La torbida acqua del Neretva è stagnante da mesi, il fiume di Mostar fa uno strano effetto mentre aspetti il cadavere del tuo nemico, il pozzo color smeraldo tracima nelle viottole scoscese della città. Scriveva Lev Tolstoj:
Gli uomini sono come i fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido.
Il derby
983 metri è la distanza che separa Anfield e Goodison Park, i due stadi di Liverpool che contribuiscono a ornare il gioco del pallone di un’aurea mistica. Un ambiente vernacolare, metafora del solipsismo dei sassoni, incatenati al giaciglio della Regina Madre. Agape per la palla in cuoio, l’iconografia manichea tra i Reds e i Toffees è espressione di un dissidio fraterno, prossemica di un sentimento intimo e viscerale come reliquia del movimento vorticista britannico. I calorosi hooligans si fanno sentire, le stentoree urla della Kop accolgono gli anfitrioni alla soglia dell’Inferno.
Ancora più a nord, assieme al secessionismo, l’unica cosa per cui gli scozzesi si battono è il calcio. Una fissazione che ha costretto gli enti comunali a destinare una stessa via a due club distinti: Tannadice Street congiunge il Dens Park del Dundee FC e il Tannadice Park del Dundee United FC. Non basti questo a incuriosire i turisti, a dividere gli impianti è una palestra di arrampicata su roccia e, nonostante il chiasso della partita, si scopre che le recensioni sono effettivamente molto positive. Il margine si assottiglia ulteriormente, sono appena 300 i metri che separano l’Estadio Libertadores de América dell’Independiente dal Juan Domingo Perón del Racing Club de Avellaneda.
L’incredibile vicinanza tra gli stadi di Independiente e Racing
Il calcio a Mostar
Nulla, però, divide una città come un rivo: la torbida acqua del canale serve da argine, una difesa contro piene ed esondazioni. Mostar è conosciuta per la sua segregazione etnico-culturale, frattura ideologica segnata dallo Stari Most, il ponte vecchio della città. Le torri sulle due sponde del fiume custodiscono i resti di una stirpe bellicosa. Costruito nel 1566 dall’architetto Mimar Hayruddin, era un dono del filantropo e sultano Solimano il Magnifico. Sebbene il viadotto sia sopravvissuto a entrambe le guerre mondiali, non avrebbe, tuttavia, resistito al conflitto armato in Bosnia-Erzegovina.
Come si legge in un verso del Corano: “Guardati dal nemico, ma dall’amico guardati cento volte. Difatti, se l’amico tuo diventa nemico, può colpirti di più, perché conosce le strade segrete del cuore”. Un’ecatombe che coinvolse serbi, croati e bosniaci, vittime di un eccidio familiare, consumato all’interno delle mura domestiche. Un sentimento di livore che connota indistintamente tutti gli slavi. Il popolo mitteleuropeo ha amputato nasi e orecchie dai cadaveri musulmani per gettare ai pesci la pastura. È risaputo che lo sport sia strumento di propaganda, troppe volte veicolo di morte e abusi. Nel cuore della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia il borgo è attraversato dallo Neretva, un corso d’acqua di colore verde che tiene lontani croati cattolici e bosgnacchi. A vent’anni dall’armistizio, a Mostar persiste un settarismo dilagante. Inimicizie e diseguaglianze, quelle che condividono HŠK Zrinjski, e FK Velež.
Origini del calcio a Mostar
Nato da un movimento separatista, il moto fascista dell’Hrvatski Športski Klub – tradotto “club sportivo croato” – porta il nome dei reali Zrinjski, famiglia aristocratica zagabrese conosciuta per l’eroismo del viceré Nikola Šubić Zrinski, caduto nell’assedio di Szigetvár del 1556 difendendo l’Impero Asburgico dall’invasione delle truppe ottomane. Fondata nel 1905, in esito allo scorporo di Austria e Ungheria, l’HŠK Zrinjski è la squadra più antica della Bosnia-Erzegovina, nata come polisportiva che comprendeva pallacanestro, pallamano e pugilato.
Essere croati in Bosnia non era affatto una passeggiata e, in questo senso, era facile aspettarsi che la loro non troppo velata simpatia per gli scaccati non avrebbe portato altro che guai. Il club venne infatti bandito dal campionato dell’ustaša, il governo guidato da Ante Pavelić, despota nazista coinvolto nell’occupazione dei Balcani a opera delle truppe tedesche. Il divieto si sarebbe protratto fino all’istituzione dell’NDH, Stato indipendente croato, burattino dell’Italia di Mussolini e della Germania Nazista. Al termine della Seconda guerra mondiale il Maresciallo Tito, supportato dal partigianato socialista nazionale, avrebbe proibito all’HŠK Zrinjski di prendere parte ad alcuna competizione ufficiale per tutta la durata del suo mandato.
Baluardo unico della città, i rivali del FK Velež rappresentavano la classe operaia che, abiurando le proprie convinzioni ideologiche e abbracciando l’opposizione, si sarebbe erta dalle spoglie di un’amministrazione imbolsita e belligerante. Se è vero che il dispotismo titoista ha agito con prepotenza nei confronti della maggioranza silenziosa, nel corso del regime di Pavelić il partigianato della Red Army – l’armata rossa, gruppo di tifosi del Velež – ha trovato morte e sofferenza. Nel 1972, in occasione del cinquantenario della nascita del club, il Maresciallo avrebbe fatto un proclama profetico:
Compagni, siete sulla giusta strada, non solo da ieri, ma dalla vostra origine. E ciò che più conta, siete rimasti politicamente uniti. Voglio che il futuro porti fratellanza e unità, qualcosa che è necessario diventi man mano più forte e sia consolidato. Voglio in particolar modo che voi, la giovane generazione che segue lo sport, diveniate i primi soldati di coloro che saranno di guardia contro ogni assalto nazionalista.
Velež, gloria di Mostar
Ispirate dalla classe operaia di Mostar, le associazioni cittadine della Omladina e del Željezničar cercarono, invano, di destituire il re Aleksandar Karađorđević. È con la fine degli anni ’20, dopo la dittatura del 6 gennaio, che la Stella Rossa bosniaca avrebbe vissuto un’inaspettata rinascita. Se dapprima il sovrano del Regno jugoslavo aveva determinato la sospensione del Velež – reprimendone il dissenso politico – dopo il suo assassinio a Marsiglia, fu Pavelić a fermare la censura. La squadra, composta da oppositori politici ed ex detenuti dell’Erzegovina, divenne bandiera del nazionalismo croato. Avrebbe preso parte al campionato organizzato dall’ustaša, gruppo armato destroide, il quale ha contribuito alla nascita dello Stato indipendente croato.
Il club sarebbe divenuto vittima della cancel culture, un ostracismo cui avrebbe fatto seguito un episodio comicamente tragico: il seppellimento da parte di un membro storico della società dei loro archivi e trofei, interrati chissà dove e mai più ritrovati. Dopo che un incontro amichevole contro lo Crna Gora di Podgorica si trasformò in una manifestazione antisistema, furono decine tra i giocatori e funzionari del Velež a morire al fronte, ovvero nei campi di prigionia in Polonia. Nei giorni successivi alla fine della guerra, tornato in possesso di Mostar, il partito fece riprendere l’attività sportiva.
A differenza dei rivali cittadini, fermati dal regime di Tito, gli operaisti vantano un passato glorioso: classificati secondi nella stagione 1972-73, persero il campionato per differenza reti contro l’Hadjuk Spalato, un piazzamento che permise loro, comunque, di qualificarsi alla successiva Coppa UEFA. Sebbene avessero eliminato, in ordine, Spartak Mosca, Rapid Vienna e Derby County, ai quarti di finale i Rođeni – “i nativi” – furono sconfitti dagli olandesi del Twente. Il punto più alto della loro storia venne, nondimeno, toccato negli anni ’80: vinsero due Coppe del Maresciallo Tito, nel 1981 contro lo Željezničar Sarajevo e nel 1986 contro la Dinamo Zagabria.
Complici gli ottimi risultati in campo continentale tra il 1988 e il 1991, il Velež si sarebbe issato fino alla 43ª posizione del ranking UEFA, più in alto, tra le altre della Roma, della Fiorentina e addirittura del Manchester United. Nel 1992 la guerra tornò a Mostar, la città fu, così, divisa in quartieri, distretti stagni da cui era meglio non uscire. Il Consiglio di Difesa Croato (HVO), assieme all’Esercito nazionale jugoslavo (JNA), avrebbe assunto il controllo della parte ovest, un tempo presieduta dalle forze dell’Esercito della Repubblica di Bosnia-Erzegovina (AEBiH). Venne perciò sequestrato lo stadio del Velež, il Bijeli Brijeg e, seguendo l’eco della dissoluzione dei rivali, la squadra sarebbe stata per l’ennesima volta bandita dal calcio dell’Erzegovina.
Nel 1992 era stato rifondato lo Zrinjski il quale, cacciato dallo storico impianto de “La collina bianca”, fu dirottato verso lo Stadion Vrapčići, oggi conosciuto come Stadion Rođeni. Se ciò non bastasse, il 9 novembre 1993 il ponte dello Stari Most si sbriciolò sotto i bombardamenti delle milizie nemiche. A franare era un baluardo della rediviva Bosnia, Maria addolorata della strage di Srebrenica. Il suo crollo corrispose con la rottura dell’ultima linea di difesa dello Stato, iniziatore delle soperchierie razziali riservate ai suoi abitanti.
Tifosi del Velež dipingono un murale con lo stemma del club, la stella rossa
Zrinjski, ribaltone a Mostar
È proprio in questa fase che tornò a vivere l’HŠK Zrinjski, risorto nell’esoterismo di Međugorje, il noto santuario di pellegrinaggio, luogo di culto della controcultura antisistema socialista. Trascorsi i 1425 giorni di assedio dell’indefessa Sarajevo, gli accordi di Dayton del 1995 avrebbero represso la malevolenza della caina Croazia, sebbene il diplomatico Richard Hoolbrooke avrebbe dichiarato:
La cosa importante era fermare la guerra, nessuno avrebbe mai creduto che la Bosnia sarebbe sopravvissuta per dieci anni.
Malgrado la loro nascita risalga all’inizio del secolo scorso, ambedue le squadre ripercorrono le instabilità politiche di un Paese contraddittorio, aderente alle proprie tradizioni quanto fedele alle sue incongruenze. Il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha accusato i croati per gli sgomberi forzati degli stranieri e la distruzione dello Stari Most. L’orrore della guerra, una pulizia etnica che ha coinvolto sino a 100.000 sfollati, privati della propria umanità.
Giustizia divina a danno di martiri innocenti, povere creature in balia degli eventi avversi. Il ponte è stato ricostruito solamente nel 2004 per rimuovere le ruggini del rancore. Visto lo smarrimento dei tifosi per aver perso la propria casa, intontiti dai canti che inneggiano al Maresciallo, la dirigenza aveva proposto di togliere la stella rossa dallo stemma della squadra, poi immediatamente ripristinata per evitare temute rivalse. Un ethos multietnico, il Velež vive della nostalgia dei bei tempi andati senza riuscire a trovare il proprio posto nel mondo, anche sul campo, dove lo Zrinjski ha trovato la sua dimensione ed è, oggi, il principale club bosniaco.
Del resto, il calcio ha avuto un suo ruolo nella disgregazione del Paese, come quando Zvonimir Boban nel bel mezzo di una partita tirò un calcio a un poliziotto per avere aggredito un tifoso della Dinamo Zagabria. Succede troppo spesso che i Plemići, gemellati con i Torcida dell’Hajduk Spalato, intonino cori che celebrano Ante Pavelić. Il settarismo di Mostar insinua il dubbio circa un supposto o un pretestuoso connotato non confessionale, gettando i Rođeni in una crisi d’identità. La popolazione demografica dell’est è fatta di nativi di religione musulmana. D’altra parte, se la Croazia era governata dagli Asburgo, all’opposto i bosniaci dipendevano dall’Impero Ottomano, venendo, pertanto, fortemente influenzati dall’Oriente.
I tifosi dello Zrinjski festeggiano la terza coppa nazionale della loro storia
La testimonianza
Come aveva affermato il giornalista e tifoso della Red Army Saša Ibrulj:
Ai più anziani piace dire che nulla è più lo stesso e temo abbiano ragione. Il Velež è ancora una delle squadre più di sinistra d’Europa. Resta uno dei pochi club che si identificano con il movimento antifascista; sulle tribune si possono vedere immagini di Tito e del Che. Quando si parla di composizione dei tifosi, è chiaro che qualcosa sia cambiato, ma ritengo sia conseguenza logica della guerra. Rimango fermamente contrario a etichettarlo come qualcosa di diverso da Mostar e dal pallone.
L’inizio della fine dell’utopia jugoslava, tra il fantasma dell’omologazione e il terrore della segregazione razziale. Il rischio è quello di accentuare le differenze per non perdere la propria autenticità.
Un esempio, che cito sempre, è la Primavera. Le giovanili sono, senza eccezione, mononazionali, banalmente perché i croati vivono a Zrinjski, mentre i bosniaci a Velež. Il suo legame col socialismo non può scomparire, in quanto credo che i tifosi saranno sempre orgogliosi di quello che hanno costruito grazie al socialismo.
La realtà supera la fantasia quando, nell’aprile del 2013, gli scontri tra tifoserie portano la polizia ad arrestare trenta sostenitori dello Zrinjski. Multati con un’ammenda di 500 euro, a farsene carico sarebbero stati i genitori, visto che erano stati bambini e adolescenti ad avere causato disordini. Le due anime balcaniche, figlie di una diversa ideologia, si confrontano nell’eterna sfida per il dominio ideologico, un derby intriso di sconforto, unico per storia e misticismo.
Il secessionimo di Mostar
A giugno 2015 la Corte costituzionale della Bosnia-Erzegovina ha ordinato di modificare lo statuto elettorale. A dispetto dell’ampia differenza numerica tra le due fazioni della città, a Mostar vige da tempo la regola del voto per teste. Non stiamo forse legittimando la prevaricazione della destra sulla sinistra? Non è che in forza di un pretestuoso principio democratico stiamo forse acconsentendo a un razzismo legalizzato? Il calcio abbisogna, senz’altro, di maggiore acutezza ma la classe politica non ha tanto più sale in zucca.
D’altronde, sembra un’ovvietà, però l’apartheid è da sempre stato un business vincente. Il giorno precedente al grande evento sulle lapidi o le mura in mattoni della città vecchia compaiono svastiche e appellativi che non riporteremo. Mostar è segnata da un fervente nazionalismo, osservante una prossemica libertaria, habitus mentis dell’imperante assolutismo titoista. Devoti alle loro tradizioni, seppure accomunati dalla stessa passione, i cittadini rimangono fedeli a un diverso Dio.
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