Parigi 1924: le Olimpiadi del calcio, di Tarzan e di Momenti di gloria

Con i Giochi del 1920, il movimento olimpico si risollevò dalle macerie lasciate della Grande Guerra, ma le cicatrici rimasero ben evidenti. In seguito all’esclusione delle ex Potenze Centrali (Germania, Austria e Turchia) e del nuovo regime sovietico in Russia, alcuni addetti ai lavori accusarono il CIO di essere troppo in balia della politica e fortemente influenzato dalla neonata Società delle Nazioni (l’antenata dell’ONU). Inoltre le sorti della creatura di De Coubertin erano offuscate dalla grave crisi economica globale e da rivalità nazionali sempre più aspre. Divenne dunque necessario ritrovare il glamour perduto. Una sede grandiosa, gare coinvolgenti e tante nazioni partecipanti avrebbero sicuramente permesso di ottenere nuovamente il prestigio internazionale di cui i Giochi avevano goduto prima della guerra. Ed è proprio con questi presupposti che cominciò l’epopea di Parigi 1924.

Il Barone, dall’alto dei suoi 61 anni, era stanco e provato da un progetto che pur reggendosi ormai in piedi da solo, aveva richiesto tempo ed energie per far sì che diventasse di livello mondiale. Sentiva che era arrivato il momento di farsi da parte e lasciare le redini a forze fresche. L’addio però doveva avvenire a modo suo. Il saluto finale non poteva essere un gesto sotto tono: le celebrazioni dovevano essere gigantesche e trionfali. E quale miglior cornice se non quella della sua terra natale, l’amata Parigi?

Ma come Parigi? Con tutte le città, europee e non, desiderose di ospitare l’evento, una sede scelta appena 24 anni prima? Per garantire i Giochi alla Ville Lumière, il Barone studiò astutamente il programma olimpico per il decennio successivo. Promise i Giochi del 1928 alla neutrale Amsterdam, nel 1932 invece sarebbero andati agli americani – avanti anni luce per infrastrutture e gestione degli eventi sportivi – e nel 1936 a Berlino, a parziale risarcimento delle esclusioni all’epoca ancora in corso.

La maggior parte dei delegati accettò la proposta salomonica di De Coubertin che vide realizzato il suo ultimo desiderio, rendere Parigi la prima città a ospitare due volte i Giochi e chiudere la sua esperienza olimpica al punto più alto. Insomma tutti felici e contenti. Beh, non proprio tutti. La delegazione italiana, dopo il ritiro forzato del 1908, non aveva rinunciato all’idea di una rassegna romana, tuttavia fu snobbata uscendone clamorosamente sconfitta. Toccherà aspettare fino al 1960.

 

L’organizzazione di Parigi 1924

Le Olimpiadi di Parigi 1924, dovevano essere l’edizione della definitiva rinascita, tuttavia partirono decisamente con il piede sbagliato. L’economia francese era infatti in profonda recessione perché eccessivamente legata ai pagamenti tedeschi a risarcimento dei disastri bellici. Contributi che arricchivano le casse transalpine tutt’altro che frequentemente, cosa che portò all’invasione della valle industriale della Ruhr. Scongiurato il pericolo di una nuova guerra, la capitale dovette fronteggiare nell’inverno del 1923 una grande alluvione con la Senna che danneggiò diverse parti della città. Una serie di situazioni a catena, insomma, che misero a dura prova i Giochi di Parigi 1924 e che suggerirono a De Coubertin di prendere segretamente accordi con gli americani per un eventuale cambio di sede repentino.

Malgrado una situazione europea così delicata, il Barone riuscì ugualmente a far quadrare i conti, ottenendo un finanziamento dal governo di circa 20 milioni di franchi. Trovata la liquidità, era fondamentale capire in che modo investire al meglio. Il problema principale riguardava lo stadio. Lo Stade Pershing di Vincennes, costruito dagli Stati Uniti appena cinque anni prima per i Giochi Interalleati, sarebbe risultato infatti una scelta infelice sia per posizione (troppo lontano dal centro nevralgico della città) sia per i pesanti lavori di ristrutturazione necessari a rendere il complesso almeno accettabile. Meglio cercare altrove.

La scelta ricadde su Colombes, già sede del Racing Club de France di calcio. Dopo i lavori di ammodernamento, il nuovo stadio poteva ospitare 20.000 spettatori seduti ai quali aggiungere 40.000 posti in piedi. Il complesso venne poi ampliato con impianti all’avanguardia per nuoto e tennis e dispositivi di misurazione direttamente gestiti dal Congresso Francese di Cronometraggio. Ovviamente la strada di accesso allo stadio fu denominata Boulevard Pierre de Coubertin.

Sistemata la delicata questione stadio, l’edizione di Parigi 1924 si preparò a dare il benvenuto alle nazioni, o almeno a quelle a cui il CIO diede il via libera. I funzionari olimpici, malgrado le rimostranze di De Coubertin, reiterarono il divieto per Unione Sovietica e Germania. Al contrario gli alleati tedeschi nella Grande Guerra, gli imperi austro-ungarico e ottomano, furono autorizzati a competere sotto le loro nuove identità nazionali: Austria, Bulgaria, Ungheria e Turchia.

Finalmente con l’edizione di Parigi, arrivano le prime immagini dei Giochi: malgrado il muto e la definizione ben lontana dall’HD, il fascino di questi fotogrammi è incredibile.

 

Le gare principali iniziarono a luglio con oltre 3.000 atleti (2.956 uomini e 136 donne) provenienti da 44 comitati riuniti per competere nei Giochi dell’VIII Olimpiade. Come al solito però, storia a parte la fecero gli americani. La squadra statunitense rifiutò gli alloggi messi a disposizione, ritenuti inadatti ad atleti di tale caratura, e preferì sistemazioni private in località alternative. Per tenere sotto controllo i propri campioni, i funzionari olimpici americani, sull’onda del proibizionismo dilagante in quegli anni, chiesero ai francesi che venissero chiusi tutti i pub, i bar e qualsiasi altra fonte di distrazione in città, arrivando perfino a domandare di rimuovere i cartelloni pubblicitari nelle zone frequentate da sportivi a stelle e strisce. Una richiesta che probabilmente sarebbe stata accettata da altri comitati organizzatori, ma di certo non da quello francese. Un secco no senza troppe cerimonie.

 

Vecchie leggende e nuove conoscenze

Tra le leggende viventi conosciute nelle edizioni passate non si può non parlare nuovamente di Paavo Nurmi, che tornò a Parigi 1924 ancora più forte di quattro anni prima. Se ad Anversa fallì nei 5000m piani, in questa rassegna dei Giochi il “finlandese volante” fece percorso netto. Cinque ori in ciascuna delle gare per le quali ottenne la qualificazione. Un autentico dominio tecnico e mentale, sempre con il suo fidato cronometro in mano, che vide il momento più alto nelle due finali dei 1500 metri e dei 5000 metri.

Nurmi vinse la prima prova senza nessun rivale capace di insidiarne il primato, nella seconda invece ottenne il gradino più altro del podio staccando il connazionale Ville Ritola di appena due decimi. Insomma, nulla di straordinario per uno dei mezzofondisti più forti di sempre. C’è un piccolo dettaglio però che rende la storia vera leggenda. Le due finali si corsero a distanza di 40 minuti l’una dall’altra.

Dopo Parigi 1924, Nurmi divenne una vera e propria superstar e tutte le più grandi rassegne di atletica cominciarono a contendersi la sua presenza. Attratto da contratti con cifre da capogiro, si trasferì negli Stati Uniti dove si esibì in 55 gare in soli cinque mesi, strappando ingaggi che gli garantirono di sistemare ben più di una generazione. Nurmi tornerà e dominerà anche ad Amsterdam quattro anni dopo, chiudendo la carriera con un solo rimpianto: non essere riuscito a vincere la maratona olimpica. Nei suoi piani l’idea era di competere nella distanza più lunga ai Giochi Los Angeles 1932 e ritirarsi a 35 anni, ma i guadagni ottenuti negli anni precedenti violavano le norme sul dilettantismo ancora presenti e ne sancirono la squalifica da quella edizione.

Se Nurmi era un campione già affermato, le donne cominciarono solo con Parigi 1924 a ritagliarsi definitivamente un posto nella narrativa olimpica. Nelle edizioni precedenti erano state relativamente poche le figure femminili balzate agli onori della cronaca. Con l’ottava edizioni dei Giochi, invece, si posero definitivamente le basi per rendere la presenza delle donne ufficiale a tutti gli effetti a partire dalla rassegna successiva. In particolare furono tre ragazze a brillare a Parigi.

La prima è una tennista, Hellen Wills. La californiana si distinse per le sue straordinarie abilità vincendo la medaglia d’oro nel singolare femminile, consolidando la sua reputazione come una delle migliori giocatrici dell’epoca. Il suo stile di gioco potente ma al tempo stesso elegante e la sua determinazione la resero un’icona nel mondo dello sport. A Parigi, Hellen non solo dimostrò la sua superiorità in campo, ma contribuì anche a promuovere il tennis femminile a livello internazionale, diventando una vera e propria regina. Per la prima volta nella storia dei Giochi un atleta – indipendentemente dal fatto che fosse uomo o donna – venne spinto per scopi commerciali. Wills era affascinante e giocava divinamente, una combinazione che la rese un personaggio di copertina, il grande nome con cui attirare il pubblico.

Le altre due figure di culto arrivarono dal nuoto. Gertrude Ederle si accontentò di due bronzi individuali e di un oro a squadre, ma sarebbe passata alla storia due anni dopo per essere diventata la prima donna ad attraversare il canale della Manica in solitaria. Distanza coperta in 14 ore e 34 minuti, due ore in meno del precedente primato appartenuto a un argentino. A proposito di record, Sybil Bauer segnò il miglior tempo del mondo nei 400 metri dorso, con un piccolo particolare: fu record sia per le donne che per gli uomini.

 

Cinema olimpico

L’atletica fu dominata da finlandesi e americani, tuttavia a Parigi 1924 ci fu un posticino anche per i britannici. La storia non è banale, avendo ispirato uno dei film sportivi più conosciuti e apprezzati, Momenti di Gloria di Hugh Hudson. La vicenda, ovviamente romanzata e funzionale per Hollywood, è strutturata proprio attorno al racconto di due atleti di questa edizione. Il primo, Harold Abrahams, un ricco figlio di commercianti ebrei studente di Cambridge, il secondo Eric Liddell, un ragazzo presbiteriano nato da una famiglia di missionari scozzesi stanziati in Cina.

Liddell era grande favorito per i 100 metri ma, quando scoprì che le batterie preliminari si sarebbero svolte di domenica, giorno da dedicare rigorosamente al riposo, decise di ritirarsi dalla gara, mettendo la sua fede davanti alle opportunità sportive. D’altronde non è la prima volta che vediamo sacrificate alle Olimpiadi velleità di vittoria in favore di una profonda religiosità. Si concentrò così nei 400 metri, vinti scaricando tutta la rabbia per l’occasione mancata e siglando il nuovo record del mondo. Lo stesso giorno della vittoria di Liddell, Abrahams corse la finale dei 100 metri. Con una partenza fulminea e una corsa impeccabile, vinse la medaglia d’oro con un tempo di 10,6 secondi, diventando il primo europeo a conquistare il titolo olimpico nella specialità.

Anche Johnny Weissmüller scrisse il suo nome in maniera indelebile negli almanacchi di questa Olimpiade. La storia di Weissmüller già di per sé meriterebbe pagine e pagine di racconti. Ci limitiamo al fatto che il ragazzo, nato in Transilvania da madre ungherese e padre tedesco, nuotò per i colori degli Stati Uniti grazie alla falsa testimonianza dei genitori. Immigrati in America in cerca di lavoro come molti compaesani, al momento della richiesta di cittadinanza dichiarano il figlio nato a Windber in Pennsylvania, facilitando parecchio l’avanzamento delle pratiche.

Johnny imparò a nuotare nelle gelide acque del lago Michigan, ma al primo approcciò con una piscina sembrò un pesce fuor d’acqua: brutto, scoordinato e poco efficace. Tuttavia il fisico possente ne faceva intravedere il potenziale talento. Con la guida del coach Bill Bachrach, Weissmüller perfezionò lo stile crawl cominciando a polverizzare qualsiasi record con un metodo di allenamento particolare. Costretto a tenere lo sguardo fisso su un cappello posto a bordo piscina, Johnny migliorò nettamente la sua postura in acqua, rimanendo alto ed estremamente idrodinamico. A soli 18 anni diventò il primo uomo della storia a scendere sotto il minuto nei 100 metri.

A Parigi 1924 arrivò da vera superstar, attesissimo da tutti, specialmente dal pubblico femminile e non deluse le attese. Oro individuale nei 100 e nei 400, oro a squadre nella 4×200. Weissmüller è stato un grandissimo atleta come altri già incontrati nella storia olimpica. Ciò che rende questo ragazzo così unico rispetto agli altri è la sua carriera oltre le piscine.

Johnny infatti, non seppe resistere al richiamo del cinema: d’altronde, con quel fisico e quel fascino capace di stordire chiunque, era diventato il sogno proibito di tutti i produttori di Hollywood. Iniziò facendo il modello per alcune pubblicità di costumi da bagno, per vedere poi la sua carriera decollare definitivamente quando a inizio anni ’30 firmò un contratto con la MGM per il ruolo di Tarzan. Da lì fino al 1948 saranno 12 i film girati nei panni dell’uomo-scimmia, incassando circa due milioni di dollari.

 

La grande ascesa del calcio

Nelle edizioni passate, nuoto e atletica aveva giocato indubbiamente il ruolo delle discipline di riferimento. Da questo punto di vista Parigi 1924 non fu da meno, anche se era evidente che gli equilibri nel mondo dello sport stavano cambiando. Il calcio stava acquistando sempre più potere, appassionando milioni di persone e i Giochi erano ormai la vetrina in cui si esibivano tutte le grandi squadre. È il motivo per il quale gli uruguaiani considerano il torneo olimpico del 1924 il primo vero campionato del mondo.

La Celeste arrivò in Europa lasciando tutti a bocca aperta: in particolare ad attirare l’attenzione fu Josè Andrade, la “perla nera” prima ancora di Pelè. I tifosi del Vecchio Continente non si capacitavano di come fosse possibile che una Nazionale potesse giocare così bene a calcio e che un nero fosse così ben integrato nel sistema. Inizialmente però nessuno conosceva i loro giocatori o il loro modo di interpretare il calcio. A inizio torneo erano la grande incognita.

Parigi 1924- Puntero

 

Gli uruguaiani erano furbi. Immaginando che gli jugoslavi, i primi avversari in programma, avrebbero inviato delle spie per trarre informazioni dal loro allenamento, organizzarono una seduta a dir poco pittoresca. Rovesciate da metà campo, tiri completamente sballati e posizioni in campo senza senso. Insomma fecero capire di aver poco a che fare con il calcio. Gli osservatori slavi ritornarono alla base riferendo quanto visto, assicurando che la prima partita sarebbe stata una formalità: potevano bastare anche le riserve.

Il risultato finale fu un roboante 7-0 per la Celeste che si rivelò al mondo per la prima volta. Da lì una cavalcata trionfale, fino al netto 3-0 impartito alla Svizzera in finale. Una vittoria tutt’altro che banale, un successo che diede la spinta definitiva alla nazione uruguaiana. Per riprendere le parole di Eduardo Galeano, uno degli scrittori più famosi del País Charrúa:

La camiseta celeste fu la prova dell’esistenza di una vera e propria nazione: l’Uruguay non fu un errore.

 

Se l’Uruguay brillò e si impose come punto di riferimento nel panorama calcistico internazionale, lo stesso non si può dire degli Azzurri. L’Italia sbagliò tutto in quella edizione, a cominciare dalla logistica. Il mitico CT dell’epoca Vittorio Pozzo fece un enorme errore di valutazione, scegliendo l’albergo in zona Pigalle, quartiere parigino tutt’altro che tranquillo. I giocatori ovviamente fremevano per uscire e godere della movida locale, ma a raffreddare i bollenti spiriti c’erano due bodyguard inglesi decisamente poco amichevoli portati insieme alla spedizione dal Vecchio Maestro.

La Nazionale fece una pessima figura, eliminata ai quarti 2-1 dalla Svizzera (corsi e ricorsi storici). Mentre i giocatori elvetici si lasciarono andare ai naturali festeggiamenti per il passaggio del turno, il loro capitano si accorse della vicinanza con lo spogliatoio italiano. Per rispetto nei confronti degli sconfitti, impose ai suoi compagni di squadra di sospendere le celebrazioni, una dinamica ben lontana dalla nostra idea di calcio e sport in generale.

L’aneddoto più particolare legato alla spedizione azzurra, però, viene direttamente dagli ottavi di finale, nella partita contro il Lussemburgo. Protagonisti del fatto furono Virgilio Levratto, detto lo Sfondareti, ala del Vado dal sinistro fulminante, e il portiere lussemburghese Etienne Bausch. Levratto aveva la dinamite nel mancino e alcuni testimoni narravano di come fosse in grado addirittura di bucare le reti delle porte con i suoi tiri.

Alla prima conclusione della partita, la palla scagliata da Levratto non finì in porta, bensì si stampò contro il volto del malcapitato Bausch che stramazzò a terra ferendosi alla lingua rimasta chiusa tra i denti. Considerando i palloni di allora, delle autentiche pietre che non cambiavano traiettoria di neanche un millimetro (altro che effetto Magnus), l’impatto non fu certo dei più piacevoli. All’epoca non erano previste le sostituzioni, perciò lo staff medico lussemburghese si adoperò in fretta e furia per rimettere in piedi il portiere che riprese posto in area di rigore qualche minuto dopo, ancora sanguinante e frastornato dalla botta.

Riacquistati parzialmente i sensi, per un ironico gioco del destino, solo qualche azione dopo, Bausch si ritrovò di nuovo a tu per tu con Levratto. E qui comincia la leggenda. Come colpito da un flashback di guerra, il portiere vedendo di fronte la sua nuova nemesi, corse fuori dal campo urlando spiritato e spaventato. Levratto, con la porta ormai spalancata, cominciò a ridere sguaiatamente, inciampando sul pallone che rotolò fuori tra le urla e gli insulti della panchina italiana.

Le Olimpiadi di Parigi 1924 furono grandiose, con un’ampia rosa di squadre nazionali e prestazioni atletiche abbaglianti. I Giochi espansero la portata globale dello sport e alimentarono l’immaginario collettivo con una nuova generazioni di atleti più forti e vincenti che mai. Tuttavia il riacceso interesse mondiale portò anche diverse grane. Dopo Parigi, il CIO e le federazioni sportive internazionali cominciarono ad avere parecchi problemi con la definizione di atleta dilettante, visto che figure del calibro di Weissmuller e Nurmi iniziarono a trarre vantaggio dalla loro fama olimpica.

Gli sforzi per modernizzarsi e stare al passo con i tempi avevano creato uno spettacolo vasto e imponente. Le Olimpiadi erano diventate una storia da prima pagina per i giornali di tutto il mondo e le medaglie un vanto per ogni nazione come simbolo di successo e superiorità. L’edizione olandese del 1928 riuscirà a reggere una pressione così grande considerando anche l’addio imminente del Barone?

 


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Di Lorenzo Bartolucci

Elegante mitomane stregato dalla scientificità del basket. Mi diverto a sputare sentenze su The Homies e Catenaccio, bilanciando perfettamente il mugugno ligure con l'austerità sabauda.