Heleno de Freitas, il Principe di Rio de Janeiro

Heleno de Freitas - Puntero

“Gilda! Gilda! Gilda!”
“Você é uma vagabunda!”
“Desgraçado!”
“Infame!”

28 settembre 1947, Estádio das Laranjeiras, Rio de Janeiro. In questo gioiellino da appena 18.000 posti, inaugurato nel 1914 con la prima partita ufficiale nella storia della Nazionale brasiliana, si sta giocando uno dei derby carioca tra i più sentiti, quello tra Fluminense e Botafogo. Sugli spalti è un tripudio di vessilli verde-bianco-granata, le insegne del Flu, mentre i tifosi tricolore urlano cori e insulti rivolti al numero 9 del Botafogo, più o meno della risma di quelli sopra riportati. Quell’uomo alto, snello e abbronzato sembra tutt’altro che tranquillo: gesticola all’indirizzo di chi lo becca, urla, sbuffa e sembra completamente fuori dalla partita. Aveva segnato il gol del vantaggio con una magnifica rovesciata, ma con l’1-1 dei padroni di casa al 60’ erano arrivate la pioggia e una sensazione di stanchezza che sembrava presagire a un rovesciamento del risultato.

A questo punto accade qualcosa di inspiegabile. Il numero 9 abbassa i pantaloncini, e di fronte al pubblico sbigottito fa gesti inequivocabili: con una mano stringe i genitali, con quella libera fa il gesto del “due” indicando il tabellone del punteggio. Letteralmente un istante dopo Teixeirinha segna l’1-2, ma quel gol non lo ha segnato lui. È stato Heleno de Freitas, l’onnipotente, ormai capace di indirizzare l’andamento delle partite anche senza segnare.

 

Chi è Heleno de Freitas

Principe Maledetto, Re di Rio, Diamante Bianco, Gilda: così il popolo brasiliano, maestro come pochi altri nel coniare nomignoli calzanti e taglienti allo stesso tempo, ha accompagnato la figura di Heleno de Freitas negli anni ’40 del secolo scorso. La natura variegata e pittoresca di questi soprannomi ci consente da subito di intuire la portata di un personaggio complesso e fuori dall’ordinario, quinto degli otto figli di Oscar e Maria, proprietari di enormi piantagioni di caffè e zucchero nello stato di Minas Gerais. Il primo spartiacque biografico arriva per Heleno l’11 novembre 1932, quando il padre quarantaseienne muore improvvisamente e donna Maria decide di trasferirsi insieme ai ragazzi a Copacabana, dove risiede suo fratello avvocato.

Ci troviamo nei primi mesi del 1933, nel pieno dell’estate brasiliana: il ragazzino è folgorato dall’incontro con il mare e le spiagge di Rio de Janeiro, dove fa rapidamente amicizia e inizia a giocare a calcio con coetanei e ragazzi più grandi. Viene iscritto al Colégio São Bento, istituto cattolico d’élite che servirà per prepararlo a un futuro percorso in legge: il rendimento scolastico è molto buono ma a Heleno è chiaro fin da subito che il suo futuro sarà quello di avere sempre un pallone tra i piedi. Il garoto, a dirla tutta, è in grado di palleggiare con qualsiasi oggetto più o meno sferico a sua disposizione e, come vuole la tradizione, viene notato da Neném Prancha, mitico scopritore di talenti sulle spiagge e nelle favelas, mentre intrattiene il pubblico della spiaggia con un’arancia.

Entra subito a far parte della squadra di Prancha, la Madureira, e nel 1935 approda alle giovanili del Botafogo, che in quegli anni domina il torneo di Rio (in un’epoca in cui in Brasile si disputano solo campionati statali, con il primo torneo nazionale a girone unico che si svolgerà solo nel 1959). Alcuni problemi economici portano però il Glorioso a sciogliere il settore giovanile l’anno seguente, allorché Heleno viene ingaggiato dai rivali del Fluminense. Ha già raggiunto la sua statura definitiva di 182 centimetri e, complice un’eccellente elevazione, si cerca progressivamente di impostarlo da centromediano dietro suggerimento del grande allenatore uruguagio Ondino Viera, che medita di portarlo in breve tempo in prima squadra.

Heleno, insieme a doti calcistiche evidenti, mostra difficoltà a controllare il proprio temperamento focoso e i cartellini rossi fioccano più delle reti. Nell’ultimo anno di giovanili provano così a riportarlo in attacco, con l’idea di incanalare meglio l’irrequietezza e lo spirito ribelle del ragazzo: la mossa funziona e, sebbene i problemi caratteriali continuino a manifestarsi, Heleno segna gol a grappoli che gli fanno guadagnare l’attenzione di tutti i più titolati osservatori carioca.

Freitas vive fin da questa età le partite come se fossero una questione d’onore, giocando costantemente sul filo dei nervi e non risparmiando insulti e scorrettezze se qualcosa in campo non va come vorrebbe: l’ambiente del Flu è progressivamente esasperato da questi atteggiamenti ed è ben felice di lasciarlo andare al raggiungimento della maggiore età. Il suo vecchio compagno di giovanili João Saldanha – un altro personaggio dalla biografia decisamente interessante – gli procura un incontro col Botafogo, in un momento nel quale Heleno è corteggiato da tutte le grandi del calcio di Rio nonostante il periodo burrascoso trascorso in maglia Tricolor.

 

Da talento ribelle a Diamante Bianco

Il 1° settembre 1939, nel momento esatto in Europa sta accadendo ben altro, Heleno de Freitas diventa ufficialmente un giocatore del Botafogo ed è pronto a vestire la maglia della sua squadra del cuore nel calcio dei “grandi”. L’affetto per la causa non gli impedisce di negoziare condizioni piuttosto particolari nel suo primo contratto da professionista, tra le quali spicca un programma di lezioni private di francese e inglese, a testimoniare interessi culturali e personali che andavano ben oltre il rettangolo verde. In una fase iniziale Heleno è chiuso da Carvalho Leite, classe 1912 e a lungo miglior marcatore della storia del Fogão con i suoi 274 gol, ma il tecnico ungherese Dori Krüschner cerca progressivamente di lavorare a una coesistenza tecnico-tattica tra i due, consapevole di avere tra le mani un diamante grezzo.

Il 21 dicembre 1939 arriva la partita di Copa Sudamericana contro il San Lorenzo, occasione per l’esordio assoluto di Heleno in coppia con Leite: l’esperimento naufraga dopo soli 39 minuti, nei quali i due non fanno altro che litigare finché Krüschner, esasperato, non sostituisce il giovane. La relazione tra Heleno e Carvalho è cordiale come quella di due galli in un pollaio: le cronache raccontano addirittura di un’espulsione del vecchio bomber causata ad arte da Freitas, che viene poi multato e sospeso dalla società. A dirimere la questione ci pensa l’inesorabilità di Padre Tempo, insieme a un brutto infortunio che termina la carriera di Carvalho Leite a soli 29 anni. Nella stagione 1940-41 Heleno diventa così proprietario indiscusso della camiseta numero 9, facendo altrettanto con i cuori della torcida del Botafogo, che si gode lo spettacolo offerto da un attaccante di una qualità mai vista prima.

Freitas, a differenza di Leite e di altri grandi bomber precedenti – tra i quali è d’obbligo citare il grande Leônidas da Silva, prima stella del Brasile negli anni ’30 – non aspetta il pallone in area: se lo viene a prendere fin dentro la sua metà campo e a quel punto lo accarezza, lo cura, ci fa l’amore. Non immaginiamoci un precursore del falso nueve moderno, né un “centravanti arretrato” come sarà l’ungherese Nándor Hidegkuti qualche anno più tardi: Heleno non attacca lo spazio né fa movimenti senza palla, se non ha la sfera tra i piedi semplicemente non gioca. Quando però la riceve – o decide di andarsela a prendere, con uno dei suoi tipici contrasti aggressivi – è uno spettacolo per gli occhi.

Longilineo e atletico, incarna una perfetta sintesi di potenza ed eleganza: può esibirsi con la stessa probabilità in controlli acrobatici, doppi passi felpati, dribbling ubriacanti e poi andare a concludere a rete con tocchi morbidissimi o violenti a seconda dell’umore. Gli bastano pochissime partite per diventare l’idolo dei tifosi bianconeri, nonostante i frequenti episodi di intemperanza in campo – o forse anche grazie a quelli: Heleno si considera nettamente migliore dei calciatori che gli stanno attorno, da una parte e dall’altra, e raramente tiene per sé queste opinioni. Nella migliore delle ipotesi ingaggia guerre verbali limitandosi ai malcapitati difensori di turno, quando invece va male se la prende anche con compagni e allenatori. In un modo o nell’altro è questo carattere da primadonna, unito alle strabilianti qualità tecniche e all’aspetto aitante e curato, che lo rende un personaggio da rotocalco.

Il numero 9 del Botafogo è adorato dalle donne e ammirato dagli uomini, idolatrato dai propri tifosi e detestato da quelli avversari; sono proprio questi ultimi, in particolare gli odiati rivali del Fluminense, a ribattezzarlo beffardamente Gilda, esattamente come il personaggio interpretato da Rita Hayworth nel film omonimo del 1946, una donna splendida e scorbutica allo stesso tempo. Siamo così tornati al nostro episodio di apertura ma, nello iato che intercorre tra 1940 e 1947, abbiamo scordato di citare qualche numero, di quelli importanti.

Parliamo di 209 gol in 235 partite, tra i quali spiccano perle come quella realizzata contro il Bonsucesso nel 1946. Beccato dalle tribune e tacciato come al solito di egoismo, Heleno riceve palla sulle trequarti e avanza palleggiando verso l’area. Giunto al vertice sinistro dell’area alza un campanile e corre verso il lato opposto del fronte offensivo, dove riceve quello stesso pallone incornandolo senza pietà alle spalle del portiere avversario. Si è appena servito un assist da solo e ora esulta mimando passi di samba sotto la curva, da dove provengono grida d’amore.

Heleno possiede la capacità innata di effettuare giocate arroganti e provocatorie, come quella che abbiamo appena raccontato, con movimenti misurati ed eleganti. Poteva segnare con la stessa facilità di piede, di testa e anche di petto, esercitando un controllo del corpo da prestigiatore più che da ginnasta. Così Eduardo Galeano, nella sua magistrale opera Splendori e miserie del gioco del calcio (1997), ci racconta una sua rete nel derby del 1947 contro il Flamengo:

Heleno era girato spalle alla porta, con il pallone che spioveva dall’alto. Lo smorzò magistralmente con il petto, riuscendo a girarsi senza farlo cadere. Con il corpo incurvato e la palla incollata al petto studiava la scena, mentre tra lui e la porta si frapponeva una moltitudine. C’era più gente dentro l’area del Flamengo che in tutto il Brasile; se la palla gli fosse scivolata dal petto sarebbe stato perduto. Così Heleno avanzò verso la porta, col busto inclinato all’indietro e la palla sempre incollata al petto. Nessuno poteva portargliela via senza commettere fallo, e ormai era arrivato fino all’area piccola. A quel punto, arrivato di fronte alla porta, si raddrizzò: la palla scivolò docile sui piedi e terminò in rete.

Anche solo pensare a una giocata di questo tipo è folle, figuriamoci realizzarla. Ma non era mai venuto al mondo un diavolo come Heleno.

Heleno de Freitas - Puntero

Il “Diamante Nero” Leônidas e il “Diamante Bianco” Heleno de Freitas: una grande occasione persa per la Seleçao

 

O Principe do Rio

La leggenda di Heleno non è confinata al campo di gioco, sul quale l’attaccante mineiro dispensa ecumenicamente giocate funamboliche e atteggiamenti quantomeno pittoreschi. Heleno è follemente innamorato della vita mondana di Rio e delle sue infinite tentazioni, alle quali si abbandona con trasporto. Abbiamo già accennato all’aspirazione a una dimensione culturale internazionale, di cui sono specchio fedele non solo i corsi di lingue ma anche i tanti pomeriggi trascorsi al cinema da ragazzo. Il bomber del Fogão ama cenare in ristoranti di lusso e accompagnare i pasti con vini europei di prestigio, oltre che con la presenza al tavolo di donne bellissime.

La routine delle uscite prevede in seguito numerose tappe nei locali notturni, nei quali al vino si affiancano bevute di cachaça e consumo di varie sostanze poco lecite: fin dalla tarda adolescenza Heleno aveva iniziato a fare uso di cocaina e soprattutto di etere, la droga maggiormente in voga negli ambienti più raffinati della capitale carioca. La silhouette slanciata di Heleno è sempre sottolineata da costosi e raffinati abiti chiari, al cui occhiello spunta immancabile una pochette imbevuta appunto di etere. Questo impegnativo programma gli assorbe in genere l’intera nottata finché, al mattino dopo, Heleno non si ripresenta al campo di allenamento in maniera chiassosa, a bordo di una delle sue decappottabili o di una moto.

Sta lì più che altro per fare presenza, perché non ritiene necessario allenarsi: un po’ per la consapevolezza delle enormi doti naturali di cui dispone, un po’ perché non gli sembra necessario affaticarsi se di fronte non c’è un avversario vero. Tiene il pallone tra i piedi, passeggia e poi si siede a leggere all’ombra della panchina. Ha infatti una grande passione per la letteratura e soprattutto per Dostoevskij, che ama citare quando la mente è libera dal furore agonistico o dalla nebbia dell’etere. In Heleno coesistono molte anime, apparentemente inconciliabili tra loro: a questo punto della storia forse non è nemmeno strano sapere che, in contemporanea a una irresistibile ascesa calcistica, è riuscito a terminare con profitto gli studi in legge, esercitando saltuariamente la professione a Nitéroi prima di venire definitivamente risucchiato dalla dolce vita di Rio.

Il Diamante Bianco adora le luci della ribalta ed è perfettamente a suo agio con la popolarità e tutto ciò che comporta, in campo e fuori. Tra le altre cose si vocifera che abbia superato quota mille amanti, prima di mettere la testa a posto e sposare la splendida Ilma Miranda Corrêa Lisboa – figlia di un famoso diplomatico – il 7 luglio del 1948 a Rio. Heleno è in questo momento il personaggio dominante del calcio brasiliano, all’apice dello splendore in campo e sui rotocalchi, anche se le sue centinaia di gol non sono servite a coronare il sogno di un titolo col suo amato Botafogo. Sembra una maledizione: da quando Heleno veste la maglia albinegra la squadra è sempre finita tra le prime tre del torneo, senza però mai riuscire a trionfare.

Cominciano a serpeggiare opinioni secondo le quali il problema sia proprio il campionissimo di São João: è un personaggio ingombrante, totalizzante, che spesso oscura i compagni e che sempre più spesso è vittima di vere e proprie crisi di nervi in campo, forse amplificate dalla dipendenza dalle droghe. Dopo l’ultima del torneo carioca del 1948, che il Botafogo termina al quarto posto – peggior piazzamento dell’epoca Heleno – il 9 sbotta pesantemente contro allenatore e compagni, rei di non essere alla sua altezza. Si è ormai creata una frattura tra la squadra e il suo calciatore più rappresentativo, proprio in concomitanza di un cambio di proprietà: all’inizio dell’anno è diventato infatti presidente Carlito Rocha, compagno di scorribande e amico di Heleno, che sogna di riportare quanto prima i bianconeri alla vittoria.

Rocha sente di dover dare uno scossone all’ambiente e certamente non pensa di cedere la sua stella. Ma è proprio in questo momento che arriva una proposta importante da parte del Boca Juniors: si tratta di 70.000 pesos argentini, una cifra astronomica per l’epoca. “Non cederò Heleno nemmeno per il doppio” – così Rocha si premura di rassicurare i cronisti sulla permanenza del centravanti in rosa.

 

Rio De Janeiro-Buenos Aires andata e ritorno

Come spesso accade nella vita, però, i fatti evolvono in una maniera che mette in discussione anche le certezze più consolidate. A Buenos Aires prendono alla lettera le dichiarazioni del presidente Rocha e gli emissari del club rioplatense si ripresentano a Rio con un’offerta praticamente triplicata, che arriva a toccare quota 200.000 pesos. A questo punto la cifra è davvero irrinunciabile e arriva l’inaspettata cessione, con tanto di pesanti contestazioni da parte dei tifosi che si vedono privare del loro idolo e temono che la nuova presidenza sia il presagio di una discesa nella mediocrità. Heleno si trova di fronte a un crocevia fondamentale della sua esistenza, dovendo lasciare la squadra in cui si è affermato campione e trovandosi alle soglie della paternità: sua moglie è infatti incinta di Luis Eduardo, che nascerà nell’aprile del 1949.

Non ha chiesto di essere ceduto né vuole andar via, ma la prospettiva che ha di fronte è intrigante: trasferirsi nell’elegante capitale argentina, in quel momento una delle città più ricche del mondo, per aiutare il Boca a contrastare l’inarrestabile River Plate di quegli anni, non a caso ribattezzato La Máquina per la sua spietata efficienza. Il nostro sceglie così di partire da solo per Baires, spiegando ai cronisti rosa che questa decisione deriva dall’idea che sia meglio per Ilma non affrontare un trasferimento durante i mesi della gravidanza.

L’esordio in gialloblù arriva il 18 ottobre 1948, all’ottava giornata del Torneo di Clausura. Il Boca è partito piuttosto a rilento, con 3 vittorie e 2 sconfitte nelle prime 7 giornate, e di fronte al caldissimo pubblico di casa arriva il Banfield terzo in classifica. Heleno si presenta da star e con una doppietta assicura la vittoria ai suoi Xeneizes, che vincono 3-2 e si rilanciano in campionato. Anche fuori dal campo l’entrata in scena del brasiliano è da protagonista assoluto: gli bastano poche settimane per diventare il re delle notti di Buenos Aires, con annessa ripresa di quelle cattive abitudini che erano state solo momentaneamente sospese con il matrimonio. Si diffonde incontrollata la notizia di una relazione addirittura con Evita Perón, mentre gradualmente i comportamenti di Heleno in campo e fuori appaiono sempre meno sotto controllo.

A fine campionato ci sarà effettivamente un nuovo vincitore al posto del River, che sarà però l’Independiente di Avellaneda e non il Boca: gli Xeneizes chiuderanno mestamente all’ottavo posto, con Heleno che dopo la doppietta all’esordio segnerà solo 5 gol nelle successive 16 partite. Come nel più classico degli stereotipi, il brasiliano lontano da Rio sente la saudade e spinge per fare ritorno al Botafogo. La sua vecchia squadra si è però appena laureata campione statale, interrompendo un digiuno che durava dal 1935, e certamente non vuole rompere quegli equilibri di spogliatoio trovati proprio con la cessione del suo campione. Ad aggiudicarsi le prestazioni dell’attaccante è quindi il Vasco da Gama, fresco campione sudamericano per club, che investe 100.000 pesos per riportarlo a Rio.

L’occasione per Heleno è ghiotta, visto che il Vasco è allenato da Flávio Costa che oltre ai Cruzmaltinos allena anche la Nazionale verdeoro (a dire il vero il Brasile gioca in bianco e così farà fino al 1958, ma questa è un’altra storia). Costa è un ex mediano dal piede ruvido, un sergente di ferro che mal sopporta le individualità: ha già fatto fuori dal giro della Nazionale il grande Leônidas nel 1941 e quel centravanti talentuosissimo e iracondo è una presenza scomoda per lui. Nonostante le premesse la strana coppia funziona, così come era avvenuto fino a quel momento anche in Nazionale, dove Heleno segna 15 gol in 18 partite tra il 1944 e il 1948.

In maglia Bacalhau l’inizio è a dir poco scoppiettante, con 5 gol nelle prime 4 apparizioni. Subito dopo Heleno viene espulso nel derby contro la Fluminense e finisce un mese fuori rosa, rientrando con gol a fine settembre nel rotondo 4-1 sul São Cristóvão. Nelle successive 3 partite segna ancora 4 gol, sembrando perfettamente tirato a lucido in vista del Mondiale che il Brasile ospiterà l’anno seguente.

In realtà questo è il canto del cigno della sua carriera al Vasco: da lì a fine anno non segnerà più e, sebbene il Vasco trionfi in campionato da imbattuto con ben 84 gol segnati in 20 giornate, il contributo di Heleno alla causa è progressivamente in calo. Ademir ha preso il suo posto al centro dell’attacco, le esplosioni di rabbia in allenamento e in partita sono sempre più frequenti, il fisico inizia a mostrare segni di sovrappeso mentre a casa il matrimonio con Ilma è duramente provato dalle continue scappatelle del Principe. L’unico campionato vinto da Heleno in carriera, che accompagna in bacheca due competizioni minori conquistate col Brasile, finisce per essere una vittoria dal sapore triste e malinconico, preludio del declino tecnico e umano che caratterizzerà gli anni seguenti.

 

La Liga Pirata, Barranquilla, Gabo: un uomo in fuga

Nei primi giorni del 1950 arriva un’altra chiamata internazionale, quella dell’Atlético Junior di Barranquilla. In Colombia la cosiddetta Liga Pirata sta radunando una quantità di talento insospettabile: trattandosi di un campionato non riconosciuto dalla FIFA le società negoziano direttamente con i giocatori e li ingaggiano, senza riconoscere somme alle squadre di provenienza, che formalmente continuano a detenere il loro cartellino e possono al massimo sospendere gli stipendi. Il rompicapo regolamentare non conosce soluzione per un paio d’anni e accade così che i Millionarios (nomen omen) di Bogotá possano ricoprire di pesetas stelle del calibro di Adolfo Pedernera, Julio Cozzi, Néstor Rossi e Alfredo Di Stéfano, strappandoli al River Plate. Altre squadre si buttano sui talenti uruguagi, mentre l’Atletico Juniors di Barranquilla decide di giocare le sue fiches sul tavolo brasiliano ingaggiando Tim e appunto Heleno.

Tim è un ex grande craque del calcio brasiliano di qualche anno prima, che vive la fase finale della sua carriera quando viene chiamato a fare l’allenatore-giocatore nell’AJ. Tim vuole con sé un attaccante del suo calibro, pensando di poter appendere le scarpette al chiodo una volta per tutte, ed è così che contatta direttamente Heleno proponendogli di raggiungerlo. Un bonus di 15.000 dollari alla firma, oltre 2.000 al mese di stipendio e altri incentivi legati ai risultati, sono sufficienti per convincere il genio mineiro. Il Mondiale è alle porte ma Heleno non ha fiducia di poter essere tra i convocati di Costa: la popolarità asfissiante di cui gode sempre a Rio e i problemi familiari lo convincono che una nuova esperienza estera sia la soluzione giusta per il suo tormento interiore.

Heleno sale sull’aereo per Barranquilla con l’idea di trovare un po’ di pace ma è doppiamente sorpreso: le spiagge e le donne sono bellissime anche laggiù, mentre un’altra città si innamora morbosamente di lui non appena scende in campo. I tifosi locali stravedono per il suo talento e per il temperamento acceso che lo accompagna: la spavalderia e l’irriverenza verso tutti, arbitri, compagni di squadra e avversari, sono il tocco di pazzia che rende ogni match un evento irripetibile. In Colombia la parabola discendente di Heleno incrocia, con un percorso asimmetrico, quella di un artista pronto a rivelarsi al mondo. Si tratta di un giovanissimo Gabriel García Márquez, anche lui arrivato da poco a Barranquilla per lavorare come cronista presso il quotidiano locale El Heraldo.

Gabo nel tempo libero ha già cominciato a scrivere racconti ma in questa fase si guadagna da vivere lavorando come giornalista sportivo. Fino a quel momento è stato decisamente tiepido nei confronti del calcio – la sua grande passione sportiva è e sarà rivolta al baseball – ma vedere giocare dal vivo Heleno lo porta a cambiare radicalmente le sue vedute. La sfida che innesca questa passione è il match di andata tra Atlético Junior e Millionarios. Curioso di vedere da vicino quel personaggio che fa ammattire i colombiani, nonché eccitato per l’aspettativa data dal grande duello, lo scrittore si presenta allo stadio con ben quattro ore di anticipo sul calcio d’inizio.

Consapevole del fatto che il tasso tecnico degli avversari sia nettamente superiore, Heleno quel giorno scende in campo deciso a giocare da solo. La sua debordante individualità, altre volte fonte di rovine personali, durante quell’assolato pomeriggio del 14 giugno 1950 si rivela un’arma decisiva per decidere la sfida con un gol meraviglioso. Márquez pubblica il giorno seguente El juramento, un articolo pieno di entusiasmo per il calcio e per quel personaggio così eccentrico, accostato nel testo a uno straordinario scrittore di romanzi gialli per la teatralità dei colpi di scena che è in grado offrire in campo.

L’amore di Barranquilla per Heleno è così folle che gli venne addirittura intitolata una statua, ribattezzata popolarmente El Jugador e ancora visibile percorrendo le vie del centro cittadino. Un amore non ricambiato però dal brasiliano, che si sente un uomo perennemente in fuga da se stesso e che deve fare i conti con una nuova oscura presenza nella sua vita. È qui infatti che gli venne diagnosticata la sifilide, che Heleno rifiuta nella maniera più assoluta di curare pur non facendone mistero con i suoi amici. Gli interessa solo fare ritorno nella sua Rio a fine stagione, nel tentativo disperato di rimettere insieme un matrimonio ormai in pezzi.

 

Di Maracanazo, pistole e decadenza

Siamo così arrivati a settembre del 1950 e il Maracanazo, vera e propria tragedia sportiva andata in scena un mese e mezzo prima – solo dentro lo stadio, tra malori e suicidi, si contano 12 vittime – è ovviamente ancora freschissimo nei cuori dei brasiliani. In patria hanno fatto molto rumore le dichiarazioni di Heleno, raggiunto a Barranquilla da un cronista di O Globo nelle settimane seguenti al fallimento della finale mondiale. Il grande escluso della manifestazione si era allora lasciato andare a dichiarazioni pesantissime nei confronti dell’allenatore:

Se fossi stato titolare in attacco il Brasile non avrebbe mai perso il Mondiale. Conosco i trucchi degli uruguagi, di gente come Obdulio Varela. Non avrebbe fatto la metà di quello che ha fatto in campo, se avesse dovuto vedersela con me. Abbiamo perso i Mondiali per l’incapacità di un allenatore che ha trasformato la nostra squadra in un gruppo di deboli incapaci di reagire. Un gruppo di femminucce senza palle.

Tanta gente in Brasile pensa che Heleno avrebbe potuto fare la differenza durante la manifestazione ma certo nessuno poteva immaginare che si sarebbe esposto in maniera così brutale. Flávio Costa, che se l’è decisamente legata al dito, approfitta dell’occasione di rivedere Freitas al campo di allenamento del Vasco per sbottare nei suoi confronti, cacciandolo senza nemmeno permettergli di cambiarsi. Heleno, che oltre agli scatti d’ira possiede, come sappiamo, un senso dell’onore ipertrofico, pensa bene di fare ritorno venti minuti dopo armato di calibro 9. Senza troppi giri di parole il centravanti punta l’arma alla tempia sinistra di Costa e preme il grilletto ma fortunatamente non parte nessun colpo: il caricatore è vuoto. Heleno sbeffeggia Costa per la sua espressione comprensibilmente terrorizzata ma, passato lo spavento, parte la rissa, con Heleno che ha nettamente la peggio e deve lasciare in ambulanza il centro di allenamento.

Non rimane che accettare una nuova proposta dell’Atlético Junior e tornare in Colombia, dove il secondo campionato in biancorosso è molto meno sfavillante del primo. Heleno si presenta visibilmente sovrappeso ed è ormai totalmente incapace di contenere i suoi vizi, arrivando a sniffare etere anche dopo gli allenamenti e restando lì in stato confusionale fino alla mattina dopo, riportato poi a casa da magazzinieri pietosi. Anche García Márquez è profondamente deluso dalla caduta del personaggio, che descrive così nella cronaca della sconfitta interna 2-4 contro il Deportivo Once dell’8 aprile 1951:

Quello che sarebbe sceso in campo quel pomeriggio non era l’Heleno di due anni prima […] Grazie alla sua presenza, però, ogni tifoso va allo stadio come se avesse in tasca un biglietto della lotteria. Perché con Heleno non esistono mezzi termini, o almeno, non è questo ciò che il pubblico vuole da lui. Si comporta come un ciarlatano e il pubblico sa bene di avere comprato un biglietto perdente, che però dà diritto a fischiare.

Il contratto del brasiliano con il Juniors prosegue sino al 26 agosto quando, in preda alla pazzia, Heleno abbandona il campo nel primo tempo di una partita importantissima contro il Deportes Caldas. I tifosi si infuriano al punto che il giocatore è costretto a fuggire dallo stadio correndo, con la divisa ufficiale ancora addosso. È la sua ultima apparizione in Colombia, dove il culto per il personaggio vive ancora oggi.

 

Una triste marcia finale

Tornato precipitosamente in patria, Heleno trova per alcuni giorni riparo nella villa di Petrópolis, dove si rinchiude in compagnia di Ilma e del bambino, senza un contratto e con l’idea di mollare il calcio per sempre. Da San Paolo però arriva una possibilità: il patron del Santos, Athiê Jorge Coury – presidente dal 1945 al 1971 e fautore dell’epoca d’oro del Peixe – lo chiama per offrirgli una settimana di prova, che comincia il 30 settembre del 1951. Fin da subito lo staff capisce di trovarsi di fronte a un essere umano che a soli 31 anni è la pallida ombra di se stesso, salvo che per quegli accessi di collera che lo hanno reso famoso.

Lo rispediscono a casa senza ingaggiarlo ed è così che a fine ottobre il Diamante Bianco firma per l’América-RJ, squadra di Rio a cui nel 1946 aveva segnato quattro gol in un solo tempo di gioco. Dichiara fin da subito di voler portare i primi titoli al piccolo club, con cui debutta il 4 novembre 1951 contro il São Cristóvão. Si gioca addirittura al Maracanã, con molti degli allora duecentomila posti chiaramente vuoti vista la caratura delle due squadre. Per Heleno è la prima assoluta nello stadio che sognava di calcare da protagonista poco più di dodici mesi prima: naturale la voglia di ben figurare e di riscattarsi, a dispetto di chi gli scommette facilmente contro. Lo spettacolo è però spiazzante perfino per i suoi detrattori: fatica letteralmente a stare in equilibrio, fallendo miseramente anche nel più elementare dei controlli.

In questo stato di preoccupante confusione fisica e mentale viene deriso dal pubblico, montando una frustrazione che sfocia ancora una volta in pesanti insulti ai compagni. L’arbitro lo espelle dopo 25 minuti ed è così che si chiudono la partita e la carriera di Heleno.

In famiglia sono preoccupati per lui: il fratello Oscar capisce che la malattia sta degenerando e lo costringe a sottoporsi a visite specialistiche, che certificano la necessità di cure a cui l’ormai ex campione si sottrae o fa al massimo finta di seguire. Heleno è preda di una paranoia ormai insopprimibile, probabile riflesso di una patologia arrivata al suo stadio terziario: in assenza di tifosi, compagni e allenatori, il bersaglio preferito delle sue invettive è la moglie Ilma, che resiste ancora qualche mese prima di abbandonare definitivamente le speranze e lasciare la casa di Pétropolis nel settembre del 1952, portandosi dietro Luis Eduardo che non avrà più notizie di suo padre fino al giorno della morte.

Heleno ha perso soldi, fama e rispetto: gli restano solo le amorevoli cure di Oscar, che decide di riportarlo nella casa natale di São João Népomuceno fino al 1954, quando si rende necessario ricoverarlo a Barbacena in una casa di cura tristemente simile a un manicomio. Tenta di scappare più volte e i comportamenti aggressivi si tramutano pian piano in attacchi di demenza, dalle quattro sigarette fumate contemporaneamente alle ripetute colazioni a base di ritagli di giornale. Nel 1958 Heleno è ormai semi-paralizzato ed è così che malinconicamente assiste al primo trionfo mondiale del Brasile, trascinato da quel Garrincha che lo ha sostituito nel cuore dei tifosi del Botafogo. In quell’occasione si rivela al mondo la classe smisurata di un ragazzino non ancora diciottenne, un certo Edson Arantes do Nascimento detto Pelé, di cui si parlerà parecchio da lì in avanti.

I contemporanei sostengono che Heleno sia diventato calciatore non solo o non tanto perché con la palla poteva fare qualsiasi cosa ma soprattutto perché il suo ego bramava il fruscio della rete e il rombo del suo nome scandito da folle adoranti. Forse il suo ultimo barlume di lucidità gli serve per realizzare che altri eroi hanno ormai preso il suo posto nell’immaginario collettivo: non c’è più nessuna ragione per restare attaccato alla vita, che si interrompe l’8 novembre 1959. Heleno muore a nemmeno quarant’anni e nemmeno quaranta chili, nessun dente e ben pochi capelli, praticamente cieco. Sul letto di morte sembra avere forse il doppio dei suoi anni, così lontano dall’immagine dell’uomo bellissimo che aveva Rio ai suoi piedi.

Forse per una sorta di involontaria damnatio memoriae non si sono conservati filmati che lo ritraggano in azione ma, grazie a un enorme lavoro di ricerca avviato principalmente da Luis Eduardo, sono arrivate ai giorni nostri numerose immagini e testimonianze. Sono soprattutto cronache di gesta sportive e racconti di vita, che oscillano entrambi tra l’improbabile e il paranormale, a rispolverare i contorni di un mito perso nelle pieghe del tempo e riportato all’attualità, almeno in Brasile, da un libro biografico e un film usciti entrambi nel 2012. Grazie a queste opere oggi siamo in grado di ricostruire la figura di Heleno per quella che è stata: un personaggio che è allo stesso tempo un eroe e un cattivo, nemesi e conforto di sé stesso, la prima rockstar del pallone.

È ancora la penna di Eduardo Galeano a proporci il più appropriato degli epitaffi, intenso e malinconico come l’uomo di cui racconta:

Heleno de Freitas aveva lo spirito di uno zingaro, la faccia di Rodolfo Valentino e il temperamento di un cane rabbioso.
Sui campi da gioco poteva risplendere come nessun altro.
Una notte perse tutti i suoi soldi al casino.
Un’altra notte, chissà dove, perse la voglia di vivere.
E nella sua ultima notte morì così, delirante, in un ospizio.

Uno dei pochissimi filmati di Heleno de Freitas sopravvissuti al tempo. Il Diamante Bianco a segno con la casacca della Nazionale

 


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Di Roberto Murgia

Volevo essere un artista, sono finito a fare il direttore del personale in azienda. Vivo in città e sogno il mare, mi consolo esportando sardità sul Continente. Sanguino nerazzurro ma conosco molte altre pratiche sportive autolesionistiche.