno affollata, non è un attacco disperato come il precedente ma sarà egualmente vincente. Sul primo palo ancora Sheringham spizza di testa e sul secondo palo accorre Solskjær, che ci mette il piede e manda i Red Devils in paradiso.

Le scene successive sono incredibili, giocatori del Bayern in lacrime a terra con il pallone ancora in gioco e il presidente UEFA Lennart Johansson che rivelerà al mondo la sua confusione, data dal fatto di essere sceso sul campo con l’ascensore del Camp Nou sull’1-0 ed essere arrivato in campo vedendo “in lacrime chi ha vinto e ballare chi ha perso”.

Dall’inferno al paradiso in due minuti: una delle rimonte più incredibili della storia del calcio

 

Basket – NBA Finals 1998, Gara 6

Non solo la fine di una partita e di una stagione, ma anche di una carriera. E non una banale, quella del più grande di tutti, Michael Jordan. Che decide di chiuderla in maniera a dir poco altisonante. Le Finals mettono di fronte per il secondo anno di fila Chicago Bulls e Utah Jazz. Durante la regular season, i Jazz hanno ottenuto un record migliore e si presentano con il vantaggio del fattore campo, ribaltato in Gara 2 grazie il successo dei Bulls a Salt Lake City.

Tuttavia in Gara 5, con in mano il match point, i Bulls vengono sconfitti in casa 83-81: pur rimanendo avanti nel punteggio, devono vincere nuovamente nello Utah per assicurarsi il titolo e portare a casa il secondo three-peat negli ultimi otto anni. Il match del 14 giugno 1998 è tirato e la volata finale è entusiasmante: sul punteggio di parità, a 41,9 secondi dal termine Karl Malone e John Stockton si scambiano i ruoli: dal post, The Mailman innesca la tripla di Stockton che manda i Jazz sul +3.

Di rientro dal timeout, Michael Jordan attacca rapidamente il canestro avversario, ci mette meno di cinque secondi per riportare il punteggio sul -1: 86-85 e palla in mano per i Jazz. Che si rifugiano ancora nel post del loro uomo simbolo, Malone. Spalle al canestro si protegge dalla marcatura sin lì asfissiante di Dennis Rodman ma improvvisamente, da dietro, si materializza il raddoppio di Air: gli strappa la palla dalle mani e ne torna in possesso a 20,3 secondi dalla fine, puntando dritto verso il canestro avversario.

È la sua palla, la maneggia con cura. Si porta a ridosso dell’arco palleggiando innanzi a Bryon Russell, uno che si era autoproclamato il miglior marcatore possibile su Jordan. His Airness si “ingobbisce” e, con 9,9 secondi sul cronometro, attacca. Punta verso la lunetta e, dopo aver appoggiato una mano sull’anca di Russell, cambia direzione. Uno “spezzacaviglie” che manda per terra il difensore e lascia strada libera per Jordan: jumper dai 6 metri, solo retina: 87-86 Chicago, 5,2 secondi sul cronometro. L’ultimo tiro è una tripla di Stockton che finisce sul ferro, i Bulls vincono con quello che passerà alla storia come The Last Shot, l’ultimo e decisivo pallone della carriera di Michael Jordan a Chicago.

Tranquillo e Buffa ci raccontano l’epico ultimo minuto di Michael Jordan

 

Formula 1 – GP Abu Dhabi 2021

Il finale più al cardiopalma della storia della F1. Il 2021 è l’anno di un testa a testa pieno di colpi di scena tra il sette volte campione del mondo Lewis Hamilton e l’olandese Max Verstappen, figlio d’arte a caccia del primo titolo iridato in carriera. Alla penultima prova, il GP d’Arabia Saudita, il successo numero 103 della carriera del pilota britannico ha determinato una situazione di classifica di totale parità prima dell’ultima gara che non si verificava dal 1974.

L’unico motivo di apparente disparità è dato dal numero di gare vinte: 9-8 per Verstappen che, quindi, si sarebbe laureato campione del mondo nel caso in cui entrambi avessero fatto gli stessi punti nell’ultimo GP, circostanza resa possibile solo da un doppio zero o da un nono e decimo posto in cui il decimo classificato avesse anche realizzato il giro più veloce in gara. Con 369,5 punti a testa, il 12 dicembre Hamilton e Verstappen arrivano all’ultima gara pronti a una bagarre per tutti i 58 giri del GP di Abu Dhabi. Mai come in questo caso non sarà un modo di dire.

Entrambi partono in prima fila. Verstappen, in pole, viene immediatamente sopravanzato dal pilota di Stevenage, che piazza la sua Mercedes davanti alla Red Bull dell’olandese. Sembra un GP tranquillo, anche al netto di qualche safety car, con Hamilton costantemente davanti al rivale. Fino alla svolta. È il giro 52, la gara è agli sgoccioli ma nei bassifondi arriva un duello che cambia le sorti della gara. In un tentativo di attacco a Mick Schumacher, figlio del leggendario Michael, il canadese Nicholas Latifi va in testacoda, sbattendo sulle barriere con la sua Williams e costringendo la direzione di gara a chiamare nuovamente l’ingresso in pista della safety car.

Verstappen rientra ai box per montare le gomme soft, a differenza di Hamilton, quindi la direzione gara prende una decisione controversa: vengono fatti sdoppiare i soli piloti che si trovano tra i due leader del mondiale, così da permettere il rientro della safety car e un ultimo giro lanciato da “tutto o niente”. L’olandese, che ha anche ottenuto il giro più veloce in gara valido un punto e ha pneumatici più performanti, non ha nulla da perdere: Hamilton rallenta tentando di prendere sprint al rientro a regime ma non ci riesce, Verstappen gli è attaccato e alla curva 5 effettua il sorpasso che vale il primo titolo mondiale personale.

Alcune suggestive riprese dalle onboard camera di Verstappen, Hamilton e Ricciardo per l’ultimo giro di Abu Dhabi

 

Football – NFL, XLII Super Bowl, 2008

Una rincorsa continua, Super Bowl compreso. È questo il cammino dei New York Giants per la stagione 2007 della NFL. Quinti nella NFC, i Giants approdano ai playoff tramite il Wild Card Round, dove si sbarazzano di Tampa Bay imponendosi 24-14, quindi un doppio successo a sorpresa: al Divisional Round 21-17 sui Dallas Cowboys, poi un trionfo anche al Conference Championship a danni dei Green Bay Packers per 23-20. Il ritorno al Super Bowl a sette anni di distanza dall’ultima volta, però, è tutt’altro che semplice: innanzi a Giants si para un mostro a tre teste, i New England Patriots del leggendario Tom Brady, vincitori di tre titoli nei sei anni precedenti. Patriots che, a differenza dei Giants, arrivano al Super Bowl con un percorso perentorio e immacolato: 16-0 in Regular Season e netti successi sia al Divisional Round (31-20 su Jacksonville) sia, soprattutto, al Conference Championship (21-12 su San Diego).

I bookmakers devono ricredersi. Il XLII Super Bowl, disputato a Phoenix il 3 febbraio 2008, è estremamente combattuto, le due squadre rimangono a contatto fino a quando New England piazza la zampata, con un touchdown a 2.42 dal termine del quarto periodo e successiva trasformazione, che fissano il punteggio sul 14-10. Ma NY non molla e si affida al proprio quarterback, Eli Manning. A 1.15 dalla fine sembra finita quando Asante Samuel va a un passo dall’intercetto, lasciandosi sfuggire la palla ovale e concedendo una nuova occasione ai rivali.

I Giants continuano a guadagnare yards grazie alle abilità di Manning e anche all’Helmet Catch, una straordinaria presa del wide receiver David Tyree, che trattiene un lancio di Manning di 32 yards grazie al lato del proprio casco. Fin quando, a 35 secondi dalla fine, il QB innesca Plaxico Burress per il touchdown che vale il controsorpasso. Tom Brady tenta di entrare ancora più nella leggenda organizzando il controsorpasso in favore di New Englands e sfiora il miracolo con due lanci da 80 yards. Non ci riuscirà, finisce 17-14. L’unica sconfitta stagionale dei Patriots costa il Super Bowl, vinto dai Giants con un Manning MVP della serata a fare la storia e riportare il titolo nella Grande Mela dopo 17 anni.

Il film-documentario sul trionfo dei Giants nella stagione conclusa con il XLII Super Bowl

 

Scherma – Fioretto femminile, Finale olimpica per il bronzo, Londra 2012

Carriera esemplare e vincente, quella di Valentina Vezzali. Dopo 5 ori, un argento e un bronzo nelle quattro edizioni precedenti dei Giochi, la schermitrice delle Fiamme Oro viene onorata della scelta come portabandiera azzurra in quelle che saranno le sue ultime Olimpiadi. Stavolta la concorrenza è spietata, anche in seno a una squadra azzurra che si appresta a scrivere una pagina indelebile dello sport italiano ma non esattamente nel nome dell’armonia tra le atlete.

Dopo tre ori individuali consecutivi, il 28 luglio 2012 Valentina Vezzali abdica in semifinale contro Arianna Errigo: la sconfitta per 15-12 le costa il derby in finale contro Elisa Di Francisca ma non l’attenzione di tutta Italia, che sogna un podio tutto tricolore. Di fronte a Valentina Vezzali c’è la sudcoreana Nam Hyun-Hee, sconfitta sul filo del rasoio nella finale per l’oro quattro anni prima. La voglia di vendetta carica Nam, che prende in mano le redini dell’incontro e pare a un passo dal podio: 12-8 a 21 secondi dalla fine.

Un’impresa impossibile per chiunque ma non per una leggenda come Valentina: in appena 13 secondi recupera le quattro stoccate e manda il match all’extra-time, dove è proprio la nostra portabandiera a siglare la stoccata decisiva. 13-12, una rimonta pazzesca nell’ultima gara olimpica individuale. L’ultima gara, a squadre, varrà il suo sesto oro, una chiusura col botto della carriera a cinque cerchi.

Lungo ma ne vale la pena: semifinali e finali del fioretto femminile a Londra 2012 per un podio tutto azzurro

 

Nuoto – Finale olimpica 100m farfalla, Pechino 2008

Reduce dall’impatto pazzesco nelle precedenti Olimpiadi di Atene a soli 19 anni, Michael Phelps si presenta a Pechino con un tarlo ben preciso: non solo vincere ma anche demolire un record che resiste da 36 anni, quello di sette ori nella stessa edizione dei Giochi, appartenente al nuotatore statunitense Mark Spitz. Un record che molti definiscono ancora imbattibile, nonostante l’eccellente performance di Phelps ad Atene 2004, con 6 ori e 2 bronzi.

The Baltimore Bullet arriva ai Giochi per correre otto gare e in tutte si qualifica alla finale. Nelle prime sei arrivano sei ori, quindi un ostacolo di primissimo ordine gli si para innanzi: il suo grande rivale per la finale dei 100m farfalla è il serbo Milorad Čavić, che in batteria e in semifinale ha fatto registrare il miglior tempo. Čavić è forte e sicuro dei propri mezzi, forse anche troppo. Infatti, in maniera poco prudente, sfida il rivale dichiarandosi fermamente intenzionato a spezzare il suo sogno di battere il record di Spitz.

È il 16 agosto 2008, la gara vede Čavić avanti fin dalle prime bracciate ma la cosa non deve confondere. La specialità di Phelps è il negative split, ossia una partenza lenta e un robusto sprint finale, lucrando sulle capacità di resistenza del nuotatore statunitense, il cui corpo produce meno acido lattico rispetto ai colleghi. Phelps rimonta, il rivale prova a resistere, i due toccano insieme ma con un giallo: Čavić dichiara di aver toccato prima ma la pressione è insufficiente a fermare il cronometro. Il primo a fermarlo è Phelps: 50.58 per l’americano, 50.59 per il serbo. La gara finisce ma partono i ricorsi, che danno esito negativo: settimo oro per Phelps, che qualche giorno dopo batterà anche il record di Spitz.

Finale al cardiopalma per i 100m farfalla: la spunta Phelps, che raggiunge il record di Spitz

 

Baseball – MLB, American League Championship Series 2004

Una storia talmente pazzesca da essere diventata un film-documentario dal titolo Four Days in October. Di fronte, tra il 12 e il 20 ottobre 2004, due squadre leggendarie del baseball americano, i New York Yankees e i Boston Red Sox. All’orizzonte le World Series che determineranno il campione MLB 2004. Se il bilancio complessivo tra le due franchigie è stato fin lì piuttosto equo (45 incontri in due anni con un parziale di 23-22 per i Red Sox), due sono i fattori che turbano la scaramanzia e i sonni dei tifosi di Boston.

Nei quattro precedenti alle ALCS si è sempre imposta New York, arrivata a giocarsi il titolo alle World Series. Inoltre, i due team sono accomunati da una leggenda tra la superstizione e l’esoterismo, quello della Maledizione del Bambino. Il Bambino altri non è che il leggendario Babe Ruth, che aveva iniziato la sua carriera nei Red Sox e con i quali aveva vinto le World Serie nel 1915, 1916 e 1918. A quei tempi Boston era la squadra più forte al mondo ma nel 1919, per finanziare gli interessi privati del proprietario dei Red Sox, Babe Ruth fu ceduto proprio alla franchigia di New York.

Le sorti delle franchigie si sarebbero ribaltate: Ruth vinse altre quattro volte le World Series nella Grande Mela e in generale gli Yankees avrebbero vinto 27 titoli, mentre Boston non si sarebbe mai più imposta, giocando solo quattro volte le World Series, tutte perse nella decisiva Gara 7. E l’inizio della serie va nella direzione che i tifosi del Massachussets temono: 3-0 per gli Yankees dopo Gara 3, anche a causa di un infortunio del leggendario lanciatore Curt Schilling, che gioca Gara 1 con un tendine lacerato e rimarrà fuori fino all’eventuale Gara 6.

Al momento dell’inizio del decisivo 9° inning di Gara 4, New York è avanti 4-3 ma, grazie all’esterno Dave Roberts, Boston trova la parità, portando il match agli extra-innings. Al 12° inning è un home run di Big Papi David Ortiz a prolungare la serie. Se per Gara 4 sono serviti 12 inning, a Gara 5 si arriva addirittura al 14°, facendo registrare quello che all’epoca è il match di postseason più lungo di sempre, con una durata di 5 ore e 49 minuti. Dopo un buon inizio, Boston si fa ribaltare fino al 4-2 per gli Yankees, salvo pareggiare grazie a una corsa miracolosa di Jason Varitek all’8° inning. E al 14° inning è ancora Big Papi con un home run a portare le ALCS a Gara 6.

Nella storia è successo solo altre due volte che la serie arrivasse al penultimo atto dopo un iniziale parziale di 3-0, e in entrambi i casi la squadra in vantaggio aveva chiuso la serie. Non stavolta: in quello che sarà ricordato come Bloody Sock Game a causa del fatto che Schilling, ancora infortunato e con la guaina del tendine strappata, è salito ugualmente sul monte di lancio, terminando il match con un calzino inzuppato di sangue, arriva una vittoria per 4-2 grazie a un grande 4° inning. L’impresa viene completata con la netta vittoria per 10-3 in Gara 7, che fa dei Red Sox la prima squadra di sempre a ribaltare uno 0-3 in post-season, permettendo anche di spezzare la Maledizione del Bambino: in finale, infatti, un perentorio 4-0 sui St. Louis Cardinals riporta il titolo a Boston dopo ben 86 anni.

Gli highlights di questa serie leggendaria

 

Wrestling – WWE, New Year’s Revolution 2006

Il primo pay-per-view WWE del 2006, disputato l’8 gennaio, è l’occasione per assistere a un main event molto particolare: l’Elimination Chamber Match, fin lì disputato solo tre volte. Un’edizione, quella del 2006, che fa storcere la bocca a qualche spettatore per una platea di partecipanti non del tutto affascinante. Dopo i primi sei incontri, il WWE Champion in carica John Cena deve difendere il titolo nella gabbia contro Kane, Shawn Michaels, Kurt Angle e due profili meno attraenti per il pubblico, Chris Masters e Carlito.

Proprio il caraibico, tuttavia, risulta essere il più attivo durante il match, dapprima collaborando con l’amico Chris Masters per l’eliminazione di Kane, quindi facendo fuori Shawn Michaels. Il match si trasforma, di fatto, un due contro uno, con Cena demolito da Carlito e Chris Masters. Ma, proprio mentre quest’ultimo sta eseguendo la sua Masterlock, Carlito lo colpisce da dietro, schienandolo con un roll-up, prima di essere a sua volta schienato con un roll-up da John Cena appena 7 secondi dopo.

Cena quindi conserva il titolo. Finita? Macché. Mentre il campione è una maschera di sangue, irrompe Vince McMahon, proprietario della WWE ad annunciare che Edge ha intenzione di incassare il Money in the Bank conquistato a Wrestlemania XXI e sfidare immediatamente il campione. Servono due Spear al canadese ma alla fine, tra lo sgomento dei presenti, è lui il WWE Champions al termine di New Year’s Revolution.

 Elimination Chamber match e successivo finale clamoroso

 

Pattinaggio – Finale olimpica short track 1000m, Salt Lake City 2002

Il finale più clamoroso rimane comunque quello che ha consegnato alla storia Steven Bradbury, pattinatore australiano classe 1973 capace di riprendersi in pochi giorni quello che la sfortuna gli aveva tolto. Già, perché le premesse parevano buone: nel 1994, alle Olimpiadi invernali di Lillehammer, Bradbury si era assicurato il bronzo nei 5000m. Ma pochi mesi dopo, in una gara della Coppa del Mondo a Montréal sulla distanza dei 1500m, un incidente fa temere il peggio per la carriera e addirittura la vita dell’australiano.

In uno scontro con il pattinatore di casa Fredric Blackburn, la lama del pattino di quest’ultimo gli recide l’arteria femorale: Bradbury perde oltre quattro litri di sangue e, dopo 111 punti di sutura, ha bisogno di un anno e mezzo per tornare in pista. La sua carriera e il suo sprint non saranno più gli stessi e, anzi, verranno minati da ulteriori gravi infortuni, come la frattura del collo nel 2000. Bradbury rimane, comunque, il punto di riferimento dello short track in Australia, ragion per cui decide di tenere duro fino alle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002. Alla vigilia dei Giochi, dichiara che l’appuntamento a cinque cerchi sarà l’ultimo della sua carriera prima del ritiro. Non può neanche immaginare quanto sarà incredibile il finale.

Il percorso olimpico si divide in quattro gare: dopo aver vinto la sua batteria, Bradbury sembra già destinato all’eliminazione ai quarti di finale. Si piazza, effettivamente, terzo ma uno dei suoi predecessori, il canadese Marc Gagnon, viene squalificato, circostanza che vale il ripescaggio dell’australiano in semifinale. Qui Bradbury ha un passo oggettivamente inferiore rispetto agli altri atleti in gara ed è destinato a un ultimo posto senza appello. Eppure il destino lo manda in finale addirittura con il primo posto: le cadute di Li Jiajun, Mathieu Turcotte e Kim Dong-Sung gli permettono di raggiungere il secondo posto dietro al giapponese Satoru Terao che sarà successivamente squalificato.

Steven Bradbury è uno dei cinque finalisti, assieme a Li Jiajun, Mathieu Turcotte, Apolo Anton Ohno, già sfidato ai quarti di finale, e il coreano Ahn Hyun-soo, unico avversario mai incontrato nel percorso olimpico. La finale si disputa il 16 febbraio 2002 al Salt Lake Ice Center e lo svolgimento della gara segue un canovaccio piuttosto preciso. I primi quattro dominano e lottano, Bradbury è attardato e in costante affanno, sempre in fondo al gruppo.

I nove giri scorrono rapidi e, all’avvio dell’ultimo giro, i primi quattro paiono tutti avere reali chance per l’oro: Ohno, grande favorito, è avanti ma all’ultima curva Jiajun tenta di attaccarlo all’esterno, di fatto cercando di afferrare lo statunitense in maniera illegale. Dell’inevitabile rallentamento pare beneficiare Ahn Hyun-soo all’interno, ma ecco che accade l’imponderabile. Jiajun cade e Ohno, per evitarlo, fa un movimento verso l’interno. La mano dello statunitense incrocia le gambe di Ahn. Entrambi finiscono a terra e Turcotte, che è immediatamente dietro, finisce giù con loro.

L’essere attardato da inizio gara diventa una benedizione per Bradbury, abbastanza distante da spostarsi, evitare la valanga e vincere un oro storico. È il primo atleta dell’emisfero australe ad aggiudicarsi il massimo oro olimpico ai Giochi invernali e diventa l’idolo di tutti, anche grazie al video racconto dell’impresa da parte della Gialappa’s Band. Bradbury pur non negando la fortuna in finale, dirà trattarsi di un oro vinto non in quel minuto e mezzo ma in dieci anni di calvario. Una storia che, nonostante i risvolti comici, ha avuto un lieto fine.

La finale e l’oro di Bradbury, raccontati dai commentatori australiani

 


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Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.