La settimana scorsa ci siamo lasciati ad Atene, dove l’esperimento Giochi Olimpici si dimostrò particolarmente riuscito. Il popolo greco fu entusiasta dell’evento e il trasporto con cui aveva tifato atleti sia stranieri che connazionali spinse molti a chiedere di riportare la seconda edizione, quella del 1900, in territorio ellenico. Lo stesso Giorgio I si schierò apertamente a favore della candidatura di Atene e, con l’aiuto della stampa locale, riuscì a mettere in piedi una pesante campagna diffamatoria contro de Coubertin, addirittura dipingendolo come un ladro, colpevole di trafugare il patrimonio greco. Il Barone però, come abbiamo visto, aveva altri piani. Con questi presupposti entriamo nel vivo di Parigi 1900.
Il problema diplomatico non era irrilevante e, come se non bastasse, c’era da tenere a bada una piccola ala del CIO che proponeva timidamente altre mete come Berlino, New York e Stoccolma. Fortunatamente per de Coubertin, i greci si eliminarono da soli dalla corsa: tra l’aprile e il maggio 1897 le ostilità con i turchi si inasprirono sempre più e sfociarono in un autentico conflitto per stabilire chi avesse il controllo di Cipro. C’erano dunque ben altri problemi a cui pensare rispetto alle Olimpiadi. Eliminate le altre città concorrenti, la strada per il sogno del Barone era definitivamente spianata: portare i “suoi” Giochi Olimpici a Parigi in concomitanza con l’Esposizione universale del 1900.
Così come i greci, però, anche i transalpini avevano più di un grattacapo interno. Alla fine del secolo infatti, in Francia si era nel pieno dell’affare Dreyfus. Il caso, nato inizialmente come un’accusa di spionaggio e tradimento in favore della Germania da parte del capitano Alfred Dreyfus, aveva assunto proporzioni nazionali, creando due fazioni ben distinte. Da un lato i sostenitori dell’innocenza del militare (tra questi Émile Zola con il suo celebre J’accuse) dall’altro gli antidreyfusardi, convinti della sua colpevolezza. Il mondo politico e sociale francese era spaccato in due e, in un clima così teso, il presidente Fèlix Faure non era per nulla convinto del progetto di De Coubertin.
I preparativi per Parigi
Con il congresso di Le Havre del 1897, il Barone ottenne finalmente l’appoggio del mondo politico francese ma non quello di Alfred Picard, ingegnere estremamente conservatore, responsabile dell’Esposizione. L’obiettivo di Picard, infatti, era di far conoscere a tutto il mondo la civilation française e nella sua testa lo sport e gli sportivi non avrebbero per nulla contribuito, anzi. Incassato un no perentorio, de Coubertin tuttavia non si diede per vinto: con o senza appoggio dell’Esposizione, i Giochi Olimpici si sarebbero fatti lo stesso a Parigi. Era necessario però ridimensionare il progetto. Inizialmente l’idea era di ricostruire una nuova Olimpia, la Grecia Antica che ritorna in Francia: marmo, statue, un trionfo di lusso e classicismo, con la ciliegina sulla torta della fedele riproduzione di un nuovo Altis (la zona sacra di Olimpia con i templi e il santuario di Zeus).
Una mappa di Parigi dell’epoca in cui sono evidenziate le zone nevralgiche per l’Esposizione e i Giochi.
Un’idea magnifica e mastodontica, ma solo un’idea. Il massimo dei fondi che il Barone riuscì a ottenere coprirono a malapena le spese per un piccolo stadio in legno a Vincennes, destinato agli sport di squadra e al ciclismo. In un clima ancora più teso e incerto rispetto a quanto abbiamo visto per Atene, il colpo che fece tremare non poco tutta la macchina organizzativa venne assestato proprio dalla Union des sociétés françaises de sports athlétiques (USFSA), di cui il Barone era un membro cruciale. Una pugnalata alle spalle.
La USFSA, il 9 novembre 1898, rivendicò il diritto ad essere l’unica organizzazione con il potere di gestire eventi sportivi sul suolo francese, quindi era necessario che de Coubertin e il CIO facessero un passo indietro. Il Barone, che amava i Giochi più di ogni altra cosa al mondo, pur di non vedere naufragare il suo progetto accettò il ridimensionamento e si fece da parte per lasciare il timone a Daniel Mérillon, ai tempi capo della federazione francese di tiro. La prima mossa del nuovo capo organizzatore fu un colpo diretto al cuore di de Coubertin: cambiò il nome della rassegna a Jeux Olympiques a Concours internationaux d’exercices physiques et de sports. Risultato di questa presa di posizione estremamente arrogante fu che parecchi atleti non seppero mai – o comunque lo scoprirono negli anni successivi – di aver partecipato alla seconda edizione dei Giochi Olimpici moderni.
Mèrillon, per ottenere l’approvazione di Picard, oltre al nome cambiò anche il programma della manifestazione introducendo nuove gare ed esibizioni che fecero storcere il naso a più di una delegazione, tra cui quella americana. Solo l’intervento e la mediazione proprio di de Coubertin salvò parzialmente la situazione e fece in modo che i Giochi potessero partire.
Cominciano i Giochi
Il 14 maggio, in contemporanea con l’inaugurazione dell’Esposizione universale, i Giochi di Parigi 1900 vennero ufficialmente aperti. Tuttavia, mentre il clou della fiera si sviluppava nella frequentata zona tra il Trocadéro e Champ-de-Mars (la Tour Eiffel venne eretta proprio per l’occasione), la maggior parte delle gare sportive venne relegata al Bois de Boulogne, il parco più grande della città, generando non pochi problemi al pubblico desideroso di assistere alle competizioni. Le informazioni sugli eventi erano scarse e non era cosa rara girare a vuoto per l’immenso parco.
In un contesto così variegato e sfaccettato come quello dell’Esposizione, Mèrillon propose delle attività che poco avevano a che fare con il concetto di Olimpiade. D’altronde l’idea non era più quella di presentare una rassegna sportiva bensì di associare alla fiera delle attività dimostrative. Fu così che, per esempio, la scherma entrò a far parte della sezione della coltelleria, la ginnastica di quella scolastica e la vela nella navigazione commerciale. Il CIO solo nei decenni successivi riuscirà a fare ordine in questa grande macedonia di eventi dichiarando non olimpiche – ovviamente – esibizioni come il tiro all’orso selvatico riservato agli ufficiali in servizio, le sfide tra squadre di pompieri a chi spegneva più velocemente un falò o la gara tra mongolfiere.
Ufficialmente, dopo il certosino lavoro di revisione del Comitato Olimpico, a Parigi 1900 gli sport in programma furono 18, divisi in 95 gare spalmate nell’arco di cinque mesi e mezzo, tale era la durata dell’Esposizione. Oltre alle discipline già presenti quattro anni prima ad Atene, il programma olimpico vide l’introduzione di sport di grande successo come calcio, pallanuoto e golf, nonché altri leggermente più ricercati. Il pubblico poté assistere a incontri di pelota basca (non una sorpresa che la squadra vincitrice fosse dell’Euskadi), tiro alla fune (teniamolo bene a mente, perché regalerà momenti iconici in futuro) e croquet.
Vi ricordate la celebre scena di Alice nel Paese delle Meraviglie in cui la regina di cuori usa ricci e fenicotteri in un gioco simile al golf? Ecco quello è il croquet. Solo sette partecipanti in totale e una sola persona tra il pubblico – un gentiluomo inglese in pensione a Nizza che non saltò neanche una gara – per uno sport che, guarda caso, non ritroveremo più nelle edizioni future.
Il programma dell’atletica
Avrete ormai intuito che l’atletica è il motore trainante delle nostre storie a cinque cerchi e quanto successo a Parigi 1900 non fece eccezione. Come abbiamo detto, la location prescelta fu il Bois de Boulogne. I francesi non vollero sentire ragioni e non permisero assolutamente di intaccare l’armonia del parco con una pista che ne avrebbe rovinato l’estetica generale. Per questo motivo, i corridori furono costretti a gareggiare sull’erba tra zolle, cunette e saliscendi mentre i lanciatori dovettero ingegnarsi per non vedere le loro prove invalidate da alberi e cespugli: non era raro, nell’estate del 1900, trovare giavellotti conficcati in qualche tronco o pesi in mezzo agli arbusti.
In questo contesto, la squadra americana arrivò ancora più completa e preparata di quanto visto ad Atene. Sempre rispettando il sacro concetto di atleta amatore, il contingente era formato da studenti provenienti dalle Ivy League Schools, la lega che riuniva la crème dei college statunitensi. L’atleta di riferimento fu Alvin Kraenzlein, vincitore in ben quattro specialità: oltre al salto in lungo e ai 60 metri piani, il ragazzo di chiare origini tedesche trionfò nei 110m e 200m ostacoli. Abbiamo già visto che gli americani avevano la tendenza a portare innovazioni rivoluzionarie nel mondo dello sport e lo stesso accadde a Parigi. Kraenzlein dominò entrambe le gare a ostacoli introducendo un nuovo modo di superare la barriera, con la gamba protesa in avanti, per un movimento molto più fluido.
Kraenzlein in allenamento mentre salta l’ostacolo alla sua maniera.
Un dettaglio da non sottovalutare era proprio la provenienza degli atleti della squadra americana, tutti iscritti a college di chiaro stampo cattolico. Una situazione che imponeva loro, durante la domenica, totale astensione da qualsiasi tipo di attività, sportiva o lavorativa che fosse. Dal momento che il programma prevedeva che quasi tutte le finali si disputassero proprio nelle calde domeniche estive, la delegazione a stelle e strisce ottenne inizialmente una deroga per far gareggiare i propri atleti il lunedì seguente. I risultati dei due giorni avrebbero determinato la classifica generale.
I francesi, tuttavia, all’ultimo momento si rimangiarono la parola data, non volendo di fatto avvantaggiare una nazione in particolare – o volendo favorire di proposito i concorrenti di casa, come sostennero gli americani – e decisero in gran segreto che tutte le gare si sarebbero dovute concludere in un solo giorno. Una volta appresa la notizia, i college si divisero in due: chi rimise la decisione al singolo atleta (Georgetown, University of Pennsylvania e Columbia) e chi pose un divieto assoluto alla partecipazione (Princeton, Syracuse e Yale su tutte).
Ne nacque così un polverone gigantesco in cui il caso più eclatante fu quello legato al salto in lungo. Sappiamo già che il vincitore fu Kraenzlein, atleta della University of Pennsylvania, quindi libero di gareggiare. Già, ma come vinse? Alle qualificazioni del sabato i risultati migliori furono quelli di Myer Prinstein con 7,17 m e di Kraenzlein stesso con 6,93 m. Prinstein era un ebreo di origine polacca e in quanto tale non obbligato a osservare il riposo domenicale, piuttosto avrebbe dovuto astenersi il giorno precedente. Rispettando però la volontà di Syracuse, la sua Alma mater, non scese in pedana il giorno della finale, con la garanzia che il connazionale avrebbe fatto lo stesso.
Kraenzlein a sorpresa la mattina seguente si presentò alla finale e per solo un centimetro batté la misura, mandando su tutte le furie Prinstein che arrivò perfino a prenderlo a pugni. Solo l’intervento dei compagni di squadra separò i due e salvò il neo-campione olimpico da una brutta fine. Prinstein ottenne comunque il secondo posto grazie alla misura del sabato e si consolò parzialmente qualche giorno dopo con il successo nel salto triplo battendo James Connolly, che abbiamo già incontrato ad Atene in quanto primo, storico oro nell’epopea olimpica moderna.
Sempre dall’atletica abbiamo lo sportivo più iconico di tutta la rassegna: Ray Ewry. Il ragazzo si laureò campione olimpico nelle tre specialità del salto da fermo (alto, lungo e triplo) battendo senza storia la concorrenza. Fino a qui tutto normale. Il dettaglio – se così possiamo chiamarlo – che scolpì nella storia le prove, fu la malattia di Ewry: era poliomielitico. Contratto il virus in adolescenza, le prospettive erano tutt’altro che rosee, con una vita condotta – nel migliore dei casi – in sedia a rotelle.
Ewry non si lasciò abbattere e provò qualsiasi cosa pur di tornare a condurre un’esistenza normale: grazie a una serie di esercizi di sua invenzione, precursori di quella che diventerà la ginnastica isometrica, riacquisì forza nella parte bassa del corpo, tornò a camminare e – con sommo stupore dei medici – iniziò a fare sport. A Parigi fu un trionfo e il pubblico si innamorò della storia di questo ragazzo che venne soprannominato le grenouille humaine, la rana umana.
Ewry durante la prova di salto in alto: da notare come il lavoro maniacale sul suo corpo lo abbia portato praticamente ad annullare l’atrofia muscolare causata dal virus.
La maratona
Un capitolo a parte lo merita la maratona, una gara speciale, unica nel suo genere. A Parigi 1900 i fatti non sono proprio chiari e cristallini già prima del via. Gli organizzatori infatti, sapendo che svedesi e americani si erano allenati per diversi giorni sul tracciato ufficiale, decisero all’ultimo secondo di rivoluzionare il percorso, privilegiando il passaggio nel centro città tra le labirintiche vie parigine. Questo non solo avrebbe tolto punti di riferimento preziosi agli atleti stranieri ma avrebbe privilegiato i corridori di casa, perfettamente a conoscenza di scorciatoie e vie secondarie per accorciare la distanza. Anche la scelta della data non fu delle più illuminate: il 19 luglio con partenza alle 14.30, probabilmente la giornata più calda dell’anno, con temperature ben sopra i 40 °C.
Uno dei principali favoriti era lo svedese Ernst Fast. Al via il nativo di Stoccolma prese subito il largo conducendo la gara in solitaria. Ecco che però si realizzò il diabolico piano dell’organizzazione: Fast si perse tra le vie della città e, costretto a fermarsi, chiese indicazioni a un poliziotto. L’agente, con una dose eccessiva di patriottismo, mandò completamente fuori strada il ragazzo che non riuscì mai a colmare il divario con i primi. Con un colpo di fucile, il francese si suicidò pochi giorni dopo per il rimorso.
Mentre Fast era disperso tra gli arrondissement parigini, Arthur Newton chiuse la sua prova in poco più di 4 ore entrando allo stadio a braccia alzate: gli avversari non lo avevano superato, era convinto di essere il campione della maratona. Nessuno però lo prese in considerazione: erano arrivati in quattro prima di lui e le premiazioni erano già in corso. Primo a tagliare il traguardo fu Michel Théato che venne portato in trionfo senza troppe domande, d’altronde l’orgoglio di poter vantare un connazionale campione nella maratona era troppo grande.
Newton però non era convinto. A parte lo svedese, sapeva per certo di non aver mai avuto nessuno davanti durante la gara, inoltre i vestiti di Théato erano troppo puliti per uno sforzo così enorme come una corsa di 40 km. Il collegamento fu immediato: Théato e gli altri francesi vennero accusati dagli americani di aver tagliato il percorso ma le prove non erano sufficienti per ribaltare il verdetto. L’organizzazione respinse il ricorso e considerò l’ordine di arrivo allo stadio. Ancora oggi non si sa come sia andata veramente. Ciò che sicuramente è passato alla storia è il fatto che il neo-campione, una volta assicurato il primato e ricevuto il premio, lasciando la cerimonia rivelò al pubblico di non essere francese ma lussemburghese: alla faccia del connazionale da osannare.
Il nuoto
Anche il programma di nuoto regalò dei momenti indimenticabili. Come per Atene, anche a Parigi 1900 non vennero stanziati fondi per una piscina e le gare vennero disputate nella Senna. All’epoca però non c’era il presidente Macron con i suoi progetti milionari di pulizia del fiume, per questo gli atleti furono costretti a gareggiare in condizioni igieniche discutibili, in un’acqua limacciosa e maleodorante.
Passaggio chiave per rendere la Senna balneabile, la stazione per la depurazione delle acque piovane di Champigny-sur-Marne è pronta! Con uno sforzo comune, Stato e membri del Governo, ce l’abbiamo fatta. L’acqua della Senna sarà fredda… ma pulita. Ve lo potrò confermare!
Gli organizzatori, per bilanciare la situazione, organizzarono i campi di gara in modo tale che i nuotatori andassero a favore di corrente, dando vita a delle gare velocissime per l’epoca, con tanto di record del mondo sui 200m abbassato addirittura di 13 secondi. Oltre alle competizioni classiche, poi, le acque della Senna ospitarono altre gare più pittoresche. Tra tutte spiccano i 200m ostacoli in acqua e il nuoto subacqueo. La prima prevedeva una fila di barche poste ogni 30 metri che i concorrenti dovevano superare arrampicandosi su un palo e percorrendo a nuoto la distanza che separava ogni ostacolo. La gara di subacquea, invece, combinava due fattori: il tempo e i metri trascorsi sott’acqua, generando un punteggio unico nel suo genere. Come potrete intuire, in entrambi i casi si trattò di esperienze one shot: le due discipline non avrebbero più trovato posto ai Giochi.
Anche la pallanuoto contribuì ad arricchire il programma olimpico. Come tutti gli sport di squadra, all’epoca non esistevano rappresentative nazionali, bensì squadre di club selezionate, in un torneo che si sarebbe giocato con le nuove regole britanniche, molto più restrittive e meno violente. Gli inglesi, rappresentati dalla Osborne Swimming Club, accettarono di buon grado l’invito, lo stesso non si può dire degli americani che all’annuncio del regolamento preferirono non investire in uno sport in cui erano certi di non poter competere ad alti livelli. Analogamente, i francesi nutrivano più di un dubbio riguardo regole tanto severe. Tuttavia, in quanto padroni di casa, non potevano negare la partecipazione di una squadra.
I nodi vennero al pettine quando in semifinale la Osborne affrontò i Pupilles de Neptune arrivati da Lille: entrambe le squadre volevano giocare la partita con le proprie regole. Da una parte i francesi che, in barba alle scelte del comitato, non volevano sentir ragioni e giocare una pallanuoto dura e arcigna, una sorta di lotta acquatica. Dall’altra gli inglesi, forti del regolamento che li tutelava. La tensione arrivò al punto che scoppiò una rissa epocale risolta con non poche difficoltà: alla fine a spuntarla furono i ragazzi della Osborne che travolsero gli avversari 10-1 e volarono in finale, dove batterono i belgi della Royal Brussels Poseidon.
Gli altri sport
Nella Senna ebbero luogo anche le gare di canottaggio, dove abbiamo il primo caso di doppia medaglia. Il letto del fiume poteva ospitare massimo quattro equipaggi contemporaneamente, gli organizzatori però avevano previsto sei imbarcazioni in finale. Gli atleti non scesero a compromessi e scioperarono: a quelle condizioni non avrebbero mai corso. Non potendo annullare in blocco la finale – sarebbe stato infatti un passo falso troppo grande – gli organizzatori chiamarono un gruppo di bambini per farli regatare. Nel frattempo i “ribelli” avrebbero fatto la loro gara da un’altra parte dove le condizioni sarebbero state più congeniali. Medaglie per i bambini, medaglie per i grandi.
Sempre dal canottaggio arrivò il più giovane campione olimpico della storia. Quando l’equipaggio olandese del due con si rese conto di avere un timoniere troppo pesante rispetto agli avversari, individuò tra il pubblico un bambino di dieci anni. Con l’aiuto del piccolo francese i due vinsero facilmente la competizione ma purtroppo, una volta completata la premiazione, il ragazzo scomparve, lasciando un secolare velo di mistero sulla propria identità.
La foto che ritrae i due olandesi, neo campioni olimpici a Parigi 1900 insieme al ragazzino francese arruolato tra il pubblico.
Tra gli sport di squadra a Parigi 1900, fece il suo esordio anche il rugby, che vide vincere i francesi contro gli unici avversari arrivati nella Capitale, una squadra tedesca di Francoforte. Dopo un primo tempo molto convincente per gli ospiti (all’intervallo il punteggio recitava 14-5), la selezione transalpina recuperò lo svantaggio e conquistò la prima vittoria della storia dei Giochi. Tuttavia agli occhi del pubblico il risultato era incompleto: d’altronde senza battere i padri del rugby, gli inglesi, come ci si poteva vantare del titolo di campioni? Dunque per suggellare il primo posto una volta per tutte, successivamente venne invitata una squadra d’oltremanica, i Mosley Wanderers.
La partita non ebbe storia, con i francesi che segnarono fin dall’inizio un solco invalicabile, chiudendo solo il primo tempo sul 21-0 (il finale dirà 27-8). Battuti anche gli inglesi, nessuno poté più obbiettare sul primo posto dei padroni di casa. Peccato che la partita venne organizzata ad hoc. I Mosley Wanderers, chiamati in fretta e furia a Parigi, accettarono la convocazione pur avendo giocato il giorno precedente e scesero in campo per la partita senza neanche un minimo riposo dal viaggio. Gli inglesi, piccati per il trattamento ricevuto, se ne andarono immediatamente dalla capitale, senza disputare la finale per il secondo e terzo posto contro i tedeschi. A questo punto gli organizzatori, per non peggiorare ulteriormente i rapporti con la federazione albionica, si accordarono per un salomonico secondo posto ex aequo.
Tra i giocatori presenti nella selezione francese, uno tra tutti è particolarmente degno di nota: Constantin Henriquez, numero 8 di origine haitiane, con la vittoria nel torneo, diventò il primo campione olimpico nero. Quello del rugby tuttavia non è tuttavia il suo primo podio: tre mesi prima aveva ottenuto il secondo posto con la squadra di tiro alla fune.
Henriquez, il secondo in basso da destra, con i compagni di squadra del rugby.
Fu un’edizione folle, quella di Parigi 1900, in cui tutto fu più caotico e più disorganizzato rispetto ad Atene. Lo stesso de Coubertin – che seppur messo in disparte non perse mai di vista lo svolgimento dell’evento – qualche mese dopo, in una lettera definì un miracolo che “l’Olimpismo abbia potuto sopravvivere a quella celebrazione“. Tuttavia fu necessario un’altra rassegna per far capire al Barone che il binomio Olimpiadi-Expo era un matrimonio che non s’aveva da fare.
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