La settimana scorsa ci siamo lasciati nel marzo del 1896 con il Barone de Coubertin in procinto di realizzare il suo più grande sogno: la creazione dei Giochi Olimpici moderni. Dopo anni di peripezie, dubbi e ostacoli di natura tecnica e politica, Atene era pronta a dare il via a un evento globale ma del quale nessuno conosceva bene il significato. Sì, perché l’idea era ovviamente quella di riprendere l’antica tradizione di Olimpia, ma le modalità e i tempi erano ancora tutt’altro che definiti. Molti atleti non erano neanche così sicuri di partecipare effettivamente ai Giochi, bensì a una rassegna sportiva più grande del solito. Tutte le convenzioni olimpiche a cui siamo abituati (le medaglie, i cinque cerchi, il giuramento e il motto Citius, Altius, Fortius), arriveranno infatti nelle edizioni successive.
In un clima di euforia collettiva il 6 aprile 1896, i Giochi della I Olimpiade moderna vennero ufficialmente aperti da Re Giorgio I. Un giorno non casuale quello scelto da de Coubertin che, come abbiamo visto, in questo genere di finezze era davvero abile. La data coincideva infatti con la festa dell’indipendenza greca dalla dominazione turca.
Le discipline e i partecipanti
Nel progetto iniziale del Barone, gli sport da portare ad Atene avrebbero dovuto essere 11: atletica, canottaggio, ciclismo, polo, cricket, ginnastica, lotta, nuoto, vela, tennis e scherma. La vela e il canottaggio però dovettero fare subito i conti con le cattive condizioni del mare di inizio aprile e furono cancellate. Il polo invece fu eliminato dal calendario a causa della difficile orografia greca che rese impossibile costruire un campo adeguato. Anche il torneo di cricket non si disputò, non per questioni logistiche ma semplicemente perché non si presentò nessuno. Il Barone ci riprovò quattro anni dopo a Parigi ma l’esito fu sempre lo stesso, snobbato: un errore madornale che costò l’esclusione totale dello sport dal circuito. Lo rivedremo per la prima volta solo nel 2028 a Los Angeles.
De Coubertin, sempre con l’obiettivo di rendere omaggio al popolo greco, presentò nel programma una gara di corsa nuova, su una distanza mai vista prima. Per rievocare la grande impresa di Fidippide (o Filippide, in base allo scrittore che ne ha citato le gesta), che nel 490 a.C. percorse il tratto Maratona-Atene di corsa per annunciare ai suoi la vittoria sui persiani, il Barone introdusse la “maratona olimpica” con lo stesso tracciato. Fino a qui la storia è come l’abbiamo sempre sentita, peccato che non sia andata proprio così.
L’avvenimento come lo conosciamo noi non è altro che frutto dell’invenzione di Michel Brèal, filologo francese molto amico di De Coubertin e profondo conoscitore della Grecia Antica. Brèal riprese un passo delle storie di Erodoto – libro VI, paragrafo 105-106 per i più curiosi – nel quale si racconta di un certo Fidippide e della sua corsa da Atene a Sparta (225 km in un giorno!) per chiedere aiuto ai rivali di sempre contro la minaccia persiana. Brèal fuse questo aneddoto con un racconto preso dal De gloria Atheniensium di Plutarco nel quale si narravano le gesta di un soldato che in armatura completa corse da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria salvo poi morire stremato. Era il contesto perfetto per una gara che stuzzicò fin da subito le fantasie dei greci. La maratona moderna quindi non è altro che un’invenzione dei francesi.
Per quanto riguarda il numero dei partecipanti, ci sono varie versioni a seconda dei registri presi in esame, con le presenze che oscillano dalle 241 alle 311. Tra queste due terzi erano greci, non è una sorpresa dunque che il paese ospitante vinse il maggior numero di “medaglie” (virgolette doverose, in quanto non ancora presenti all’epoca). Difficile anche quantificare il numero esatto di nazioni rappresentate, circa 15. Siamo in piena epoca imperialista e coloniale con i confini geografici non così ben definiti. Una deroga, per esempio, venne concessa agli australiani che, pur essendo di fatto sotto protettorato britannico, poterono iscriversi e gareggiare con la propria bandiera nazionale. Discorso opposto per ciprioti ed egiziani di chiare origini greche che parteciparono come sudditi di Re Giorgio.
La bandiera della federazione australiana in uso dal 1831 al 1901. Insieme alla Union Jack in altro a sinistra, a rimarcare la presenza dell’impero britannico, troviamo le cinque stelle a comporre in maniera stilizzata la Croce del Sud.
Oltre all’Australia, furono solo due i Paesi rappresentati fuori dall’Europa. Da una parte gli USA, che portarono a casa il maggior numero di primi posti e parteciparono con una delegazione composta da studenti al terzo anno provenienti per lo più da Harvard, dall’altra il Cile. Un solo atleta in rappresentanza dello Stato sudamericano, tale Luis Subercaseaux, figlio di un diplomatico presso la Santa Sede in Vaticano, che i cileni dichiarano di aver mandato a competere in tre gare di atletica. Già, perché questo è quanto sostiene il COCh (Comité Olímpico de Chile), versione che tuttavia non combacia con i registri dell’epoca. Ancora adesso non si sa la verità e probabilmente non si saprà mai. Nel dubbio, i compaesani di Allende e Neruda hanno eretto una statua a lui dedicata, all’ingresso del Museo Olimpico nazionale.
E gli italiani? Non ci sono informazioni così dettagliate sul contingente italiano ad Atene 1896, tuttavia sappiamo sicuramente della partecipazione di Giuseppe Rivabella nella gara di tiro a segno, anche se la storia più affascinante è quella di un atleta che non partecipò all’evento, Carlo Airoldi.
Il primo escluso delle Olimpiadi
Carlo Airoldi era sicuramente uno dei fondisti più conosciuti e forti della sua epoca, vincitore di 108 gare sia a livello locale che internazionale e uno dei grandi favoriti per la maratona, la gara regina. Per finanziare la sua trasferta in Grecia, il nativo di Origgio – nel varesotto – convinse il direttore di un giornale dell’epoca, La Bicicletta, a fornire supporto monetario alla sua impresa in cambio dell’esclusiva sul diario di viaggio da pubblicare sulle pagine del quotidiano. Già, perché il piano di Airoldi non era di andare ad Atene in nave come la maggior parte degli atleti, bensì di preparare la gara percorrendo di corsa il tragitto che separava casa sua, in Lombardia, dalla capitale greca. Un’impresa di un mese con tappe anche di 70 km al giorno.
La prima parte del percorso non destò particolari preoccupazioni, a parte gli ovvi disguidi già messi in preventivo, legati al meteo e alle strade dissestate. L’allenamento però era lungo e noioso, con tanti chilometri percorsi da solo in mezzo al nulla. Ad Airoldi mancava il brivido della competizione, della gara. Presto detto, a Spalato incontrò un veneto, che gli propose di correre contro il più forte atleta locale in una gara di velocità, non proprio la specialità della casa. Airoldi, allettato soprattutto dall’idea di spartire con il connazionale le quote delle scommesse giocate contro di lui, accettò la sfida e, dopo aver tenuto sotto controllo l’avversario per la maggior parte del percorso, lo bruciò sul finale. Neanche il tempo di festeggiare e incassare la vincita che il poveretto dovette scappare in fretta e furia dalla città, inseguito da un manipolo di scommettitori slavi inferociti.
Arrivato a Ragusa (l’odierna Dubrovnik), su consiglio dei locali Airoldi si imbarcò nel porto della città per evitare il passaggio dall’Epiro – più o meno l’attuale Albania -, ai tempi territorio selvaggio e infestato dai briganti. Sbarcato a Patrasso, la distanza che lo separava ad Atene era veramente irrisoria, considerando la strada già percorsa.
Arrivato nella Capitale il 31 marzo 1896, perfettamente puntuale e in forma, ecco la doccia fredda: Carlo Airoldi non poteva partecipare alla maratona perché atleta professionista. I giudici infatti sapevano della vittoria dell’italiano nella Torino-Barcellona, avvenuta nell’autunno precedente. Una gara estenuante di 1500 km, metro più metro meno, suddivisa in 12 tappe che premiò l’atleta lombardo con una coppa, una bicicletta e – soprattutto – 20 lire come rimborso spese. Aveva ricevuto un compenso per le sue prestazioni sportive: non era un amatore, era un professionista. Domanda di iscrizione respinta.
Per dimostrare la sua superiorità, Airoldi provò a correre lo stesso la distanza il giorno della gara gomito a gomito con i partecipanti ma venne placcato senza troppe cerimonie dopo pochi chilometri dagli intransigenti giudici greci. Resterà sempre un enorme rammarico nell’animo del nostro connazionale che sapeva di essere il più forte e di poter vincere la competizione. Ma i padroni di casa avevano altri piani per la maratona.
Il greco che non poteva perdere e la donna fantasma
Dunque, come abbiamo visto, De Coubertin e Brèal annunciarono la maratona, la gara di 40 km che avrebbe chiuso la prima rassegna olimpica moderna. Sì, 40 km, avete letto bene: la distanza ufficiale di 42 km e 195 metri sarebbe stata fissata solo qualche anno più avanti dopo varie vicissitudini. Ci arriveremo.
I greci, eliminata la scomoda concorrenza di Airoldi, avevano in casa il super favorito, Spyridon Louis, un pastore dei sobborghi di Atene, all’epoca arruolato nell’esercito greco. Distinguendosi per le sue doti atletiche e un’innata abilità nella corsa, Louis, convinto dai suoi superiori a iscriversi, preparò la gara con attenzione maniacale. La maratona, per quanto neonata, era la gara alla quale i greci tenevano più di tutte e lui non poteva fallire. Nelle settimane precedenti alla partenza trascorse le sue giornate a digiuno e in totale meditazione, estraniandosi completamente dal mondo: la posta in palio era davvero alta. Non solo l’eterna gloria ma, in caso di vittoria, gli era stata promessa la mano di una principessa e premi da capogiro.
Gli avversari di Louis non erano così temibili. Oltre ai connazionali – già consapevole di poter battere – erano iscritti Albin Lermusiaux, francese mezzofondista con scarsi risultati sulle gare lunghe, Edwin Flack, australiano specializzato sui 1500m, Arthur Blake, statunitense anche lui al primo approccio con la distanza e Gyula Kellner, ungherese e unico atleta con una discreta familiarità sui 40 km.
Al via gli stranieri partirono di buon passo, troppo buono per essere retto per tre ore di corsa. Louis, sempre aggiornato sul distacco dei primi, impostò una gara di attesa, preservando le forze per la seconda parte. Addirittura, come ostentazione di manifesta superiorità, si concesse il lusso di una sosta a metà percorso per sorseggiare un bicchiere di vino e conversare amabilmente con i locali.
Nel frattempo, nel gruppo di testa i chilometri cominciavano a farsi sentire sulle gambe e uno a uno caddero tutti ritirati. L’ultimo a cedere fu Blake che dopo 37 km alzò bandiera bianca da leader della corsa, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutto il popolo greco. Tra Louis e la vittoria non c’era più nessun ostacolo. Entrò trionfante nello stadio Panathinako, addirittura scortato negli ultimi metri dai figli di Re Giorgio. Per lui ad attenderlo la gloria eterna, i greci avevano un nuovo eroe nazionale.
Louis (in bianco) durante la parata dedicata ai vincitori nella cerimonia di chiusura dei Giochi.
La maratona – e non sarà solo quella di Atene a farlo, fidatevi – ci riserva però un ulteriore storia molto speciale. I più attenti di voi avranno notato che le donne non compaiono mai nel nostro racconto. Questo perché – secondo gli stessi ideali vittoriani che abbiamo già incontrato nel capitolo precedente – all’epoca alle donne non era permesso di immischiarsi nelle attività maschili. L’unica “libertà” concessa loro era un supporto incondizionato allo sforzo profuso da figli e mariti. Il Barone era uno dei più grandi sostenitori di questo dogma. Non tollerava la partecipazione femminile ai suoi Giochi e riuscì a escludere ufficialmente le donne fino ad Amsterdam 1928.
Una giovane greca, madre con un figlio di 17 mesi, però non era per niente d’accordo. Stamata Revithi, con il nome d’arte di Melpomene – la musa della tragedia – corse in solitaria la maratona il giorno stesso della gara, chiudendo la distanza in 5 ore e 30 minuti. Non poté entrare nello stadio perché non regolarmente iscritta ma si assicurò che i giudici le accreditassero il tempo. L’impresa della ragazza non compare sui registri olimpici ma rimasero scolpite nell’immaginario collettivo la sua caparbietà e la sua tenacia nell’andare contro le ingiuste regole dell’epoca.
E gli altri sport?
Ovviamente non è solo la maratona ad avere storie leggendarie. Per quanto riguarda le altre discipline dell’atletica, gli americani dominarono. La prima vittoria assoluta nelle Olimpiadi moderne, andò a James Connolly uno studente di Harvard di origini irlandesi, espulso dall’ateneo proprio per la sua richiesta di partecipazione ai Giochi. Ritiratosi dal college, Connolly sbarcò a Napoli dove ebbe il primo contatto con l’Europa: furto del bagaglio e del biglietto per Atene. Inseguito il ladro – che evidentemente non aveva scelto bene la sua vittima – riuscì a recuperare i suoi effetti, arrivare in fretta e furia in Grecia e vincere la gara di salto triplo, diventando il primo campione dal 393 d.C., anno di svolgimento degli ultimi Giochi Olimpici antichi. Harvard, visti i successi e il prestigio di Connolly, ritirò l’espulsione ma il ragazzo da buon irlandese orgoglioso, si rifiutò di avere ulteriori contatti con l’università.
Altro personaggio fondamentale di Atene 1896 fu Thomas Burke. Lo studente della Boston University, allenato da Mike Murphy, fu protagonista della prima vera innovazione olimpica. Prima dei Giochi infatti era consuetudine nelle gare di velocità partire in posizione eretta. Gli americani arrivarono in Europa e ribaltarono la prassi, introducendo la partenza rannicchiata – normalità negli sprint moderni.
Burke grazie al vantaggio dato da un primo passo in questa posizione più esplosivo, vinse i 100m e i 400m (unico atleta della storia delle Olimpiadi a riuscirci) suscitando non più di un dubbio da parte degli arbitri che non sapevano come giudicare la partenza. In un clima di incertezza e tensione ecco che arrivò – come nelle più classiche tragedie greche – il deus ex machina, il giudice ultimo di tutto le gare, Re Giorgio I. Sì, perché una delle idee vincenti del Barone fu proprio quella di nominare il sovrano, arbitro ultimo di ogni competizione: coinvolgendo la famiglia reale, entusiasta per questo onore, gran parte del successo dei Giochi venne assicurato. Giorgio I valutò la posizione di Burke e degli altri americani legittima in quanto dietro la linea dello start: la storia della velocità sarebbe stata riscritta per sempre.
Partenza della seconda batteria dei 100m. L’unico atleta in posizione accovacciata è Thomas Curtis
Per quanto riguarda il nuoto, i greci – alle prese con diversi grattacapi finanziari – si rifiutarono di costruire uno stadio dedicato come fatto con l’atletica, d’altronde con l’immenso Egeo a disposizione (13 °C la temperatura media dell’acqua), che senso avrebbe avuto costruire una piscina da zero? Ne nacquero distanze atipiche, sfruttando i riferimenti naturali a disposizione – banalmente gli scogli. Accanto ai tradizionali 100m, ad Atene 1896, si nuotarono distanze insolite come i 1200m. Ma tra tutte, la competizione che esaltò più il pubblico accorso numeroso nella baia di Zea, fu la gara riservata esclusivamente ai marinai greci. Tre soli partecipanti, per un evento che rimarrà unico nella storia e – ovviamente – mai più riproposto nelle edizioni future.
L’atleta di riferimento del programma di nuoto fu Alfréd Hajós, il delfino ungherese. Grazie all’idea di cospargersi uno strato di grasso su tutto il corpo, Hajós arginò parzialmente il problema delle gelide acque greche e con due vittorie conquistate divenne, a 18 anni, il campione più giovane della rassegna.
Altro sport con luci e ombre fu la lotta, forse la disciplina che più di tutte insieme alla corsa aveva un legame con le antiche Olimpiadi. Le regole però erano tutt’altro che chiare. Gli incontri non avevano un limite di tempo e le prese, così come i colpi concessi o proibiti, non erano così definiti. La finale tra il tedesco Carl Schuhmann e l’idolo di casa Geōrgios Tsitas andò decisamente per le lunghe, costringendo i giudici alla sospensione delle ostilità, rinviate al giorno successivo. Fortunatamente la seconda parte dell’incontro durò appena 15 minuti, con la vittoria di Schuhmann per un fallo tecnico dell’avversario.
Il cambio di disciplina
Come detto nel capitolo precedente, quando andiamo così indietro nel tempo spesso molte dinamiche possono sembrare assurde o poco logiche se lette con la nostra mentalità. Lo sport ovviamente non è da meno. Abbiamo visto che l’amatorialità era un principio assoluto per partecipare ai Giochi e, nel nome di questo concetto, gli atleti giunti ad Atene parteciparono a più discipline. Lo stesso Schuhmann, già campione nella lotta, si iscrisse a gare di atletica, sollevamento pesi e ginnastica (il suo sport principale), diventando con quattro primi posti, l’atleta più vincente dell’edizione.
Il caso più eclatante però è quello di Friedrich Traun, tedesco di Amburgo, arrivato ai Giochi per gareggiare nei 100m. In seguito a un’eliminazione prematura nelle batterie, le strade erano due: tornare mestamente a casa sapendo di aver sprecato una grande occasione oppure rimettersi in gioco in un altro sport. Traun, discreto tennista amatoriale, andò allora dagli organizzatori del torneo che lo accolsero a braccia aperte visto l’esiguo numero di iscritti.
Perse subito contro John Pius Boland, un britannico in vacanza ad Atene capitato per caso nel torneo, aggiunto all’ultimo momento da un amico. Non aveva con sé neanche le scarpe adatte e la racchetta ma ciò non gli impedì di vincere ugualmente la competizione e laurearsi primo campione olimpico nel tennis. Boland tuttavia rimase molto colpito dalla tenacia di Traun e lo convinse a partecipare al doppio: c’erano due greci da battere. Risultato? Traun, arrivato ad Atene per correre i 100m, passando per il tennis singolare, vinse il torneo di doppio.
Le prime Olimpiadi moderne furono nonostante tutto un grandissimo successo. Non si sapeva ancora bene cosa si stesse facendo e per cosa si stesse gareggiando ma l’idea di un evento sportivo globale che richiamasse atleti da tutto il mondo aveva stuzzicato le fantasie del pubblico. De Coubertin aveva vinto. Ora – come in tutte le sfide della vita – toccava compiere il passo più difficile: la riconferma. On se voit à Paris.
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