Olimpiadi

Federico Caprilli e il mistero del primo oro italiano alle Olimpiadi

Sebbene la colonia azzurra alle prime edizioni dei Giochi Olimpici fosse tutt’altro che numerosa, alcune delle storie più bizzarre tramandate ai posteri riguardano proprio atleti italiani. Tra queste, spicca la misteriosa avventura di Federico Caprilli all’edizione parigina del 1900. Un racconto talmente peculiare da meritare un capitolo a parte rispetto alla già proposta narrazione di quella edizione, che galleggia tra verità e fantasia. E che lega una leggenda dell’equitazione militare a una competizione in cui, formalmente, non figura neanche tra i partecipanti.

 

Chi era Federico Caprilli

Federigo Olinto Caprilli, detto Ghigo, nasce a Livorno l’8 aprile 1868. Rimasto orfano di padre sin da bambino, la sua formazione parte dall’incontro della madre con quello che sarebbe divenuto il secondo marito, il garibaldino Carlo Santini, un ingegnere che avrebbe portato la nuova famiglia a vivere a Roma. Quella di Caprilli è una formazione di stampo militare che inizia a 13 anni, quando viene accettato al collegio militare di Firenze. Qui comincia a distinguersi in alcune attività sportive, su tutte la ginnastica e la scherma, sebbene nei rapporti venisse evidenziata una conformazione fisica che mal si addice a un atleta, avendo le gambe corte. Dopo due anni viene trasferito al collegio militare di Roma, dove inizia a familiarizzare con lo sport in cui eccellerà, l’equitazione.

A dire il vero “familiarizzare” è un termine generoso, quantomeno in prima battuta. Caprilli sembra veramente poco portato per la cavalleria, cadendo più volte dal dorso di Bertone, così si chiama il cavallo assegnatogli. Ma Ghigo non si scoraggia e nel 1886 entra come aspirante alla cavalleria nella scuola militare di Modena, dove stringe un’amicizia significativa con il suo compagno di stanza Emanuele Cacherano di Bricherasio, che in seguito diventerà dei fondatori della Fiat. Un’amicizia che gli creerà qualche grattacapo, una volta che la fama avrà investito il celebre compagno di studi. Già, perché alla fine Caprilli persegue i suoi scopi e intraprende la carriera militare in cavalleria – fino a diventare capitano – ma ciò non gli impedisce, proprio grazie all’amicizia con Bricherasio, di iniziare a frequentare i salotti buoni di Torino.

Qui inizia a conoscere gente potente e influente, da cui non sempre è amato e ben visto. Il motivo è presto detto: esattamente al pari dell’amico, Caprilli ha una sincera passione per le belle donne e ben poco riguardo circa il loro stato civile, finendo per infilarsi negli altrui talami coniugali e attirando inevitabilmente gelosie e perfino minacce di vendetta da parte di mariti sospettosi. Lo storico Gabriele Benucci, che di Caprilli ha scritto una biografia, lo ha descritto come un novello Cyrano de Bergerac, accostandolo al protagonista della commedia di Edmond Rostand per la prontezza di spirito, l’ironia spesso tagliente e questo lato da tombeur de femmes. Non sarà l’unico punto di contatto con la vita letteraria di Rostand ma ci arriveremo in seguito.

Nel 1888 diviene sottotenente allievo a Saluzzo presso il reggimento Piemonte Reale ed è qui che acquista il suo primo cavallo, che chiamerà Sfacciato per il suo aspetto sbarazzino, dato dall’ampiezza della striatura bianca sul capo dell’equino. Un cavallo bellissimo ma reso economico da un difetto non di poco conto per un aspirante cavaliere: non vuole saperne di farsi montare, provato dai problemi al morso generati da precedenti proprietari. Una scelta dettata dalle necessità e disponibilità economiche del momento per Caprilli ma, soprattutto, una sfida che avrebbe cambiato per sempre non solo la vita di Ghigo ma anche e soprattutto il mondo dell’equitazione.

Caprilli coccola il suo destriero

 

Sistema Caprilli

Per far capire come un giovane militare, peraltro inizialmente negato per la cavalleria, sia riuscito a diventare un punto di riferimento e un innovatore per l’equitazione mondiale è necessario partire da un aneddoto raccontato da un suo commilitone, di nome Carlo Giubbilei, anch’egli successivamente biografo dell’amico. Caprilli era riuscito a montare Sfacciato e a farne il suo fedele destriero quando, un giorno, seguendo il suo capitano di reggimento, gli si parò innanzi un pericoloso crepaccio generato da una frana. Caprilli si girò verso il capitano e, in un sussulto di incosciente entusiasmo, gli urlò “io salto!”. I tentativi di farlo ragionare furono vani, mentre il capitano stava ancora parlando Sfacciato era già atterrato dall’altra parte dopo un volo plastico.

Un’impresa di cui tutti nel reggimento iniziarono a parlare, alimentando l’ego e l’animo spavaldo del giovane militare, che di lì a poco iniziò a sfidare se stesso e Sfacciato con pericolosi ostacoli di varia natura, come barriere di sciabole approntate in caserma e le siepi della corte della medesima. Sfacciato diventa un cavallo molto allenato, con un “personale” di 1,82 metri di salto, misura affatto banale per l’epoca, tanto che Caprilli decide di dedicarsi a competizioni amatoriali di salto. Ma com’era stato possibile non solo domare un cavallo che rifiutava la monta ma addirittura averlo reso un campione?

La risposta è nel metodo che avrebbe reso Ghigo il padre dell’equitazione moderna, tanto da essere ribattezzato Sistema Caprilli. Il principio del Sistema Caprilli nasce da un meccanismo pensato per la cavalleria militare e parte dall’iniziale creazione del rapporto fiduciario tra lo stesso Caprilli e il suo cavallo Sfacciato. Il giovane Federico infatti è affascinato dalla testarda presa di posizione dell’equino e tenta di entrare nella sua mente, per capire il perché del suo rifiuto a farsi montare. Il motivo è dato dal dolore al morso causato dalle modalità di monta dei precedenti proprietari. Non che fossero modalità crudeli, era semplicemente il modo comunemente diffuso ma, al tempo stesso, capace di arrecare un grande dolore all’animale.

La ragione è da ricercarsi nella posizione del cavaliere all’epoca convenzionalmente e universalmente adottata, che prevede una postura assisa connotata dalla schiena rigida del soldato. Una scelta motivata dall’eleganza e anche dall’asserita superiorità dell’uomo sull’animale: il cavaliere dev’essere un modello anche stilistico e il cavallo adeguarsi a chi lo monta. Caprilli, che è sia un militare che uno sportivo, capisce che non si tratta di un metodo efficace e funzionale.

Dal momento che il cammino in battaglia non è agevole ma accidentato, su sterrato pieno di ostacoli, quindi più simile al percorso adottato a livello sportivo, l’assetto dev’essere quello migliore per poter far correre il cavallo e permettergli di saltare ostacoli. Ed è questa la vera rivoluzione, è l’uomo a doversi adeguare al destriero e non viceversa: con una postura inclinata e sporgente in prossimità del capo del cavallo, la monta è più ergonomica e armoniosa, assecondando i movimenti del destriero e, soprattutto, tendendo a sforzarne meno il morso quando se ne richiede il salto.

In questa maniera Caprilli conquista la fiducia di Sfacciato, conferendo efficacia al suo movimento come con quel volo oltre il crepaccio che ha fatto tanto parlare di lui. Ed è su queste basi che divulga la propria conoscenza con una pubblicazione del 1901 sulla Rivista della Cavalleria, divenendo l’alfiere del metodo che dal quel momento si diffonde in tutto il mondo ed è ancora oggi adottato. Ma in che modo Caprilli trova posto nella storia delle Olimpiadi? In maniera rocambolesca e avvolta nel mistero, tanto da far dubitare della veridicità di questo episodio, oggetto di tesi e revisionismo. Una prerogativa che nessun evento sa garantire più di quanto siano in grado di fare le prime edizioni dei Giochi.

Una posa plastica di Federico Caprilli durante un salto a ostacoli

 

Equitazione a Parigi

Nel 1900 Caprilli non è più un giovane rampante a caccia di belle donne nella Torino bene. È un uomo di 32 anni la cui carriera militare è definitivamente sbocciata, portandolo a divenire capitano del reggimento Genova Cavalleria. La sua vita professionale e sportiva si intreccia in maniera indissolubile con quella di un altro personaggio fondamentale di questa storia, Gian Giorgio Trissino dal Vello d’Oro, discendente dell’omonimo letterato vissuto a cavallo tra il ‘400 e il ‘500. Come Caprilli, anche Trissino fa parte del Genova Cavalleria, di cui è sottotenente, e anche lui si diletta con profitto nell’arte equestre: la quotidiana vicinanza con il suo capitano ne migliora costantemente le doti al galoppo, anche grazie al recepimento del Sistema Caprilli.

Come detto, l’intreccio delle loro storie ha anche un risvolto a cinque cerchi: il 1900 è l’anno della seconda edizione dei Giochi, cui l’Italia partecipa con un contingente più nutrito rispetto a quanto accaduto quattro anni prima, quando ad Atene fu ammesso un unico atleta. Nell’equitazione dovrebbero partecipare quattro italiani: Caprilli con il cavallo Oreste nelle gare di elevazione (salto in alto a ostacoli) ed estensione, Trissino su Mélopo anch’egli nel salto in alto a ostacoli, Uberto Visconti di Modrone in groppa a Jupe-en-l’Air nella gara di estensione e, infine, Elvira Guerra, futura stella del circo come ballerina equestre e soprattutto prima donna italiana nella storia delle Olimpiadi, che avrebbe disputato su Libertin la gara di Chevaux de Selle – nota anche come “cattura e monta” – poi vinta da Louis Napoléon Murat, pronipote di Napoleone Bonaparte. Dovrebbero, abbiamo detto: il condizionale non è casuale.

Già, perché a Caprilli viene impedito di partecipare, fortunatamente avvisandolo prima di quanto fatto quattro anni prima con il povero maratoneta Carlo Airoldi. Ci sono due versioni, entrambe plausibili, che spiegano le ragioni di questa esclusione. La prima si riferisce a un richiamo in servizio da parte del Ministero della Guerra che impediva l’espatrio agli ufficiali in carriera nel periodo di scioglimento delle Camere. L’altra invece parte dal veto di Pierre de Coubertin, motivato da uno dei baluardi di questa prima fase dei Giochi: la partecipazione è consentita ai soli atleti dilettanti e un capitano di cavalleria che pratica l’arte equestre quotidianamente, al punto di aver rivoluzionato la disciplina, evidentemente è un professionista. Sebbene quest’ultima sia la versione più accreditata, non può dirsi pienamente convincente, dato che anche Trissino è cavaliere di professione ma può ugualmente partecipare, ipoteticamente solo per il suo grado inferiore.

Sta di fatto che, se anche la prima versione sembra fondata su un divieto più stringente, quest’ultimo non ferma Caprilli. Perché Caprilli a Parigi ci va comunque, sotto falso nome e, ufficialmente, approfittando di cinque giorni di licenza. Ufficialmente perché la spiegazione è quella di un tentativo di rifinitura e allenamento in favore del suo allievo Trissino per permettergli di vincere le sue gare. Ma da questo momento in poi la storia sfuma e unisce i fatti conclamati alla leggenda sportiva, alimentata da legittimi dubbi sullo svolgimento della competizione.

Louis Napoléon Murat durante la prova olimpica a Parigi

 

Un oro avvolto nel mistero

Gli annali dello sport italiano danno un enorme risalto all’equitazione. Il motivo è presto detto: nella gara di salto in alto, Trissino si assicura il primo oro azzurro della storia delle Olimpiadi moderne, un appuntamento storico e un onore incancellabile, che gli varrà anche la prima mattonella della Walk of Fame dello sport italiano al Foro Italico. Un successo ottenuto, ex aequo con il francese Dominique Gardères, in groppa a Oreste. Ma come Oreste? Avevamo detto trattarsi del cavallo assegnato a Caprilli, mentre per Trissino era stato preparato Mélopo. Ed è questo uno dei primi punti che alimentano il mistero, che si arricchisce di un dettaglio tutt’altro che irrilevante scorrendo la classifica generale.

Ai piedi del podio, infatti, si piazza nuovamente l’Italia con… Gian Giorgio Trissino a cavallo di Mélopo. Una casistica limite che le versioni ufficiali spiegano affondando a piene mani nel disastro organizzativo di Parigi 1900, di cui abbiamo già parlato in separata sede e che, tra le varie storture, avrebbe previsto l’eventualità di una partecipazione di un singolo cavaliere con più cavalli. Ma il treno delle teorie è già partito e va nella direzione di una chiarissima illazione: sulla sella di Oreste non si sarebbe seduto Trissino ma proprio Caprilli, che avrebbe partecipato con falso nome vista l’impossibilità di espatrio impostagli.

Una teoria folle, è vero, ma che trova una sponda ulteriore al momento della premiazione nella gara di estensione. L’Italia infatti chiude la sua performance equestre con un’altra medaglia, un argento. Ad assicurarselo è nuovamente Trissino in sella a Oreste, nonostante originariamente non dovesse partecipare alla gara, destinata al solo Caprilli. È il secondo indizio, manca solo il proverbiale terzo per fare una prova che, tuttavia, non sarà possibile acclarare. A tutt’oggi la teoria è dibattuta e oggetto di due schieramenti dottrinali diversi, capitanati dai due biografi già menzionati.

Gabriele Benucci diffida dalla versione ufficiale che vedrebbe un Caprilli – solitamente sbarazzino ed egocentrico, quindi sicuramente poco incline ad arrendersi innanzi a un’ingiustizia – eccessivamente ligio alle regole. Benucci ritiene che Caprilli avrebbe potuto al massimo concedere a Trissino il suo destriero per la gara di salto in alto ma non certo per l’estensione, autentico cavallo di battaglia (mai gioco di parole fu più azzeccato) del Sistema Caprilli e della carriera sportiva di Federico. Benucci, intervenuto posteriormente alla biografia dell’ex commilitone Giubbilei, scredita l’opposta teoria, ritenendola un maldestro tentativo di dare un connotato eroico post mortem alla decisione di Caprilli, la cui immagine sarebbe uscita meno pulita in caso fosse stata ammessa l’infrazione di un diktat ministeriale.

Per contro, Giubbilei aveva tentato di chiudere la questione, già chiacchierata all’epoca, dando lustro all’altruismo del capitano:

A Parigi nel 1900 era indetto un concorso ippico internazionale. Vi aveva esso inscritti Oreste del capitano Malfatti, Montebello e Mélopo, del cavalier Jean De Micheli. Aveva fatto domanda regolare al Ministero per concorrervi, e ottenne l’autorizzazione per recarsi all’estero. All’ultimo momento, o mene d’invidiosi o altro, fecero ritirare il permesso. Che fa il mio povero amico? Parte con regolare licenza dal reggimento per cinque giorni per Torino. Di là in incognito vola a Parigi, prova i cavalli, che già erano colà, agli ostacoli, dà istruzioni all’eccellente cavaliere conte Trissino che si trovava in aspettativa, e alla sera stessa del giorno del suo arrivo riparte e ritorna al reggimento. Oreste vinse il campionato del salto in estensione, Montebello fu secondo nel campionato d’elevazione; Caprilli si dolse di non averli condotti alla vittoria, ma gioì di questa e fu grato a Trissino di averlo così degnamente sostituito.

Una versione che non appare convincente, anche alla luce dell’erronea identificazione del cavallo con cui Trissino avrebbe vinto l’argento in estensione (Montebello in luogo dell’effettivo Oreste). Nel tempo, anche per garantire un velo di certezza a un momento sacro dello sport nazionale, altri elementi sono stati portati a suffragio della versione ufficiale, sia a livello di princìpi – secondo i più, un capitano non avrebbe mai accettato l’umiliazione di concedere un onore a lui spettante a un suo sottoposto come Trissino – che di testimonianze, visto che il Corriere dello Sport conferma la presenza di Caprilli a Torino nel periodo delle Olimpiadi. Ma sta di fatto che, a distanza di 124 anni, il primo oro azzurro alle Olimpiadi è ancora avvolto nel mistero.

La figurina Panini dedicata a Trissino nel 1968 per l’album “Campioni dello Sport”

 

Ancora Rostand, ancora un mistero

Parigi 1900 lascia in eredità una pagina indelebile per lo sport italiano proprio grazie all’equitazione, dal primo oro alla prima donna nei Giochi moderni: per pochi giorni Elvira Guerra ha mancato lo storico traguardo di prima donna in assoluto a presenziare alle Olimpiadi, anticipata solo dalla velista svizzera Hélène de Pourtalès. E anche Caprilli ha avuto la sua dose di successo grazie alle pubblicazioni relative all’omonimo sistema che avrebbe rivoluzionato l’arte equestre. Tutto bene quel che finisce bene? Beh, non proprio. C’è ancora spazio per un ultimo mistero irrisolto riguardante Federico Caprilli. Detto della sua vita da amante del genere femminile e della sua condotta talvolta fuori dalle righe, siamo in debito di un riferimento con la carriera letteraria di Edmond Rostand:

Mort à cheval, au galop. La gloire de Lancelot.

Letteralmente, “la morte a cavallo, al galoppo. La gloria di Lancillotto“. È ciò che il drammaturgo francese scriverà nel Le Vol de la Marseillaise, opera uscita postuma nel 1919. Una frase di un intero capitolo teso a sottolineare che la vera gloria e il vero onore per un cavaliere è morire mentre fa ciò che meglio gli riesce e che più ama, stare in sella al suo cavallo. Ed è proprio questa la fine capitata a Caprilli, almeno ufficialmente: muore a 39 anni, nel 1907, per una caduta da cavallo e il conseguente letale colpo alla nuca. Una versione che convince poco, alla luce dell’abilità e della perizia di un cavaliere esperto come lui.

Il 5 dicembre 1907, in una giornata nevosa, Caprilli si reca in una scuderia per scegliere un cavallo e, affascinato dalla storia di un equino ritenuto talmente bizzarro da essere scartato dalla duchessa d’Aosta, chiede di poterlo cavalcare per provare a domarne i bollenti spiriti. E invece Ghigo incontra la morte al primo tentativo. Ma qui iniziano i dubbi. Il titolare della scuderia è Enea Gallina, amico di Caprilli da quando il militare aveva acquistato da lui il suo primo cavallo, quello Sfacciato che avrebbe contribuito a donargli la gloria. Dopo aver lasciato la scuderia insieme, Gallina si allontana ma proprio in quel momento l’amico cade da cavallo. Un momento il cui esatto svolgimento sarà raccontato da Gallina in seguito:

Il cavallo procedeva al piccolo trotto, la più pacifica delle andature. Ad un tratto vidi il capitano barcollare sulla sella e poi precipitare con la testa all’ingiù.

La testimonianza racconta, quindi, di un cavallo che stava procedendo con normale andatura. Non si è imbizzarrito e, di certo, il piccolo trotto non avrebbe mai potuto causare alcun problema di controllo a un così straordinario cavaliere, per giunta sulla neve. Ma la cosa più curiosa è quella relativa alla dinamica: Gallina vede Caprilli cadere “con la testa all’ingiù”, quindi in avanti. Eppure la causa della morte è un colpo alla nuca, improbabile per la dinamica. Senza contare che la testimonianza continua con la descrizione del destriero spaventato e rientrato di corsa alla scuderia. Cosa potrebbe averlo spaventato? O chi?

La tesi riferita e forse più credibile è quella della vendetta amorosa: un agguato di un marito geloso a un noto seduttore. È la tesi di Lucio Lami, autore di un’altra biografia su Caprilli dal titolo Le passioni del dragone. Cavalli e donne: Caprilli campione della Belle Époque. In particolare, all’epoca Caprilli era fidanzato con l’attrice Vittorina Lepanto. I due avevano un appuntamento ma Vittorina non si era presentata. Secondo alcuni opportunamente avvisata di ciò che sarebbe successo. Talune voci parlano di una sassata, altre addirittura di spari, sta di fatto che qualcuno avrebbe avuto interesse a uccidere la leggenda dell’equitazione.

Una morte avvolta nel mistero, esattamente come quella dell’amico Cacherano di Bricherasio, trovato morto in circostanze analoghe tre anni prima mentre era ospite nel castello di una coppia di amici. Due amici uniti nella vita dalle passioni terrene e nella morte dall’alone di mistero lasciato ai posteri. Se n’è andato così il padre dell’equitazione moderna, rimasto oggetto di celebrazioni per l’intero movimento, tanto che nel 2007, a cento anni dal decesso, la FISE (Federazione Italiana Sport Equestri) ha indetto l’anno caprilliano. Un finale tutto da decifrare ma degno della narrativa che ha accompagnato tutta la vita di Federico Caprilli, oscillando tra romantiche versioni ufficiali ed enigmi tramandati senza soluzione.

Targa dedicata a Federico Caprilli a Livorno nel cinquantesimo anniversario della sua morte

 


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Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.

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Manuel Fanciulli

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