La settimana scorsa ci siamo salutati alla chiusura dei Giochi di Saint Louis 1904 con il movimento olimpico in difficoltà e sull’orlo del fallimento. Dopo i disastri di Parigi 1900, la rassegna americana aveva del tutto ridicolizzato un evento ormai ben lontano dagli ideali originali del Barone de Coubertin. Era necessario un rilancio in grande stile. Prima però di arrivare all’edizione di Londra 1908 è necessario fare una piccola deviazione. Nel 1906 infatti tornarono prepotentemente sulla scena i padri putativi dell’Olimpiade, i greci. E con loro, il vulcanico sovrano Re Giorgio I.
Atene 1896, nonostante gare pittoresche e al limite del credibile, era stata un grande successo. La risposta del pubblico per l’evento, così come la partecipazione degli atleti, avevano convinto tutti al punto che più di un addetto ai lavori propose la capitale ellenica come sede unica dei Giochi. Nel 1900 la guerra con i turchi ottomani bloccò tutto, quattro anni dopo toccò ai soldi irrinunciabili degli americani ma nel 1906 nessuno avrebbe impedito alla Grecia di festeggiare il decennale della prima edizione. Senza chiedere autorizzazione al CIO, nell’aprile del 1906 Re Giorgio I diede il via alla cerimonia di apertura di quelli che verranno ricordati come i Giochi Olimpici Intermedi. Per la prima volta gli atleti, sfilando nello stadio Panathinaiko sotto gli occhi compiaciuti del sovrano, parteciparono a una parata a inizio rassegna, che andava a celebrare lo sport e l’olimpismo in generale.
Manca ancora qualche anno per la definizione in 4K, comunque la foto rende lo stesso l’idea della prima cerimonia di apertura in un’edizione dei Giochi
La Grecia desiderava fortemente mantenere il legame con le antiche tradizioni olimpiche e al contempo dimostrare la propria capacità organizzativa. Grazie a un enorme sforzo collettivo, l’edizione del 1906 fu un grande successo: furono coinvolti 887 atleti provenienti da 20 nazioni diverse con un programma sportivo perfettamente organizzato. Ma in tutto questo, dov’era finito il Barone? De Coubertin provò sentimenti contrastanti riguardo le Olimpiadi Intermedie. Da un lato accolse con piacere il ritorno alla sobrietà di una rassegna completamente slegata dal caos dell’Esposizione Universale, dall’altro non tollerava l’idea che la sua creatura potesse essergli sottratta e gestita direttamente e autonomamente da chicchessia.
Per questo motivo i Giochi del 1906 lasciano ancora oggi più di un imbarazzo agli storici e agli statistici: i risultati e le medaglie ottenute non sono conteggiati negli almanacchi in quanto la rassegna non viene considerata ufficiale, tuttavia quella di Atene può vantare ugualmente il titolo di Olimpiade. Fu un’edizione particolare, unica nel suo genere e mai ripetuta, che portò però a galla una questione spinosa. Quattro anni tra una rassegna e l’altra erano una distanza adeguata per garantire un’organizzazione precisa e puntuale ma al tempo stesso una finestra troppo ampia che avrebbe rischiato di far sopire l’interesse per l’evento. Occorreva qualcosa di intermedio per tenere viva l’attenzione: con Atene 1906 si piantò il primo seme per le future Olimpiadi invernali.
Un’edizione italiana soltanto sfiorata
La spinta greca era scomoda e ingombrante. Era fondamentale trovare una città che potesse vantare una storia comparabile e un profondo legame con l’antichità classica. E quale miglior candidata se non Roma, perfetta per strappare i Giochi ad Atene? Alla notizia della risposta positiva della Città Eterna, il Barone fece i salti di gioia.
Voglio Roma perché incarna perfettamente l’olimpismo. Dopo la parentesi utilitaristica americana, dobbiamo rivestire di nuovo toghe lussuose intrecciate con arte e filosofia.
Queste le parole di de Coubertin in una lettera dell’epoca: da notare come il suo stile retorico e ampolloso non sia mai venuto meno, anzi ebbe nuova linfa grazie al progetto italiano. Le Olimpiadi romane stuzzicarono le fantasie anche dei nostri compatrioti. Il comitato organizzatore, supportato dal re Vittorio Emanuele III e guidato dal principe Prospero Colonna, sindaco della capitale, aveva piani grandiosi. Corse di automobili a Milano, combattimenti nel Colosseo e giochi navali nel Golfo di Napoli erano solo alcune delle esibizioni a corollario di un evento estremamente costoso. Già, i soldi: qui si arriva alle note dolenti. Ben più di uno statista era convinto che l’investimento per la macchina olimpica fosse troppo oneroso, denaro sciupato che non avrebbe generato alcun ritorno. Lo stesso primo ministro Giovanni Giolitti era molto combattuto sul mandare avanti il progetto.
L’Italia di inizio secolo infatti, per quanto sgomitasse per ottenere un posto al tavolo delle grandi potenze europee, era ancora uno Stato molto giovane e, a poco più di 40 anni dall’unità, erano parecchie le questioni spinose ancora irrisolte. Gli scioperi, la rivolta del Mezzogiorno e la mancanza di un vero e proprio schieramento politico di riferimento rendevano instabile un Paese alle prese con spese non indifferenti per colmare il divario con il resto d’Europa, quali una rete ferroviaria moderna, il tunnel del Sempione e un sistema di acquedotti nel Sud.
L’evento che però diede il colpo di grazia al progetto di Roma 1908 fu l’eruzione del Vesuvio nel 1906, la più violenta del XX secolo. Il disastro causò enormi danni a Napoli e dintorni, richiedendo ingenti risorse finanziarie per la ricostruzione e per l’assistenza alle vittime – si stimano circa 300 morti in totale. Il governo italiano si rese conto che non sarebbe stato in grado di sostenere i costi necessari per ospitare i Giochi Olimpici, che richiedevano investimenti significativi in infrastrutture sportive, alloggi e trasporti. Pertanto, nell’estate del 1906, l’Italia annunciò ufficialmente al CIO la propria impossibilità a ospitare l’edizione del 1908. Questa decisione lasciò il movimento in una situazione di emergenza, con la necessità di trovare una nuova sede in tempi brevi.
London calling
A soli due anni dal via della quarta edizione, il Comitato Olimpico Internazionale iniziò a cercare rapidamente una città in grado di ospitare i Giochi con così breve preavviso. Fu in questo contesto che William Henry Grenfell, sesto barone Desborough of Taplow, nonché presidente della British Olympic Association, promosse la candidatura di Londra con l’appoggio del Re Edoardo VII. La capitale britannica infatti, grazie alla sua lunga tradizione di eventi sportivi e competizioni internazionali, aveva infrastrutture già rodate e una rete di trasporti ben sviluppata, compresa una delle prime metropolitane del mondo.
Tutto era già predisposto ancor prima di cominciare. Wimbledon avrebbe ovviamente ospitato il tennis, Henley-on-Thames il canottaggio mentre nella contea del Surrey si sarebbe svolto il programma del tiro a segno. Mancava soltanto lo stadio, un dettaglio non da poco, ma è pur sempre degli inglesi che stiamo parlando. Sfruttando il piccolo Expo franco-britannico (al sentire la parola fiera il Barone sudò più di una camicia), Grenfell riuscì a ottenere la costruzione di uno stadio in legno in grado di ospitare atletica, ciclismo e nuoto. Per la prima e unica volta nella storia delle Olimpiadi fu possibile assistere contemporaneamente a queste tre discipline rimanendo comodamente seduti allo stesso posto. Nacque così lo stadio di White City, battezzato così perché in prossimità dei padiglioni bianchi dell’Expo.
Con i suoi 63.000 posti a sedere insieme ai 30.000 in piedi, lo stadio di White City, costruito in neanche due anni, fu un autentico miracolo architettonico per l’inizio del XX secolo. In questa foto si possono apprezzare gli edifici bianchi sullo sfondo.
A Londra 1908 furono 2.023 gli atleti protagonisti delle gare, provenienti da 22 comitati olimpici diversi. Già, comitati e non Stati: in questa edizione, più di ogni altra, è meglio identificare così la provenienza degli atleti. Il mondo era un’autentica polveriera e le grandi monarchie europee avevano perso le certezze e la solidità del secolo precedente. Esempio lampante quello dell’Impero austro-ungarico: il melting pot di culture e popoli aveva dato vita a spinte indipendentistiche molto vigorose e non è una coincidenza che il casus belli della Prima Guerra Mondiale fu proprio in territorio asburgico. Dunque alle Olimpiadi di Londra 1908, alla seconda cerimonia di apertura della storia dei Giochi, sfilarono sventolando orgogliosamente i propri vessilli i boemi – gli attuali cechi – e gli ungheresi.
I finlandesi non ebbero la stessa libertà. Ufficialmente granducato autonomo dell’Impero russo, la Finlandia si riteneva al contrario Stato indipendente. Nonostante ciò, l’organizzazione invitò la delegazione a sfilare sotto la bandiera di Nicola II, riconoscendo la sovranità zarista sulla regione. In segno di dissenso, per protestare contro la decisone, i finlandesi marciarono senza alcuna bandiera. Fu un gesto simbolico per affermare la loro identità nazionale distinta, una protesta che getterà le basi per quanto vedremo nelle edizioni successive dei Giochi.
La sfilata di apertura ci racconta ancora un’ultima storia, una fotografia di quello che sarà il leitmotiv di Londra 1908: la grande lotta sportiva e ideologica tra Stati Uniti e Gran Bretagna. Gli inglesi, in quanto veri tenutari delle regole dello sport moderno, non accettavano che gli americani, rozzi, arroganti ma clamorosamente vincenti, potessero trionfare in casa loro. I cugini a stelle e strisce, invece, tra le proprie fila potevano vantare parecchi atleti con un grande desiderio di rivalsa. E qui è necessaria un’altra pausa di carattere storico-politico. Siamo infatti nel pieno della questione irlandese, con i cattolici dell’Eire desiderosi di affrancarsi dal dominio dei britannici protestanti.
Gli atleti di caratura olimpica provenienti dall’Isola di Smeraldo erano ben pochi, in quanto scappati insieme a molti connazionali negli Stati Uniti e qui perfettamente integrati nella società quasi sempre come poliziotti. Il rifiuto della Gran Bretagna di concedere l’indipendenza irlandese era un affronto che non poteva essere ignorato dalla delegazione USA e gli inglesi – ai loro occhi – non erano altro che degli oppressori. In questo clima, mentre tutte le delegazioni sfilarono nello stadio piegando i propri vessilli in prossimità del palco reale, Ralph Rose, il portabandiera americano, non abbassò la Old Glory di proposito. Era l’inizio delle “ostilità”.
Motoscafi e finali in solitaria
Il programma di Londra 1908 prevedeva 110 gare in 23 sport diversi. Tra questi figuravano una disciplina invernale grande feticcio del Barone, il pattinaggio su ghiaccio di figura, altre ormai desuete anche per l’epoca come il jeu de paume – la pallacorda, l’antenato del tennis – e l’unica gara di motonautica della storia olimpica. La competizione vedeva come principali favoriti Lord de Walden e il Duca di Westminster, due autentiche star della navigazione dell’epoca. Prevista a metà luglio, la gara fu spostata di un mese e mezzo per consentire ai due, impegnati in gara negli Stati Uniti, di partecipare. Così nelle acque di Southampton, in condizioni meteo al limite della praticabilità, furono organizzate tre diverse classi di gara nelle quali però – ironicamente – nessuno dei due campioni riuscì a trionfare.
Nell’atletica, gli americani come al solito arrivarono per dominare e non tradirono le aspettative. Tra tutte le discipline, i risultati migliori arrivarono dai lanci, dove gli irlandesi, gareggiando con i colori a stelle e strisce, trionfarono facilmente, fatto che gli americani non mancarono di sottolineare ai cugini con parecchia ironia. La situazione più delicata però si verificò durante la finale dei 400 metri, passata alla storia come la gara corsa da un solo atleta. Il 23 luglio, dopo il completamento delle batterie, i quattro atleti qualificati per la finale furono tre americani, John Carpenter, Williams Robbins e Andy Taylor, e un britannico, il sottotenente scozzese Wyndham Halswelle.
All’epoca i 400 metri non venivano corsi all’interno delle corsie: gli atleti venivano sì sorteggiati per la posizione di partenza ma lo svolgimento della gara era libero. A Carpenter toccò così lo start dall’interno con Halswelle al suo fianco. Al colpo di pistola l’americano – consapevole di essere inferiore al rivale scozzese – impose un ritmo da primato del mondo, eccessivo per essere tenuto sulla distanza intera. Nella seconda metà di gara Carpenter crollò e, cercando di salvare la posizione, ostacolò vistosamente Halswelle in procinto di superarlo. Era una manovra perfettamente legittima per le regole americane che concedevano un’interpretazione più rude, assolutamente scorretta per quelle inglesi che vietavano qualsiasi tipo di contatto fisico.
I giudici tagliarono immediatamente il nastro del traguardo, segno di gara nulla e quindi da ripetere. Da lì il pandemonio. Si interruppero tutte le altre gare in programma, con gli atleti delle due delegazioni a difendere i rispettivi compagni e addirittura qualcuno tra il pubblico sceso in pista a perorare l’una o l’altra causa. Soltanto l’arrivo della polizia riuscì a ristabilire l’ordine una buona mezz’ora più tardi. Dopo infiniti battibecchi, finalmente la decisione finale: dovevano essere applicate le regole britanniche, per cui la mossa di Carpenter non era legittima, sancendone la squalifica e la ripetizione della gara. Robbins e Taylor a questo punto, per solidarietà al compagno, si rifiutarono di correre due giorni dopo e in pista, il 25 luglio, scese soltanto Halswelle che vinse – ovviamente – la prima e unica gara dei 400 metri in solitaria.
Taylor, che aveva tutte le carte in regola per vincere quella finale, si consolò qualche giorno dopo vincendo l’oro nella originalissima staffetta olimpica (una frazione rispettivamente da 800 e 400 e due frazioni da 200 metri). Taylor fu il primo afroamericano a vincere una medaglia d’oro alle Olimpiadi.
Il momento dell’arrivo di Carpenter con la corda del traguardo tagliata dai giudici.
Gli altri sport a Londra 1908
I Giochi – come detto – sancirono la grande rivalità tra inglesi e americani. Tra bisticci, giudici di parte e interpretazioni molto diverse delle regole, le gare avevano quasi tutte un carico di tensione enorme. Il tiro alla fune non fece eccezione. Gli americani presentarono una squadra composta da atleti prestati da altre discipline – principalmente il lancio del martello – che perse nettamente contro una rappresentativa di poliziotti e vigili del fuoco di Liverpool. Come mai un divario così ampio? Il capo delegazione degli Stati Uniti – quel James Sullivan già incontrato a Saint Louis – notò che gli scarponi degli inglesi erano talmente pesanti da permettere a malapena di sollevare i piedi.
Il regolamento vietava qualsiasi tipo di scarpa “truccata” con chiodi sulle suole o un peso eccessivo e quindi gli americani presentarono ricorso. Richiesta subito respinta dai decisamente non imparziali giudici: gli scarponi erano parte integrante della divisa da lavoro e quindi perfettamente legittimi da indossare durante la prova. Neanche a dirlo, la delegazione a stelle e strisce, stizzita, ritirò la squadra dalla competizione.
Dopo il Mar Egeo, la Senna e il lago artificiale di Saint Louis, finalmente per Londra 1908 gli inglesi regalano ai Giochi Olimpici un programma di nuoto in piscina. Le dimensioni della vasca erano originali – lunga 100 metri e larga solo quattro corsie – ma questo non ostacolò lo svolgimento delle gare. L’atleta di riferimento fu Henry Taylor, inglese di Oldham, che vinse tre medaglie d’oro nei 400 metri, 1500 metri e nella staffetta.
L’Italia portò alla rassegna 68 atleti ma furono ben poche le soddisfazioni con soli due ori e due argenti, un magro bottino. Il risultato più inatteso fu la vittoria di Enrico Porro, un teppistello milanese che, dopo varie esperienze come mozzo, era giornalmente coinvolto in violente risse di strada. La madre, per placare i suoi bollenti spiriti, decise di iscriverlo in palestra e fargli fare lotta greco-romana. Porro dimostrò un grande talento e si qualificò a Londra 1908 nella categoria pesi leggeri. Dopo un percorso abbastanza agevole nei turni eliminatori, ad attenderlo in finale c’era il russo Nikolay Orlov, un autentico armadio di 7 chili più pesante. L’incontro fu estenuante. Dopo i tempi regolamentari e i 20 minuti di supplementari, non c’era ancora un vincitore: a quel punto i giudici fermarono le ostilità assegnando all’italiano la vittoria ai punti.
Ci sarebbe un altro oro italiano in queste Olimpiadi, ben più famoso e ricordato, nella maratona. Il nome di Dorando Pietri non vi dice nulla? La storia di quella gara merita una trattazione lunga e articolata, cui abbiamo dedicato un racconto a parte. In questa sede ci limitiamo a un solo dettaglio. Come abbiamo visto la maratona era stata una grande invenzione dei francesi per celebrare l’antichità classica, tuttavia la distanza effettiva del percorso non era mai stata regolamentata ufficialmente.
La principessa Mary non voleva sentire ragioni: doveva essere lei a dare il via della gara e soprattutto il punto di partenza sarebbe stato dal giardino di casa sua, a Windsor. L’arrivo però doveva essere necessariamente davanti al palco reale di White City, per rendere omaggio al Sovrano. Un problema logistico non da poco, risolto cancellando senza troppe cerimonie i canonici 40 chilometri delle edizioni passate. La maratona a Londra si corse su una distanza di 26 miglia e 385 yards, ovvero 42,195 chilometri, una misura che sarebbe divenuta ufficiale in seguito ma che non era ancora quella definitiva.
Londra 1908 ci regalò anche la storia di Oscar Swahn. Alla prima partecipazione ai Giochi, lo svedese vinse l’oro nella gara di tiro al cervo sia individuale che a squadre. Un grande risultato, reso storico dal fatto che lo scandinavo all’epoca aveva 60 anni: stiamo parlando della medaglia d’oro più anziana di sempre, record ritoccato dallo stesso Swahn quattro anni più tardi a Stoccolma, quando vinse nuovamente. La sua carriera olimpica non si concluse nel 1912 e lo svedese aggiunse un altro record al suo palmarès: si ripresentò in pedana ad Anversa nel 1920 alla veneranda età di 72 anni, risultando l’atleta più anziano ad aver partecipato a un’edizione delle Olimpiadi.
Il recordman Oscar Swahn all’opera
La rassegna londinese salvò i Giochi. La scissione dall’Expo aveva riportato quell’aura di sacralità tanto agognata da de Coubertin, tuttavia rimaneva ancora da sistemare ben più di una questione, su tutte quella dei regolamenti, un problema messo a nudo dalla faida continua tra Stati Uniti e Gran Bretagna. In questo senso, l’austerità luterana degli svedesi sarebbe stata decisiva per sancire definitivamente il passaggio da rassegne caotiche a dei veri e propri Giochi Olimpici moderni.
Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!