Nella storia dell’umanità lo sport è sempre stato ritenuto veicolo di unione e fratellanza. In taluni casi si arriva a considerarlo come un’attività capace di superare le tensioni politiche che da sempre influenzano il mondo. Ma è veramente così? Si possono riscontrare effetti benefici a livello geopolitico grazie alle grandi manifestazioni sportive?
Tutto nasce dal mito della tregua olimpica durante i Giochi dell’antica Grecia. Fonti storiche autorevoli riportano che in realtà l’antica ἐκεχερία (da leggersi “ekecheiria”) non fosse tanto stata pensata per sancire la pace in Grecia, quanto per non turbare lo svolgimento dei Giochi.
Del resto neanche i Giochi Olimpici moderni hanno mai dato seguito all’idea decoubertiniana di creare una competizione che sostituisse, almeno momentaneamente, le guerre. Alcune edizioni dei Giochi sono state cancellate a causa dei conflitti mondiali, oppure sono divenute strumento di propaganda; alcune nazioni sono state escluse per aver invaso militarmente altri Paesi, altre hanno boicottato alcune edizioni per motivi politici, per non parlare della tragedia di Monaco 1972. Dal 1992 il CIO, in un periodo storico reso delicato dalla guerra dei Balcani, dallo scioglimento dell’Unione Sovietica e dalla fine dell’apartheid in Sudafrica, ha provato a ribadire il concetto di tregua olimpica ma di fatto durante i Giochi le guerre e le rappresaglie non si sono mai realmente fermate.
Anche il calcio non fa eccezione, tanto da essere stato addirittura l’innesco di un conflitto, in quella che ancora oggi è conosciuta come “Guerra del Fútbol”. Ma esistono anche racconti di come il calcio sia stato capace di fermare una guerra grazie ad uno dei suoi più grandi interpreti, Pelé. Verità o leggenda?
O Rei, metà uomo e metà leggenda
Raccontare chi fosse Edson Arantes do Nascimento detto Pelé è esercizio di stile quasi inutile. Non solo perché di lui si sa tutto, ma anche per il suo potere di trascendere il mondo reale e fondersi con la leggenda. Pelé è il giocatore più venerato tra quelli lontani dagli occhi: le sue gesta erano mito e narrativa che raramente divenivano un’immagine reale, se non durante i Mondiali, competizione che O Rei è stato capace di vincere per tre volte, unico nella storia.
A cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’70 il calcio non era fruibile e visibile come oggi, e un calciatore che non si era mai confrontato con il calcio europeo viveva principalmente nei racconti. Pochi lo vedevano ma tutti lo amavano, perché Pelé era il mito generazionale per eccellenza. Un valore che il “suo” Santos monetizzava organizzando periodiche tournée in giro per il globo, per concedere una chance di vedere la Perla Nera a tutti coloro che non avevano la fortuna di tifare il Peixe o la sfortuna di giocarci contro.
Varie polemiche hanno accompagnato l’aura mitologica che circonda Pelé: dai 1.281 gol riconosciuti dalla FIFA grazie anche a partite “non ufficiali”, al fatto che il miglior marcatore di sempre sia stato in realtà il connazionale Arthur Friedenreich. Fino alla più nota tra le obiezioni, quella che ne minimizza il valore per non essersi mai confrontato col calcio europeo, sebbene più per il veto del governo brasiliano che per scelta propria. Eppure, nei suoi incontri col Santos in giro per il mondo Pelé ha disputato 144 partite contro squadre europee, realizzando 131 gol. Tra queste tournée ce n’è una che, in particolare, ha contribuito a diffonderne il mito.
L’iconica esultanza ai mondiali messicani
Pelè l’africano
È il 1969, Pelé è nel pieno della sua carriera e della sua fama. Non ha neanche 29 anni ma è già sulla cresta dell’onda da oltre dieci, con due mondiali vinti e un numero spropositato di gol realizzati già dalla più tenera età. E nell’anno in cui l’umanità raggiunge l’incredibile traguardo del primo uomo sulla Luna, anche il calcio si appresta all’abbattimento di una barriera che sembrava inavvicinabile, con il campione brasiliano che il 19 novembre segnerà O Milésimo, vale a dire il gol numero mille della sua incredibile carriera.
Ma l’anno inizia con un altro momento da imprimere nei libri. Il Santos, già da anni impegnato in amichevoli in giro per il mondo, fissa una tournée in Africa. È la prima volta che O Rei sbarca nel “Continente Nero”, un appuntamento non solo storico ma anche avvolto da un alone di parziale mistero. Vuoi per le poche informazioni certe reperibili all’epoca, a maggior ragione in un luogo così poco raccontato come l’Africa degli anni ’60, fatto sta che persino nel libro “Almanaque do Santos FC”, pubblicato nel 2012 per il centenario, l’autore Guilherme Nascimento dichiara:
La stagione ufficiale inizia con il famoso e ancora misterioso tour in Africa. Un tour così ricco di storie che non esiste un confine netto tra leggenda e realtà.
Ciò che si sa per certo è che il programma prevede che il Santos disputi una sola partita in cinque diversi paesi: Algeria, Congo, Gabon, Mozambico e Nigeria. E proprio quest’ultimo paese è la pietra dello scandalo.
Pelè e compagni schierati prima del match in Nigeria
Guerra civile
La scelta di giocare in Nigeria causa non poche polemiche: dall’estate del 1967, infatti, il paese è sferzato da una violenta guerra intestina, nota come guerra del Biafra, scaturita dall’azione secessionista del popolo Igbo per ribellarsi all’isolamento economico dato dal colpo di Stato del 1966. Tale secessione ha generato la Repubblica del Biafra, con capitale Enugu, e la Repubblica del Benin. Da non confondersi con l’omonimo stato del Benin ancora oggi esistente in Africa, questa piccola porzione della Nigeria è nota per essere stata lo Stato con la più breve indipendenza di ogni epoca: un giorno. Proclamato indipendente sotto l’influenza del Biafra il 19 settembre del 1967, è stato riconquistato e nuovamente annesso alla Nigeria il 20 settembre, ossia ventiquattro ore dopo.
Proprio le azioni militari a Benin City hanno permesso alle forze militari governative nigeriane di prendere definitivamente coscienza della propria superiorità rispetto a quelle rivali, dando il via ad un atteggiamento sempre più spregiudicato, con le tribù Igbo decimate da efferate iniziative militari, finalizzate non solo alla rappresaglia ma anche alla strategica riduzione alla fame della popolazione. Circostanza che porta al genocidio delle comunità cristiane di etnia Igbo ed alla nascita della organizzazione umanitaria Medici senza frontiere per fronteggiare analoghe casistiche.
In questo quadro di grande tensione, l’opinione pubblica nigeriana contesta al governo la spesa sostenuta dal governo per organizzare una partita di calcio durante un conflitto armato. Per contro, in Brasile si contesta l’opportunità di andare a giocare in un paese in guerra, sia per ragioni di sicurezza che per motivi etici.
Milizie nigeriane durante il conflitto del 1967
Si gioca
Le polemiche non turbano le parti in causa, questo match s’ha da fare. Il governo nigeriano stanzia 11.000 sterline nigeriane per convincere il Santos, che una volta preso l’impegno non si tira indietro. Ne va del buon nome del club e del brand che sta esportando per il mondo, per di più in Brasile si sa poco del conflitto e il governo nigeriano ha dato ampie rassicurazioni. D’altronde le forze militari nemiche sono troppo deboli per penetrare nella capitale, figurarsi se oserebbero farlo quando gli occhi del mondo sono puntati sulla Nigeria: le eventuali ripercussioni sarebbero gravissime.
Sta di fatto che il 26 gennaio 1969 il Santos arriva a Lagos, all’epoca capitale del paese, per disputare il match contro una selezione del campionato nigeriano. Le tournée del Peixe sono molto serrate: la sera prima il Santos ha giocato e perso 3-2 a Kinshasa contro Les Léopards, la nazionale del Congo-Kinshasa campione africana in carica, che sarebbe divenuta Zaire e oggi è nota come Repubblica Democratica del Congo. Sbarcata a Lagos la mattina, la squadra brasiliana deve affrontare quelle che di fatto sono le Super Eagles, all’epoca ben lontane dal loro massimo splendore.
I padroni di casa, tuttavia, vendono carissima la pelle e strappano un prestigioso 2-2 con gol Muyiwa Oshode e Baba Alli, mentre per gli ospiti i due gol portano la firma, manco a dirlo, di un Pelé applauditissimo dal pubblico locale. Evento e risultato sono perfetti per fare propaganda al paese, Pelé e compagni incassano il denaro e il giorno seguente volano in Mozambico. Ma non è ancora finita.
Un raro filmato del match di Lagos
La sfida calcistica del Biafra
Riportiamo il nastro indietro di qualche giorno. In guerra ogni arma può essere importante, anche quella del consenso esterno. E se la Nigeria si appresta a ospitare Pelé e a farsi pubblicità, il Biafra non vuole restare indietro. Il 16 gennaio 1969 viene convocato a Benin City il Midwest Sports Council, federazione interna che governa gli sport nel Midwest nigeriano, zona nominalmente nigeriana ma di fatto parzialmente controllata dal Biafra.
Nell’occasione il presidente della federazione Isaac Okonjo annuncia ai consiglieri la creazione di un comitato, denominato Santos Midwest Match Committee, finalizzato a raccogliere i fondi necessari per ospitare nel nuovissimo Ogbe Stadium di Benin City una partita della tournée africana della squadra di Pelé. Il comitato raccoglie 6.000 sterline e chiede al presidente della federazione calcistica nigeriana di intercedere. Il Santos inizialmente rifiuta, quindi cambia idea ed acconsente ad un cambio di programma, prestandosi al match contro una selezione del Midwest da giocarsi il 4 febbraio.
I cancelli vengono aperti alle 10 del mattino, cinque ore e mezza prima del calcio d’inizio. La gente arriva da tutto il paese, si narra che i tifosi giungano persino dal Biafra e anche da Lagos nonostante il conflitto. Tutto pur di vedere giocare Pelé. L’evento ha un risalto eccezionale, forse addirittura eccessivo, al punto che cronaca e favola si intrecciano fino a veder sfumare i rispettivi contorni. Per la fredda cronaca, il Santos vince il match per 2-1 e Pelé, per la delusione dei locali, non trova la via del gol.
Pelè incontra Samuel Ogbemudia, governatore militare del Midwest
Pelé e il Santos fermano la guerra
Ma com’è stato possibile non solo unire un intero paese, ma nello specifico città che rappresentano due diverse fazioni nel bel mezzo di una guerra civile? La risposta è un mix tra celebrazione e agiografia: L’avvento di Pelé ha fermato il conflitto per 48 ore. O Rei è un simbolo in Africa, un “nero che ce l’ha fatta”, che ha raggiunto il successo mondiale, un punto di riferimento per il popolo. Non solo un mito dello sport ma addirittura un benefattore, sbarcato in un paese dilaniato da guerra e povertà per portare un messaggio di speranza.
Il messaggio è che, se c’è un intento comune, è possibile dire basta alla violenza ed alle armi. Che lo sport è anche speranza e sogni, e che di fronte ai sogni non esistono differenze, siamo tutti uguali come bambini che si sforzano di restare svegli la notte di Natale per poter incontrare Santa Claus. Pelé ne diventa la versione calcistica, capace col suo avvento di donare felicità ad un popolo che ne ha bisogno. Anche se solo per pochi giorni, la Nigeria vive una favola da raccontare e tramandare ai posteri.
Le Super Eagles ancora non sanno che un giorno vinceranno la Coppa d’Africa e raggiungeranno i Mondiali, in quel momento sono solo una nazione povera alle prese con i propri demoni. La venuta di Pelé pare quella di una stella cadente, fugace ma capace di far chiudere gli occhi e desiderare un mondo migliore. Una bellissima storia di unione e amore per lo sport, una delle preferite dallo stesso Pelé. Ma che contiene notevoli buchi di trama.
Il Santos, sui social, celebra l’anniversario del cessate il fuoco
Inizio della leggenda
Al netto di quanto detto sinora, la storia dello stop alle ostilità non risulta né verificata né convincente. Facciamo un balzo in avanti, all’anno 1977. La guerra si è conclusa da anni, da quando nel 1970 le truppe nigeriane hanno preso tutte le roccaforti della Repubblica del Biafra, sancendo anche la fine di questo Stato dalla vita piuttosto breve. Nel frattempo Pelé ha lasciato il calcio e scritto la sua prima biografia, chiamata My Life and the Beautiful Game. Il racconto della tournée africana contiene una serie di imprecisioni, a partire dall’anno della visita. O Rei dichiara di essersi recato con il Santos a Lagos nel 1967, ossia due anni prima dell’effettiva visita. Probabilmente una svista.
Il punto nodale è che in nessun passaggio del libro si fa mai menzione del cessate il fuoco indotto dalla presenza del campione brasiliano, una dimenticanza non da poco vista l’importanza dell’evento. D’altro canto neanche i giornali locali all’epoca dell’evento ne hanno mai parlato, né il Nigerian Daily Times di Lagos, né il Nigerian Observer di Benin City. All’epoca questa bellissima storia semplicemente non esiste, eppure esisterà in seguito. Secondo Guilherme Guarche, amministratore del Centro di Memoria e Statistica del Santos, questa leggenda nasce con un articolo della rivista brasiliana Placar, risalente al 1990. Da quel momento, anche le principali testate occidentali iniziano a diffonderla, riservandole un alone di verità e sacralità sin lì inesistente. Gli altri protagonisti della tournée non ne parlano, mentre la voce più autorevole, quella di Pelé, sarà piuttosto contraddittoria.
Guilherme Guarche, memoria storica del Santos
Contraddizioni e buchi di sceneggiatura
È lo stesso Pelé a tornare sull’argomento e lasciare spazio a dubbi sull’autenticità della questione. Nella sua seconda autobiografia uscita nel 2007 O Rei tocca l’argomento, senza confermarlo in maniera netta ma comunque lasciando intendere la stipula di un effettivo cessate il fuoco nel 1969. In merito al match di Lagos, Pelé riporta che i nigeriani avevano solamente garantito che i calciatori non avrebbero corso rischi e che era stato il direttore commerciale del Santos a garantire che la guerra sarebbe stata fermata per tranquillizzare i calciatori.
A rinfocolare la leggenda è un’intervista di Pelé alla CNN nel 2011, in totale contraddizione con quanto affermato in precedenza. Ai microfoni della tv americana la Perla Nera racconta l’episodio con toni entusiastici, rivelandosi orgoglioso di aver fatto fermare una guerra grazie al Santos e del messaggio che il calcio è in grado di trasmettere. Pelé è stato un’istituzione, un personaggio che in Africa è stato amato ai limiti della venerazione, pertanto la storia viene considerata assolutamente credibile e lui stesso la ribadirà in futuro. E dal momento che nessuno oserebbe contraddire un personaggio del suo spessore e della sua credibilità, appena la storia esce dalla sua bocca di fatto diventa la verità.
Da quell’intervista, Pelé ha continuato ad aggiungere argomentazioni e dettagli più precisi e specifici di quanto accaduto, circostanza idonea a far crescere la leggenda e la narrativa su questo presunto storico evento. La tesi è stata nel tempo avvalorata dal Santos, che non ha mai lesinato nel sottolineare la propria importanza nell’interruzione del conflitto.
O Santos parou uma guerra, mas sabe que inúmeras outras acontecem diariamente. É dever de cada um fazer a paz reinar sempre. Nos estádios, nas ruas e nos lares. No mundo inteiro e em todos os momentos.
21 de setembro de 2020. Dia Internacional da Paz 🤍 pic.twitter.com/S5YnVC6e0l— Santos FC (@SantosFC) September 21, 2020
Il Santos, con il suo tweet per la Giornata Mondiale della Pace, avvalora il ruolo nello stop alle ostilità
Cos’è successo realmente
Uno dei fatti conclamati è che al momento della partita il livello di tensione era elevatissimo: il 31 gennaio del 1969, esattamente a metà tra i due match, le milizie del Biafra avevano bombardato il villaggio di Obagie, a meno di 10 chilometri da Benin City. Circostanza che avrebbe reso fortemente improbabile una tregua ma che, in realtà, non implicava il coinvolgimento della città nelle ostilità. Tesi sostenuta con vigore dagli studiosi brasiliani, che oltre a ribadire l’assenza di pericoli a Benin City ritengono che la guerra non sia mai stata realmente interrotta ma che, anzi, il Santos sia stato usato come strumento di propaganda dal governo nigeriano.
Appare improbabile che i Biafrans osassero correre rischi per la loro incolumità andando a vedere la partita sul suolo nigeriano, come risulta fortemente romanzata la notizia dell’apertura del Ponte Sapele per permettere ai cittadini del Biafra di arrivare nel Midwest. In realtà il ponte fu aperto solo per evitare il pagamento del pedaggio a chi aveva già sostenuto il costo dei biglietti dell’incontro. Anche alcuni compagni di squadra di Pelé come Gilmar e Coutinho si sono rivelati scettici sulla veridicità della storia, sostenendo che se mai ci fosse stato un cessate al fuoco sarebbe durato a malapena per i 90 minuti dell’incontro, tanto da sentire il rumore degli spari mentre erano sull’aereo che li avrebbe riportati a casa.
Oggi si può dire con ragionevole certezza che questa storia sia solo una leggenda. Ci resta solo la grande capacità di un campione come Pelé di farsi promotore della bellezza e dell’importanza dello sport, di un messaggio di speranza in cui tanti hanno creduto ciecamente.
We were asked to play a friendly match on Benin City, in the middle of a Civil War, but Santos was so beloved that they agreed on a ceasefire on the matchday. It became known as the day that "Santos stopped the war" 🙏 pic.twitter.com/W16wUQoN1O
— Pelé (@Pele) October 19, 2020
Un tweet di Pelé che celebra il cessate il fuoco
Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!