I Giochi di Anversa 1920 sono le Olimpiadi in cui per la prima volta il nuovo ordine del mondo si rivela anche nel contesto sportivo. Stoccolma 1912 fu un successo per organizzazione e logistica. Il movimento olimpico, dopo anni tribolati, sembrava finalmente in grado di autosostenersi e poter offrire una struttura su base quadriennale. Come abbiamo visto, alla chiusura della rassegna scandinava, la promessa dell’edizione del 1916 era andata a Berlino. I tedeschi erano pronti: avevano confezionato uno stadio destinato a più discipline sulla falsariga di White City e c’era già un calendario sommario di quelle che sarebbero state le date e le gare in programma.
L’Europa però era un catino bollente pronto a esplodere. Le spinte nazionaliste e le aspre rivalità tra Stati vicini – venute a galla più o meno parzialmente anche nel corso delle varie edizioni – avevano raggiunto un punto di non ritorno. Sarebbe bastato un piccolo innesco per far crollare un castello diplomatico estremamente fragile. Il 28 giugno 1914, mentre alla Sorbona si festeggiava il ventennale della nascita del CIO con una forte ventata di ottimismo, Gavrilo Princip, un nazionalista bosniaco, assassinò a Sarajevo l’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono dell’Impero austro-ungarico. Ecco l’innesco, il casus belli della Prima Guerra Mondiale. L’escalation fu immediata: gli Asburgo dichiararono guerra e invasero la Serbia, seguiti e spalleggiati dai tedeschi che non vedevano l’ora di ottenere un pretesto per attaccare Francia e Russia, le rivali storiche fin da metà ‘800.
Con lo scacchiere geopolitico in completo subbuglio, pensare ai Giochi era semplicemente utopia. De Coubertin nei mesi iniziali di conflitto si aggrappò con tutte le proprie forze all’idea che i tedeschi potessero mollare la presa da un punto di vista militare, convinto che la prospettiva della sesta rassegna casalinga potesse ammorbidire la tensione. Mai speranza fu più vana. Anzi, la Germania alzò il tiro in agosto con la violenta invasione del Belgio rimasto neutrale fino ad allora. L’Europa era dunque spaccata in due. Qualsiasi forma di diplomazia era completamente saltata per aria e la prospettiva di un futuro complicato era ben chiara agli occhi di tutti i popoli, indipendentemente dalla bandiera.
La situazione in Europa durante (a sinistra) e dopo (a destra) il Primo Conflitto Mondiale
In tale situazione, una rassegna sportiva che avrebbe visto competere rappresentanti di Stati nemici non avrebbe avuto ragion d’essere. Ai tempi dell’antica Grecia, la ἐκεχερία – la tregua olimpica – era una tradizione sacra e inviolabile seppur non prevedesse un blocco dei conflitti in toto, bensì la salvaguardia dei Giochi stessi. All’inizio del XIX secolo le dinamiche erano di gran lunga più complicate e gli interessi in ballo troppo grandi per sperare che si affrontasse un tema non cruciale come lo sport. Anzi, la quasi totalità degli eroi delle edizioni passate fu costretta a imbracciare il fucile e indossare l’elmetto. Alcuni purtroppo caddero vittime del conflitto, come Wyndham Halswelle, il finalista solitario dei 400 metri di Londra 1908, o Jean Bouin, protagonista del testa a testa mozzafiato con Hannes Kolehmainen sui 5000 metri a Stoccolma. La Guerra cancellò tutto, sport compreso.
Respinte al mittente le timide proposte di alcune città americane, candidate come soluzione dell’ultimo minuto, il Barone annunciò sommessamente che per la prima volta dalla nascita del movimento olimpico moderno, un’edizione dei Giochi sarebbe saltata. Tuttavia non si diede per vinto: era fermamente convinto che una volta riottenuto un equilibrio globale, le Olimpiadi sarebbero state un mezzo perfetto per gettare le basi per un nuovo mondo. Il grosso problema però riguardava la sede della settima edizione. Quale Paese si sarebbe fatto carico dell’onere di un’organizzazione in tempi strettissimi, in un contesto generale depresso e di povertà estrema? D’altronde la macchina olimpica ormai esigeva degli investimenti e delle infrastrutture di un certo livello.
De Coubertin era ben consapevole della situazione drammatica in cui versava il Belgio – forse lo Stato più provato dalle brutalità della guerra – tuttavia propose al governo di Bruxelles l’organizzazione dei Giochi come forma di risarcimento e molla per rialzarsi. I belgi, inizialmente scettici nel farsi carico di un evento di tale portata, cambiarono opinione grazie al milione di franchi messo sul piatto dall’Antwerp Provisional Comittee. Il 5 aprile 1919, alla diciassettesima riunione del CIO tenutasi a Losanna, vennero annunciati ufficialmente i Giochi di Anversa 1920, appena 16 mesi prima dall’inaugurazione. Nella storia delle Olimpiadi, quella belga fu l’edizione organizzata in meno tempo.
Lo sport diventò quindi un veicolo di rinascita per permettere al mondo di risorgere dalle proprie macerie. Una leva etica ed emotiva per mettersi alle spalle le atrocità appena vissute e i milioni di morti. Un pretesto perfetto per far riavvicinare le nazioni. In quest’ottica venne introdotto il giuramento olimpico: Victor Boin, uno spadaccino, già nella squadra di pallanuoto a Londra 1908, pronunciò per la prima volta a nome di tutti gli atleti partecipanti un discorso che diventerà uno dei momenti più solenni di tutte le cerimonie di apertura future. Tra le novità introdotte comparve per la prima volta il simbolo più conosciuto del movimento olimpico, la bandiera a cinque cerchi in campo bianco, simbolo dei continenti uniti tra loro.
Sulla carta doveva quindi essere l’edizione della concordia e dell’armonia, tuttavia i Giochi di Anversa 1920 furono le prime Olimpiadi con alcuni comitati esclusi necessariamente per motivi politici. Fuori i tedeschi, gli austriaci, i turchi e gli ungheresi, considerati i principali colpevoli del conflitto. Il Barone si oppose alla decisione del CIO, ritenendo che il movimento dovesse andare oltre le dinamiche tra Stati, ma alla fine dovette cedere. La presenza di atleti tedeschi – quasi tutti con esperienza al fronte – sul martoriato suolo belga avrebbe suscitato parecchi problemi, specialmente nel rapporto con la popolazione locale. In più serviva una punizione esemplare. La Storia ci insegna, per l’ennesima volta, che la repressione e l’oppressione non sono quasi mai la forma più corretta di punizione.
Ovviamente la mancanza di denaro, tempo e infrastrutture rese il confronto con Stoccolma 1912 impietoso. Sebbene il Beerschot Stadium subì un profondo piano di ammodernamento, le condizioni erano tutt’altro che ideali per competere. La pista presentava buche e dossi che misero a dura prova i corridori, preoccupati più di non farsi male che vincere, mentre la piscina del nuoto aveva acque gelide e fangose. Discorso molto simile per le sistemazioni dei partecipanti. Non era ancora nato il concetto di villaggio olimpico, così gli atleti dovettero accontentarsi di sistemazioni di fortuna come scuole o uffici pubblici, edifici spesso senza un impianto idrico adeguato.
La delegazione che più soffrì e lamentò una sistemazione poco consona all’evento fu – ovviamente – quella americana. Gli statunitensi arrivarono in Europa già molto provati dal viaggio, costretti ad attraversare l’oceano via mare imbarcati sulla S.S. Princess Matoika, una nave da guerra. Le condizioni erano ai limiti del tollerabile: pasti scarsi e di dubbia qualità, alloggi angusti spesso condivisi con topi o altri animali. In tale contesto ecco che la delegazione scrisse una delle pagine più pittoresche dei Giochi con quello che passerà alla storia come “l’ammutinamento della Matoika“.
Presero in mano la situazione un nuotatore, Norman Ross e un lanciatore di peso, Pat McDonald agendo come portavoce degli atleti per cercare di ottenere condizioni migliori. Tuttavia da Hoboken, New Jersey, ad Anversa c’era solo tanta acqua: le possibilità di migliorare la qualità del viaggio erano prossime allo zero. Come riuscirono quindi a tirare avanti per due settimane di navigazione? Grazie all’ukulele. La presenza di alcuni nuotatori hawaiani e dei loro strumenti fu decisiva per alleviare i fastidi e il malcontento della spedizione.
Già a Stoccolma si era intuito come il movimento sportivo finlandese fosse in fortissima ascesa e ad Anversa 1920 non deluse le aspettative, con un clamoroso quarto posto assoluto nel medagliere, secondo dietro solo agli americani per quanto riguarda le discipline dell’atletica. L’atleta più in vista della delegazione finnica fu senza dubbio Paavo Nurmi, il fondista e mezzofondista più forte della sua epoca.
Personaggio schivo, duro, di pochissime parole ma con un’intelligenza applicata allo sport fuori dal comune, Nurmi fu il primo atleta della storia a interpretare l’attività fisica in maniera analitica e scientifica, ovviamente il tutto commisurato con i mezzi a disposizione. Era solito infatti gareggiare con un cronometro in mano (nessun regolamento glielo impediva) al quale univa una lettura lucida e puntuale della gara, individuando immediatamente punti di forza e debolezza degli avversari. Con il segnatempo fisico teneva costantemente sotto controllo la sua prestazione, con la testa invece quella dei rivali. Telemetria e metriche avanzate ante litteram.
Nurmi arrivò ad Anversa con l’obbiettivo di vincere tutte le gare alla sua portata, tuttavia fallì all’esordio arrivando secondo nei 5000 metri, battuto da Joseph Guillermot. La storia del francese è molto particolare e merita una deviazione. Guillermot infatti, arruolato nell’esercito come tanti suoi compagni, fu coinvolto in una delle battaglie più cruente della storia dell’umanità, combattuta a Ypres, nelle Fiandre. Uno scontro nel quale i tedeschi fecero conoscere al mondo la potenza distruttiva del gas mostarda o iprite, dal nome della città. Il futuro oro olimpico si salvò per miracolo da un autentico massacro, ma la guerra lasciò sul suo corpo una traccia indelebile, danneggiando irrimediabilmente il polmone destro e il cuore. Malgrado limitazioni fisiche molto pesanti, il soldato francese riuscì a battere uno dei corridori più forti di tutti i tempi.
Nurmi non si lasciò abbattere e vinse tutte le altre corse a cui prese parte grazie a prestazioni dominanti, chiudendo la sua Olimpiade con un bottino scintillante di tre ori e un argento. E il fido cronometro sempre in mano.
L’Italia, dopo varie edizioni tra alti e bassi, finalmente tornò a far parlare di sé, grazie a Nedo Nadi, uno dei tiratori di scherma più forti di sempre. Nato il 9 luglio 1894 a Livorno in una famiglia di schermidori, Nadi era cresciuto in un ambiente dove lo sport e soprattutto la scherma erano parte integrante della vita quotidiana, seguendo le orme dei fratelli Aldo e Nello, anch’essi atleti di successo. Nedo era un ragazzo con un carattere molto particolare, chiuso, introverso e con una forza mentale fuori dal comune, esattamente l’opposto di Aldo. Una scorza durissima, rafforzata dai severi allenamenti al quale il padre lo sottoponeva quotidianamente nella sua accademia.
Arruolato come ufficiale di cavalleria nella Grande Guerra, Nadi si distinse immediatamente per il suo carisma, ottenendo la guida della squadra di scherma in partenza per il Belgio e il ruolo di portabandiera della delegazione italiana alla cerimonia di apertura. Il livornese vinse tutte le gare a cui partecipò, laureandosi campione olimpico nel fioretto e nella sciabola individuale, con lo storico tris nelle tre discipline a squadre. Mancò la vittoria nella spada individuale, per quello che sarebbe stato un risultato leggendario e mai eguagliato. Nadi scelse infatti di non iscriversi al torneo per rispetto delle regole del padre, che non permetteva la spada nella sua sala in quando “arma priva di disciplina”.
Con un rapporto di forza simile a quello tra Zorro e il sergente Garcia, il labronico sbaragliò completamente gli avversari, perdendo un solo incontro durante tutta la rassegna olimpica. Come detto saranno cinque gli ori conquistati ad Anversa e lo stesso re Alberto, responsabile di tutte le premiazioni, si stupì della costanza delle sue vittorie, lasciandosi scappare un genuino “Ancora voi? Mi pare di avervi già visto!“. La risposta di Nadi fu un autentico manifesto del carattere dello schermidore italiano: “Col permesso di Vostra Maestà, tornerò altre volte“.
Dalla serietà e austerità di Nadi alla storia ai limiti del paradossale di Ugo Frigerio, il fanciullo d’oro dell’atletica italiana. Apprendista tipografo alla Gazzetta dello Sport, Frigerio arrivò ad Anversa 1920 non ancora diciannovenne, ma con grandi speranze di medaglia nella marcia. Il ragazzo aveva un carattere molto espansivo: capace di stringere buoni rapporti con tutti, diventò facilmente idolo del pubblico belga. Sfruttando la sua popolarità crescente, riuscì per la 3 chilometri di marcia a convincere il direttore della banda presente allo stadio a suonare una marcetta che gli desse ritmo durante la gara. Non ci fu competizione: Frigerio scavò un solco netto con il resto dei partecipanti e addirittura si concesse una sosta per precisare al maestro il ritmo giusto da tenere. Giunto all’arrivo, tagliò il traguardo gridando “Viva l’Italia”.
Anche la 10 chilometri riservò delle sorprese. Frigerio prese la gara di petto andando a una velocità impensabile per l’epoca, sempre rimanendo dentro i rigidi paletti di movimento che la marcia imponeva. Tuttavia i più attenti notarono che tenne per tutta la prova la mano sulla bocca in maniera sospetta. La sera prima infatti venne operato d’urgenza per una carie, peccato che l’intervento fu sbagliato: fu tolto un dente sano, lasciando al suo posto quello malato. Il giorno seguente tra fitte e dolori lancinanti, Frigerio volò sulla pista per abbreviare il più possibile la sofferenza, siglando il nuovo record olimpico sulla distanza.
Sono tanti i personaggi di Anversa 1920 che meritano di essere citati in quanto figure che trascendono lo sport. Uno di questi è sicuramente Philip Noel-Baker, il capitano della squadra britannica di atletica, argento sui 1500 metri. Dopo la sua carriera sportiva, Noel-Baker si dedicò alla politica e alla diplomazia e fu eletto membro del Parlamento britannico per il Partito Laburista nel 1929. Durante la sua attività politica, si distinse per il suo impegno per i diritti umani, la pace internazionale e il disarmo nucleare, diventando il primo presidente della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Sforzi coronati nel 1959 con la vittoria del premio Nobel per la pace.
Storico fu anche l’oro di Edward Eagan, studente di Yale che vinse il torneo di pugilato nella categoria dei mediomassimi. All’epoca uno dei tanti ori vinti dalla delegazione statunitense (41 in totale), la medaglia divenne unica dodici anni più tardi quando lo stesso Eagan vinse la competizione di bob a quattro ai Giochi invernali di Lake Placid. Tutt’ora, il nativo di Denver è l’unico atleta della storia a poter vantare una medaglia d’oro conquistata in entrambe le tipologie dei Giochi.
Anche gli sport di squadra cominciarono a prendere piede, riscuotendo un enorme gradimento da parte del pubblico. Le Olimpiadi di Anversa 1920 non furono un grande successo per presenze sugli spalti, con le gare scarsamente seguite. Come biasimare d’altronde i provati cittadini belgi. Unico sport a fare eccezione fu il calcio, che piano piano stava gettando le basi per diventare l’attività più amata e praticata a livello mondiale. Gli incontri furono seguiti con molta attenzione, con il picco dei 40.000 spettatori registrati per la finale tra Belgio e Cecoslovacchia. L’interesse era talmente alto che un gruppo di ragazzi, rimasti senza biglietto, provò addirittura a entrare nello stadio scavando un tunnel subito intercettato dagli attenti controllori.
La partita si giocò in un clima molto strano, con un arbitraggio palesemente schierato a favore dei padroni di casa. All’ennesimo fallo generoso fischiato dal britannico John Lewis, i cecoslovacchi decisero senza mezze misure di abbandonare il campo. Squalificati dal torneo, consegnarono l’oro al Belgio tra la folla festante.
Il calcio non fu il solo sport a registrare l’abbandono di una squadra: stessa sorte toccò alla pallanuoto, il cui torneo fu organizzato nelle gelide acque del porto di Anversa. La selezione italiana durante l’intervallo della sfida contro la Spagna si rifiutò di scendere nuovamente in campo per le condizioni eccessivamente rigide.
Anversa 1920, con tutti i problemi di organizzazione legati al poco preavviso e a un contesto geopolitico tutt’altro che sereno, fu un’edizione fondamentale per far ripartire il movimento olimpico e provare a cancellare le ombre della Grande Guerra. Tuttavia molte ferite risultavano ancora aperte, su tutte l’esclusione di alcune nazioni. De Coubertin per l’edizione del 1924 sarà costretto a fronteggiare decisioni difficili e scendere a patti con un ordine mondiale ben diverso rispetto a quello in cui erano nati i suoi Giochi.
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