La vita di Sonny Liston è stata segnata dall’irrequietezza. Un carattere fragile e ondivago, forgiato da un’infanzia durata troppo poco, connotata dalla povertà e dalla necessità di lavorare per aiutare a portare in tavola il pane per una famiglia che gli ha negato amore e supporto. Una crescita precoce che troppo spesso porta alla criminalità. Nonostante sia stato un grande pugile, ciò che Liston ha lasciato ai posteri ha un retrogusto amaro, nascondendo la forza della natura che fu dietro una coltre di sospetti e voci sgradevoli, fino all’ultimo giorno trascorso sulla Terra.
Generalmente questa parte della storia dovrebbe contenere dei dati anagrafici, ma nel caso di Liston reperirli è un esercizio piuttosto complicato. Quel che si sa è che il ragazzo è nato in una piantagione di cotone della contea di St. Francis, in Arkansas. Il mezzadro era il padre Tobe, un uomo piuttosto avanti con gli anni, di scarsa cultura e ancor minore empatia ma che amava molto divertirsi sotto le coperte, riuscendo a raggiungere l’incredibile cifra di 25 figli da due mogli diverse. Ed anche Helen, seconda moglie di Tobe di quasi trent’anni più giovane e madre di Sonny, pareva avere la stessa passione, perché l’incertezza sulla data di nascita del giovane Sonny è in linea con il sospetto di una relazione extraconiugale da nascondere.
Non è un’incertezza sul giorno, badate bene, ma addirittura sull’anno di nascita. Ufficialmente la data attribuita è quella dell’8 maggio 1932 (quando il padre Tobe aveva 61 anni e la madre 33) ma Helen, con fare vago, diceva di ricordarsi che fosse gennaio. Nel censimento statale del 1940 si riferiva che Sonny Liston avesse 10 anni e i dubbi sarebbero aumentati anche al cospetto della giustizia, con cui il ragazzo avrebbe instaurato un rapporto piuttosto stretto. In occasione di un arresto ha dichiarato di essere nato nel 1928, in maniera poco credibile a causa dell’assenza del suo nome nel censimento decennale del 1930.
Anche il nome è fonte di sospetti: secondo la spiegazione ufficiale, Sonny sarebbe l’abbreviativo di Charles. Eppure il ragazzo aveva anche un altro fratello di nome Charles, tanto da far pensare ad un utilizzo dell’altrui identità, ancorché senza poterne avere certezza né dedurre la motivazione. Quel che invece è certo è che l’infanzia del ragazzo non è stata rose e fiori: mancavano i soldi e l’affetto dei genitori ma non i fratelli – Sonny era il secondo più giovane tra i 25 figli del mezzadro – né, purtroppo, una razione di violenza decisamente eccessiva, dato che Tobe era solito frustare Sonny, con un impeto tale che la schiena del ragazzo non sarebbe mai guarita: le cicatrici e le vesciche avrebbero accompagnato Sonny fino alla morte.
Per quanto il ragazzo lavorasse duramente, secondo il padre non era mai abbastanza, neanche a fronte della consapevolezza di aver strappato via l’infanzia ad un bambino perché “se può stare seduto a tavola può anche lavorare”. Visto l’impegno nei campi, di andare a scuola non se ne parlava, ragion per cui Sonny era analfabeta. Era quindi un braccio e non una mente, un uomo dedito a cercare occupazioni che prevedessero la fatica prima che il concetto. Una scelta agevolata da una fisicità e, soprattutto, una forza imponenti. Che in futuro sarebbero stati croce e delizia della sua esistenza.
Nel 1946, quando i genitori si separano, Sonny rimane con il padre. Tutt’altro che volentieri, si intende. Tobe pone il veto al suo trasferimento a St. Louis assieme alla madre e parte dei suoi fratelli perché con la forza che Madre Natura gli ha donato fa più che comodo all’ormai anziano padre. Ma Sonny non vuole stare con un uomo che, a suo dire, ha saputo dargli solo botte. Decide allora di rubare delle noci pecan dall’orto di uno dei cognati e di andare in città a venderle. Con il ricavato compra un biglietto dell’autobus e raggiunge la madre, circa un anno dopo la separazione e quando ha, quantomeno stando alle fonti ufficiali, circa 15 anni.
Ma St. Louis non è esattamente la terra delle opportunità, Helen lavora come operaia di una fabbrica e anche Sonny deve trovare il proprio posto nel mondo. Prova ad iscriversi a scuola ma torna sui suoi passi quando vede che i compagni lo prendono in giro perché non sa leggere. Dopo aver tentato di sbarcare il lunario con qualche sporadico lavoretto, la scelta ricade sulla delinquenza. Come detto, Liston è un ragazzo molto forzuto e viene immediatamente iniziato da alcune gang locali, che decidono di sfruttare questa caratteristica a loro vantaggio. Il giovane non brilla per arguzia, quindi la parte progettuale è rimessa ad altri membri delle gang, lui non deve far altro che eseguire pestaggi o immobilizzare le vittime delle rapine.
Tra gli indizi relativi allo scarso acume già menzionato c’è quello dell’abbigliamento. Liston esegue le sue attività criminali con la solita appariscente camicia gialla, che lo rende un soggetto di facilissima identificazione. Di lì a poco diventa il “bandito della camicia gialla” per la polizia locale ed in breve tempo iniziano a fioccare gli arresti. Il primo giro tra le sbarre dura anche parecchio, circa due anni e mezzo, e solo grazie alla libertà sulla parola a fronte di una condanna per cinque anni. Detenzione comunque accolta di buon grado dal giovane, che preferisce restarsene al fresco con vitto e alloggio pagati piuttosto che diventare un reietto in libertà.
La sua vita sarebbe cambiata a fronte di un episodio tipico della prigionia, una rissa. Quattro detenuti se la prendono con un giovane di colore che Liston difende, non solo tentando di riequilibrare numericamente la contesa ma addirittura rendendola squilibrata: troppo forte Sonny, che distrugge fisicamente gli avversari. Una notizia che giunge alle orecchie del direttore del Missouri State Penitentiary, che anziché punirlo sfrutta l’occasione per dargli una chance di redenzione e di recupero in vista del ritorno nel mondo esterno. Grazie all’aiuto del reverendo Alois Stevens, non solo cappellano ma anche preparatore atletico presso il carcere, propone a Liston di allenarsi su un ring per vedere se può diventare un buon pugile.
Trova anche una sponda interessante, quella di Thurman Wilson, un peso massimo non esattamente di primo livello ma un professionista, chiamato ad accompagnare il primo allenamento di Sonny. Che durerà molto poco, appena due riprese, prima che Wilson abbandoni il ring con la laconica frase “me ne vado, questo mi ammazza”. La strada per Liston è tracciata ma ancora decisamente scorbutica e piena di buche: quando esce dal carcere inizia la carriera da pugile dilettante, che non gli è sufficiente per campare. E quindi continua ad alternarla con la criminalità, talvolta di rimando: diventa guardia del corpo di alcuni boss della mafia locale e spende buona parte degli introiti in alcolici. Non gli è ancora semplice trovare un lavoro onesto ma perlomeno adesso la sua vita ha uno scopo.
Una delle tante foto segnaletiche di Sonny Liston
La carriera di Liston tra i dilettanti durerà decisamente poco, troppo forte per non ambire a palcoscenici più prestigiosi. Il primo incontro dopo la scarcerazione viene fissato ad ottobre 1952 e nell’anno seguente arrivano i primi riconoscimenti. A St. Louis si prende una rivincita contro una città che l’ha accolto ma anche rigettato, non offrendogli null’altro che il carcere: battendo ai punti Lloyd Willis si assicura il titolo di Missouri Golden Gloves. Ma il successo di maggior prestigio della sua carriera da dilettante è il titolo di Chicago Golden Gloves, ancora ai punti ma contro Ed Sanders, medaglia d’oro olimpica ad Helsinki 1952.
Nonostante non riesca a vincere il campionato nazionale dilettanti degli Stati Uniti, eliminato ai quarti di finale da James McCarter, Sonny Liston porta a casa altri due risultati di spessore: l’Intercity Golden Gloves, dove, in quanto detentore del titolo a Chicago, sconfigge l’omologo newyorkese Julius Griffin, e l’International Golden Gloves, conquistato a discapito del tedesco Hermann Schreibauer, bronzo agli Europei appena un mese prima e mandato al tappeto alla prima ripresa.
È il preludio allo sbarco tra i pro, ovviamente nella categoria dei pesi massimi: la data cerchiata di rosso nel calendario è il 2 ottobre 1953, contro Don Smith. Un incontro che dura appena 33 secondi: un mancino di Liston causa un taglio all’occhio che impedisce all’avversario di andare avanti. Le ragioni del suo sinistro di fuoco sono il pugno di ben 38 centimetri di circonferenza, una dimensione mai vista nel mondo della boxe professionale, e l’allungo di 2,13 metri, capace di conferire un’incredibile potenza ai suoi colpi e che sarebbe stato definito dal critico Nat Fleischer “un piccolo treno”. Insomma, Liston è una macchina da ring e nel giro di poco tempo gli avversari inizieranno a temerne la violenza e l’efficacia.
La prima sconfitta arriva all’ottavo incontro tra i pro contro Marty Marshall, avversario capace di spezzargli la mascella mentre Liston stava ridendo. Un episodio che segnerà il colosso dell’Arkansas, che da quel momento affronterà ogni incontro con un’espressione impassibile, capace di creare ulteriore condizionamento e spaventare i rivali già intimoriti dalla violenza dei colpi e dalla stazza dell’ex detenuto. Non che la mascella rotta rappresenti un freno: Liston continua a combattere fino al termine del match, vinto dal rivale solo per split decision. Questo incontro cambia l’approccio di Sonny, che decide di buttarsi ancora più a capofitto sulla carriera sportiva: nei sette match successivi ottiene altrettante vittorie, due delle quali proprio nelle rivincite con Marshall, una per decisione unanime e l’altra per KO tecnico alla sesta ripresa.
Quello che sembra l’inizio di una carriera roboante si scontra con una realtà molto dura. Come detto, Liston è vicino alla malavita locale e la polizia continua ad indagare su di lui, tanto da cercare dei pretesti per arrestarlo. E quello buono arriva il 5 maggio 1956, quando un agente intima a Sonny e un suo amico di spostare l’auto, apparentemente senza ragione, ricevendo un diniego come risposta dal pugile, intenzionato a farsi rispettare e soprattutto a non subire angherie: ha sempre accettato di buon grado il carcere e le ingerenze dell’autorità quando riteneva di meritarlo ma non avrebbe prestato il fianco a cavillosi appigli finalizzati a punirlo solo a causa delle amicizie che si è costruito.
Ne nasce una colluttazione, il poliziotto insiste e utilizza epiteti razzisti, una scelta decisamente poco felice visto chi ha di fronte: Liston lo disarma e lo picchia con violenza, causandogli la frattura di un ginocchio e varie ferite e tumefazioni al volto, fin quando viene fermato dai rinforzi mentre l’agente aggredito lo supplica di non ucciderlo. Anche i rinforzi si scagliano contro Sonny e solo dopo una strenua battaglia riescono a piegarlo, lasciando sul campo alcuni manganelli spezzati, alcuni dei quali sulla testa del pugile. Un episodio che ne mina ulteriormente l’immagine sociale, giornali e notiziari descrivono Sonny come un mostro impossibile da sedare anche con punizioni fisiche. Per lui si riaprono le porte del carcere: nove mesi di reclusione.
Il “piccolo treno”, lo strepitoso allungo mancino
Non è facile riprendere, per Sonny Liston. Quando viene scarcerato deve combattere con diversi nemici, alcuni già noti e altri inattesi. Tra i già noti ci sono i poliziotti, che continuano a tenerlo d’occhio e a cercare motivi per arrestarlo a causa dei rapporti che si è costruito in città con personaggi influenti e poco puliti. L’altro nemico è sportivo. Anzi, federale, dal momento che le varie federazioni pugilistiche non vedono di buon occhio un ritorno sulle scene di un personaggio tanto negativo. Il 1957 è appena iniziato e il ring sembra protetto da un filo spinato che lo rende inaccessibile a questo ragazzone indisciplinato ma voglioso di misurarsi con l’unica cosa onesta di cui è capace.
L’intero anno lo vedrà ai margini, senza possibilità di combattere, circostanza che gli fa pensare al ritiro e alla possibilità di crearsi una nuova vita con Geraldine, una ragazza di St. Louis conosciuta aspettando l’autobus e che nel corso di quell’anno sarebbe divenuta sua moglie. Anzi, il ritiro sarebbe cosa certa se non intervenisse nella storia di Liston un’altra figura di riferimento estremamente significativa. Curiosamente, come nel caso dell’inizio del suo rapporto con il pugilato, anche l’uomo che riesce a scongiurarne la fine è un ecclesiastico, nello specifico padre Edward Murphy, che lo convince a non demoralizzarsi e a riprovarci.
Un consiglio determinante, al pari della decisione di Sonny e la moglie Geraldine di trasferirsi altrove, a Philadelphia, per sfuggire al controllo della polizia divenuto ormai una sorta di accerchiamento. Finché nel 1958 arriva il via libera. Sonny Liston può tornare a seminare il terrore su un ring, in una modalità e con una continuità fin lì insospettabili, tali da renderlo uno dei nomi più in vista del panorama pugilistico mondiale.
Sonny su un bus con la moglie Geraldine
Il 1958 è un anno estremamente proficuo: otto incontri, otto successi, sei dei quali per KO prima del limite. Particolarmente impressionante il match in cui di fronte a Liston si para Wayne Bethea, un incontro rapido ma non indolore: un minuto e 9 secondi sul ring, un sinistro a referto per Sonny, sette denti in meno per il malcapitato avversario, con l’arbitro costretto a sancire l’immediato KO tecnico alla prima ripresa.
Se dal punto di vista pugilistico è l’anno della rinascita, lo stesso non si può dire di alcune scelte di vita, che continuano a manifestare il lato oscuro e debole del ragazzone dell’Arkansas. Che ha deciso di lasciare St. Louis per fuggire dalla polizia ma che non è riuscito a recidere il cordone ombelicale con la malavita, un demone che ancora controlla la sua esistenza. Tanto che il suo nuovo manager risponde al nome di Joseph Barone detto Pep, mafioso che funge da ponte tra Frankie Carbo – esponente di spicco dei Lucchese, una delle cinque famiglie che controllano la mafia newyorkese – e Frank Palermo, boss di Philadelphia molto attivo nel mondo del match fixing della boxe.
Il suo allenatore Johnny Tocco, inoltre, non condanna di certo il suo passato poco ortodosso:
La maggior parte dei suoi precedenti in carcere riguardavano violenza e possesso di armi. Viveva in strada e dava man forte alla gente nel tentativo di ottenere i soldi per guadagnarsi da vivere. Qualcuno avrebbe dovuto sostenerlo e non c’era, quindi ha fatto quello che doveva fare per guadagnarsi da vivere.
Neanche Geraldine ha saputo redimerlo ma stavolta le cose sembrano andare meglio. Vero, Barone non è un tipo raccomandabile ma la carriera sta spiccando il volo. La rivista specializzata The Ring lo piazza al nono posto tra i possibili sfidanti al titolo dei pesi massimi dopo quest’anno perfetto. Ed è solo l’inizio, perché anche il 1959 si conclude senza sporcare il foglio, pur con meno incontri: quattro match, quattro vittorie, di cui tre per KO e una per ritiro. Il match che lo consacra definitivamente è quello del 15 aprile 1959 contro Cleveland Williams, soprannominato Big Cat e ritenuto il più potente pugile al mondo.
Williams parte immediatamente all’assalto ma Liston mostra una inattesa maturità, attendendo con pazienza e resistendo all’iniziale sfuriata del rivale, fin quando non decide di sfatare un mito: il più potente al mondo è lui, non il suo avversario. Durante il secondo round inizia a sferrare colpi sia di mancino che di destro, che minano le certezze di Big Cat, mentre il terzo round sancisce il massacro: una serie di colpi manda al tappeto Williams, che viene contato fino a 8. Appena si rialza, Liston lo attende con un terrificante mancino che lo rispedisce immediatamente al tappeto: stavolta l’arbitro non conta, dichiarando conclusa la contesa per KO tecnico al terzo round.
A fine anno Liston è terzo nella graduatoria di The Ring. Sogna una chance per la cintura dei pesi massimi ma ancora non gli basta. Nel 1960 concede la rivincita a Cleveland Williams, che va KO all’inizio del secondo round. Quindi distrugge Zora Folley, secondo nella graduatoria degli sfidanti al titolo l’anno precedente e mandato al tappeto alla terza ripresa. A fine anno il computo è di cinque vittorie in cinque incontri ed il primo posto per The Ring tra i potenziali sfidanti del campione del mondo Floyd Patterson, che però pare non volergli concedere la chance titolata: per quanto sia un ottimo atleta, il campione in carica nasce peso medio e la differenza di fisico e forza con il pugile proveniente dall’Arkansas è troppo ampia, ragion per cui preferisce concedere la rivincita allo svedese Ingemar Johansson, con cui ha iniziato un lungo balletto fatto di scambi di cintura.
Serviranno quasi due anni per convincerlo, con altre due vittorie in due incontri per lo sfidante e addirittura l’intercessione del presidente John Fitzgerald Kennedy: durante un incontro alla Casa Bianca, JFK caldeggia un match che tutto il mondo sta attendendo con impazienza. “Con chi difenderà il titolo la prossima volta? Perché non Liston? È un avversario degno di lei”. Sarà per l’autorevolezza della fonte della richiesta o per l’incontrollata ridda di opinionisti e giornalisti che vi si accoderanno, ma sta di fatto che alla fine Patterson cede e accetta di difendere il titolo contro Liston.
Il secondo rendez-vous contro Cleveland Williams, concluso con una violenta raffica
È il 25 settembre 1962 la data scelta per un incontro inevitabile, quello che avrebbe messo Sonny di fronte al campione del mondo in carica. Il teatro dell’evento è un impianto sportivo di solito destinato a tutt’altro, il Comiskey Park di Chicago, stadio di baseball e casa dei Chicago White Sox. Davanti agli occhi del mondo intero si trovano due boxer con stili radicalmente opposti: Liston, elogio della potenza e della forza bruta, contro Patterson, elegante ed agile, la cui arma principale è la capacità di schivare gli attacchi avversari per poi colpire una volta scoperta la guardia. I pronostici, in maniera atipica, pendono dalla parte dello sfidante, troppo forte per il campione. Perfino quest’ultimo, soprannominato The Elegant King, ha sensazioni negative, tanto da inserire nel contratto un rematch in caso di successo di Liston.
Come detto l’avvicinamento alla prima chance iridata è tutt’altro che agevole per Sonny: il campione lo teme e usa tutti i possibili stratagemmi per evitare il confronto, finanche affidandosi al dileggio e ai rinvii per le commistioni mafiose dietro la carriera e l’entourage dello sfidante. Che, da par suo, decide di accettare un ingaggio nettamente inferiore a quello previsto per un incontro per il titolo pur di avere questa occasione, senza dimenticare la clausola del rematch, all’epoca più capestro che consuetudine.
I timori di Patterson sono fondati: al via, Liston lo aggredisce con un vigore fin lì mai visto anche al netto della forza inaudita mostrata per l’intera carriera. Dopo averlo colpito più volte, Sonny tenta un gancio destro che l’agile campione schiva. Tuttavia perde leggermente l’equilibrio e si espone al gancio sinistro dello sfidante, che lo investe come un treno in corsa: l’arbitro conta fino a 10, sono passati due minuti e sei secondi dalla campanella, Liston è il nuovo campione del mondo dei pesi massimi in appena una ripresa.
Non è l’unico cambiamento nella sua vita: al ritorno a Philadelphia, il neo-campione si aspetta celebrazioni che non gli verranno tributate. Quando l’aereo atterra sono pochi i giornalisti ad attenderlo. Anzi, la stampa si rivolge a lui con epiteti razzisti e offensivi, come Gorilla o Jungle Beast, senza dimenticare articoli che il ragazzo dell’Arkansas prende molto sul personale, su tutti uno di Larry Merchant del Philadelphia Daily News, che laconicamente commenta:
Il successo di Liston dimostra che, in una leale lotta tra il bene e il male, è il male a vincere.
Sonny non la prende bene, da quel momento rigetterà ogni tentativo di far colpo in positivo sulla stampa e l’opinione pubblica. Si sarebbe aspettato più supporto, quantomeno dalla comunità afroamericana e dai movimenti designati per offrirvi sostegno, che invece continuano a considerarlo poco più che un animale violento che reca danni alla loro battaglia. Non sarà mai il buono, quindi costruirà la propria immagine pubblica sul concetto opposto, ma non prima di rivelare al mondo la sua delusione, con una dichiarazione da cui traspare la grande amarezza per il trattamento riservatogli:
Non mi aspettavo che il Presidente mi invitasse alla Casa Bianca per farmi sedere accanto a Jackie e farmi giocare alla lotta con i piccoli. Ma non mi aspettavo nemmeno di essere trattato come un topo di fogna.
Si sente tradito e lascia la Pennsylvania per trasferirsi stabilmente nella città che ha ospitato il suo più grande successo, Chicago. Ma anche nella Città del Vento alcune disavventure lo segnano: dapprima un infortunio rallenta il suo ritorno sul ring, quindi l’ennesimo arresto, stavolta per guida in stato di ebbrezza, contribuisce a minarne ulteriormente l’immagine sociale, con il ragazzo dato nuovamente in pasto al pubblico come un mostro. Il rematch contro Patterson, disputato il 22 luglio 1963 a Las Vegas, è un altro bagno di sangue per The Elegant King: altro KO al primo round, stavolta l’incontro dura quattro secondi di più ma dopo che lo sfidante è stato mandato al tappeto per ben tre volte, devastato dai colpi di Sonny. Il pubblico fischia il successo del campione, ormai sempre più disprezzato. Per tutta risposta, ai microfoni lui non farà nulla per risultare accattivante:
Lo so che il pubblico è contro di me. Ma dovranno rassegnarsi e abituarsi, finché non ci sarà qualcuno in grado di battermi.
Di lì a poco, il campione del mondo intraprende un percorso per cercare di cambiare vita, ancora grazie a padre Edward Murphy, che lo convince a trasferirsi a Denver, dove adesso ha parrocchia e tenta di dare una seconda chance ai reietti e a chi ha problemi con alcool, droghe o criminalità. Liston accetta di buon grado, anche agevolato dall’inserimento nell’entourage di un grande campione del passato e suo idolo, The Brown Bomber Joe Louis, che vive proprio a Denver. Vuole ripulire la sua immagine sociale, ci prova un’ultima volta. Ma non ci riesce.
Dopo un’iniziale redenzione, con tanto di invito alla Casa Bianca da parte del nuovo presidente Lyndon Johnson e la partecipazione ad una manifestazione in favore dei diritti civili dei neri negli Stati Uniti, rifiuta di diventare simbolo del popolo afroamericano e di partecipare ad altre iniziative, in quanto, a suo dire, “non era un cane ammaestrato”. Fanno seguito una ricaduta nell’alcolismo, due arresti, due denunce per violenza sessuale. Sonny Liston è completamente schiavo dei suoi demoni, ha accettato di diventare il mostro che la stampa ha creato e contestualmente messo alla berlina. Ma al tempo stesso, la WBA (World Boxing Association) ritiene non ci siano avversari degni di lui, troppo forte sia per Patterson che per il suo eterno rivale Johansson. Nessuno sembra poterlo impensierire.
Il brutale rematch contro Patterson del 1963
Ci vuole un folle per spodestare il nemico pubblico sportivo numero uno degli States. Ed arriva un anno dopo, nel 1964. Si tratta di un giovane atleta di 22 anni, in rampa di lancio dopo aver vinto l’oro nei mediomassimi alle Olimpiadi di Roma nel 1960 ad appena 18 anni. Inizialmente pare un avversario poco credibile per il campione del mondo, vuoi per l’arrivo da una categoria di peso inferiore come nel caso di Patterson, vuoi perché, anche se imbattuto nei suoi primi 19 incontri, ha convinto poco nel suo primo match di alto livello contro Doug Jones nel 1963. Questo ragazzo si chiama Cassius Clay.
Visti i netti favori del pronostico, l’entourage di Liston convince il campione del mondo ad accettare. In quello specifico momento Cassius Clay è la vera sensazione del mondo della boxe e batterlo avrebbe permesso a Sonny di guadagnare più soldi, anche alla luce di una rivalità nata quando, appena terminato il secondo match contro Patterson, il giovane Clay aveva lasciato il suo posto tra il pubblico ed era salito sul ring di Las Vegas per lanciare un guanto di sfida con una spacconata:
Questo incontro è stato una farsa. Liston è un vagabondo e io sono il vero campione! Datemi quell’orrendo brutto orso!
Big Ugly Bear diventerà, da quel momento, il poco edificante soprannome di Liston, anche perché l’avvicinamento di Clay al match per il titolo viene contraddistinto da una campagna mediatica denominata “Caccia all’orrendo brutto orso”, mascherate da orso e addirittura una sorta di stalking con urla notturne fuori dall’abitazione del campione a Denver. Un atteggiamento da pazzo, che inizialmente porta Liston e la stampa a considerare il giovane pugile un mitomane poco pericoloso, sensazione accentuata dal fatto che, al momento delle visite mediche, accusa un picco di pressione per lo spavento non appena incrocia lo sguardo con Sonny. Per la prima volta l’opinione pubblica si schiera con Liston contro quel giovane sbruffone, sia in termini di simpatia che nei pronostici circa le effettive chance di successo, tanto che il grande Rocky Marciano si lancia in un anatema nei confronti dello sfidante:
Cassius Clay finirà come Patterson, non arriverà neanche alla fine della prima ripresa.
L’incontro si disputa a Miami il 25 febbraio 1964 e di lì a poco il pubblico torna ad osteggiare Big Ugly Bear. Già, perché Liston sale sul ring carico di odio nei confronti di Cassius Clay, che resiste fino alla fine del primo round grazie alla sua grande velocità ed agilità, diversamente da quanto pronosticato da Marciano. Ma con un inconveniente: i suoi occhi bruciano, all’angolo la sua vista è quasi completamente sparita perché i mafiosi al servizio del campione hanno spalmato sui suoi guantoni una sostanza urticante. Il pubblico inizia a solidarizzare con l’avversario, che non si arrende nonostante le difficoltà.
Alla sesta ripresa, lo sfidante prende il controllo del match e inizia a colpire con violenza Liston, che arriva tumefatto e barcollante all’angolo alla fine del round. La sua spalla è malconcia e lussata, lui vorrebbe continuare ma il suo staff e i medici non glielo permettono: l’ultima immagine di Liston da campione è quella di un pugile arrabbiato e deluso, che sputa via il paradenti mentre l’arbitro sancisce la sua resa per ritiro. Cassius Clay è il nuovo campione del mondo dei pesi massimi e grida al pubblico di essere il più grande di tutti. Iniziano a circolare voci relative ad una presunta combine a causa di un’anomala impennata di scommesse in favore di Clay nelle ore immediatamente precedenti all’incontro. E quel ritiro forzato non pare contraddire i sospetti.
Liston perde la corona al cospetto di Cassius Clay
Il contratto firmato per l’incontro per il titolo contro Cassius Clay prevede una clausola di rematch che, diversamente da quella pattuita da Patterson due anni prima, viene giudicata irregolare, anche per il sospetto che l’uscita di scena per ritiro fosse stata finalizzata ad arrivare a questo rematch e garantire più soldi a Liston. Da questo momento la rivincita diventa una sorta di odissea: dapprima la WBA squalifica Big Ugly Bear per un anno – poi ridotto a sei mesi – per l’apposizione della clausola irregolare e il mancato versamento delle tasse sui proventi dell’incontro disputato Miami. Una volta scontata la squalifica è la volta di un problema fisico del suo avversario, operato per un’ernia. Avversario che nel frattempo ha dato una svolta alla sua vita ed alla sua figura, abbracciando la religione musulmana e cambiando nome: da quel momento sarebbe stato conosciuto da tutti come Muhammad Ali.
A seguito della conversione, Ali viene privato del titolo dei pesi massimi, riassegnato in un match tra due pugili minori senza coinvolgere né lui né Liston. Il rematch sarebbe stato perciò valido solo per il titolo WBC, una giovane federazione che fin lì aveva associato i propri titoli a quelli della WBA. Accadimenti che rendono l’incontro poco appetibile, tanto che le principali sedi pugilistiche ne rifiutano l’organizzazione. Il rematch si disputa il 25 maggio 1965 a Lewiston, una cittadina del Maine con una piccola arena che in occasione dell’incontro sarebbe stata riempita per poco più della metà della capienza, tanto da causare una grossa perdita economica all’organizzatore dell’evento. Al disinteresse infatti si affiancano i timori di un possibile attentato, motivato dalla faida avviata tra Muhammad Ali e i seguaci di Malcom X, ucciso tre mesi prima da attivisti islamici collegati al gruppo Black Muslims di cui il pugile fa parte.
Liston, dal canto suo, non si presenta a Lewiston nelle condizioni in cui tutti erano abituati a vederlo. Sembra un uomo anziano e fuori allenamento, circostanza che lo rende nettamente sfavorito. Il match inizia e arriva ad un punto di svolta dopo un minuto e 44 secondi del primo round: Ali colpisce l’avversario con un destro piuttosto debole ed interlocutorio ma che manda al tappeto Big Ugly Bear. Il campione rivelerà in seguito di non essersi neanche accorto di averlo colpito, motivo per cui il colpo inferto è oggi conosciuto come Phantom Punch, ossia “pugno fantasma”.
Ritenendo si trattasse di un mezzuccio usato a suo svantaggio, Ali si porta al cospetto dell’avversario a terra, invitandolo con vigore a rialzarsi, in quella che è divenuta un’immagine iconica della carriera del grande campione. Mentre Ali insulta Liston, l’arbitro si adopera per allontanarlo, di fatto distraendosi dal conteggio portato avanti dal tavolo dei giudici e permettendo allo sfidante di rialzarsi dopo 12 secondi dall’atterramento: è un giornalista di The Ring ad intervenire e far notare all’arbitro quanto accaduto. A quel punto l’incontro viene inevitabilmente interrotto, con il successo di Muhammad Ali per KO alla prima ripresa tra i fischi del pubblico, convinto che si tratti di un’altra combine, un sospetto alimentato dagli ormai notori rapporti tra Sonny e le famiglie mafiose attive nel match fixing.
La stampa stavolta si schiera apertamente in difesa del gigante dell’Arkansas, perfino quel Larry Merchant che lo aveva ferito quando divenne campione sostiene che il colpo c’è stato e che quella della combine è solo una leggenda messa in giro per il pregiudizio nei confronti del pugile e per l’idea che fosse quasi imbattibile. Secondo gli addetti ai lavori, la scarsa forma ha determinato quel tracollo ma il sospetto del gioco d’azzardo non sarà mai cancellato. E tornerà con prepotenza in futuro, alimentato dalle dichiarazioni dell’ex allenatore Tocco che avrebbe confermato con certezza l’esistenza della combine.
Muhammad Ali inveisce al cospetto di Sonny Liston dopo il controverso Phantom Punch
Oltre un anno dopo il Phantom Punch, a seguito di sporadici match di esibizione e di un momentaneo trasferimento in Svezia, Liston torna su un ring in un incontro ufficiale per sfidare il tedesco Zech a Stoccolma. Inizia una nuova fase della sua storia sul ring, una seconda giovinezza che lo vede imbattuto nei quattro incontri disputati tra il 1966 e il 1967. E proprio nel 1967 riottiene la licenza per combattere negli Stati Uniti, si trasferisce a Las Vegas e inizia a lavorare duramente per un obiettivo: conquistare nuovamente la corona di campione mondiale dei pesi massimi, nel frattempo tornata a cingere la vita di Ali.
Non è più giovanissimo ma, rinvigorito dall’amore ricevuto dal pubblico svedese, Sonny è tornato a macinare e a credere in se stesso e nelle proprie chance, pur consapevole che rientrare in patria significa riprendere le vecchie abitudini, scontrarsi con i pregiudizi e le opinioni tranchant di una stampa che non l’ha mai visto di buon occhio. E infatti l’opinione pubblica insinua il primo dubbio, ossia che gli incontri sin lì disputati fossero “roba facile”, organizzata per nascondere il tracollo fisico dell’ex campione del mondo. La forza di volontà non gli manca e l’occasione per smentire tutti si presenta il 6 luglio 1968, quando di fronte a lui sul ring si para il giovane Henry Clark, boxer in rampa di lancio: Liston lo massacra.
Big Ugly Bear vorrebbe lottare per il titolo, nuovamente divenuto vacante a seguito della condanna a carico di Ali per non aver risposto alla leva obbligatoria. Eppure la WBA lo snobba, non lo considera più un pugile credibile nonostante a fine anno si issi al quinto posto nella graduatoria degli sfidanti al titolo di The Ring. Una chance arriva per un titolo minore, quello di campione nordamericano. Ma la federazione non concede l’occasione a cuor leggero e prepara una trappola a Liston, avvisandolo solo due settimane prima del match, in un momento in cui Big Ugly Bear sta sfruttando la sua notorietà per partecipare come ospite a una serie tv.
L’avversario è Leotis Martin. Sarebbe un bersaglio semplice, dal momento che in passato è stato un suo sparring partner, se non fosse al massimo della forma e soprattutto a conoscenza dell’incontro da tempo, a differenza del rivale. Il 6 dicembre 1969 Sonny è carico, picchia fortissimo il suo avversario che però rintuzza e resiste, nel tentativo di portare il match più avanti possibile ed approfittare della carente forma fisica del favorito. E ci riesce, mandandolo KO alla nona ripresa con un destro bestiale. Un titolo che Leotis Martin non si godrà e tornerà immediatamente vacante: la violenza dei colpi di Liston gli ha causato un distacco della retina, che lo porterà a ritirarsi dall’attività agonistica.
Anche la carriera di Liston sembra volgere al termine, tanto da annunciare un ritiro che risulterà solo momentaneo: a giugno del 1970 si presenta l’opportunità di sfidare, seppur con in palio un premio risibile, un pugile non più giovanissimo ma in striscia positiva, The Bayonne Bleeder Chuck Wepner, così chiamato per l’inclinazione a sanguinare molto. Una tendenza che sarà confermata anche durante questo incontro, perché Wepner viene massacrato da Sonny, tanto da riportare la frattura del setto nasale, lo sfondamento di un timpano e la necessità di 72 punti di sutura al volto. Davey Pearl, amico di Liston e membro del suo entourage, racconta che la brutalità del pestaggio aveva messo paura perfino al suo esecutore:
Al quinto o sesto round Sonny mi ha avvicinato per dirmi una cosa che mai pensavo di sentire da lui: “Ho paura a picchiare ancora questo tizio”. Lo aveva colpito troppe volte in faccia.
È la vittoria che teoricamente rilancia le ambizioni di Sonny per il titolo. Non sarà così perché anche l’avvicinamento al match con Wepner nasconde del torbido. Iniziano a girare voci di scommesse pesantissime sulla vittoria del suo avversario e su pressioni esercitate da malavitosi affinché perdesse, come conferma anche l’allenatore Johnny Tocco:
Due giorni prima del match due tizi della malavita lo hanno avvicinato. Credo che a Sonny sia stato chiesto di perdere l’incontro. Mi sembrava che volessero la vittoria di Chuck Wepner e l’unico modo per assicurarsela era coinvolgere Sonny.
Ma Liston non ascolta i consigli, quella violenza inaudita sul volto del povero Wepner racconta proprio la voglia di ribellione, di insubordinazione nei confronti di quei demoni che troppo spesso l’avevano limitato. Un’insubordinazione che avrebbe pagato molto caro.
Chuck Wepner distrutto da Liston
Sono i primi giorni del 1971, Geraldine è di rientro da un viaggio a St. Louis, dalla sua famiglia, cui aveva fatto conoscere il figlio adottivo Daniel. In fretta e furia, perché da qualche giorno sta chiamando il marito senza ottenere risposta. Quando entra in casa lo trova disteso sul letto, in mutande: Sonny Liston è morto, in cucina ci sono tre buste di eroina, tutto fa pensare ad un’overdose e anche la versione ufficiale della polizia va in quella direzione. Una spiegazione che inizia a vacillare molto presto: seppure avesse vizi e fosse tutt’altro che un santo, Big Ugly Bear non si è mai drogato.
Senza contare che quel grande uomo aveva una sola paura: gli aghi, una fobia tanto potente da farlo reagire in maniera isterica anche durante le visite ospedaliere che prevedessero punture. Figuriamoci, quindi, se avrebbe scelto un’iniezione per iniziare con le sostanze stupefacenti. Di lì a poco molti dubbi vengono a galla, la moglie nega categoricamente che il defunto campione abbia mai fatto uso di sostanze stupefacenti, la governante Mildred si spinge oltre, dichiarando:
So per certo che il signor Liston aveva dei nemici. Non voleva mai fare iniezioni, neanche per il raffreddore o l’influenza, perché odiava gli aghi. Era un uomo forte e sano, non era depresso, certamente non era incline al suicidio. In qualche modo credo che qualcuno di quei nemici lo abbia ucciso. E non credo che un uomo solo avrebbe potuto farlo. Sono sicura che ce ne siano voluti diversi.
Eppure dall’autopsia, che stabilisce l’avvenuta morte già dal 30 dicembre 1970, emergono la presenza di fori da ago sul braccio e di eroina nel sangue ma non in quantità tali da causarne il decesso, ancorché teoricamente idonee a causare danni irreversibili in un corpo non avvezzo all’assunzione di droghe. Ma chi lo conosceva non è convinto, Davey Pearl e l’allenatore Johnny Tocco ribadiscono quanto già affermato dalla governante circa l’odio degli aghi e il rifiuto anche di recarsi dal dottore pur di non correre il rischio di iniezioni, mentre l’amico Lem Banker dichiara:
Penso che Sonny sia stato assassinato. Credo che qualcuno gli abbia promesso una sorta di accordo, lui non aveva alcun reddito e frequentava la gente sbagliata. Gli avevo detto di stare lontano da queste persone.
Le teorie della stampa sono molteplici, tra chi sostiene che sia stato drogato con una bibita e assassinato con un’iniezione quando già aveva perso i sensi e chi invece rilancia con la teoria dell’hot shot, ossia la costrizione all’assunzione di droga sotto minaccia di omicidio fino ad una dose letale. Ancora oggi la vicenda è avvolta nel mistero, l’unica certezza è che solo al momento della morte è stato tributato a Liston un po’ di rispetto. Il 7 gennaio 1971 l’amico sacerdote Edward Murphy, che più volte aveva tentato di salvarlo, celebra un funerale iniziato con tanto di corteo sulla Strip di Las Vegas. Vi presenziano oltre 400 persone, tra cui molti volti noti dello spettacolo e del pugilato, compresi l’amico Joe Louis e il grande rivale Muhammad Ali.
In quella casa nella Città del Peccato si è spento un grande campione, amato da una moglie che non ha mai mancato di specificarne una bontà d’animo apprezzata da chiunque l’abbia conosciuto. Ma anche un uomo che proprio del peccato ha fatto il suo grande limite e il rimedio alla fragilità in gioventù, che non si è mai sentito amato e accettato neanche quando ha saputo emergere grazie alle cose buone della sua vita. Alla luce dei 19 arresti e di oltre 200 denunce, la stampa e la letteratura postuma non hanno lesinato nell’attribuzione di appellativi dolorosi e lesivi, arrivando addirittura ad accomunarlo al diavolo. La lotta contro i demoni che hanno afflitto Sonny Liston ha finito per concluderne prematuramente l’esistenza terrena e ricordare a tutti ciò che realmente era. Una definizione di due semplici e potenti parole, riportate sulla sua lapide al Davis Memorial Park di Las Vegas:
A Man.
Un Uomo. Ecco cos’era Sonny Liston, pur sopraffatto dai suoi demoni
Puntero è gratis e lo sarà sempre. Vive grazie al sostegno dei suoi lettori. Se vuoi supportare un progetto editoriale libero e indipendente, puoi fare una piccola donazione sulla piattaforma Gofundme cliccando sulla foto qui sotto. Grazie!
Corvino ci aveva visto lungo, ma non gli hanno dato retta.
Un nuovo spazio dove gli appassionati di sport potranno sentirsi a casa, sempre.
E se Calcutta avesse dedicato ogni traccia del suo nuovo disco alla nostra Serie A?
L'inesorabile ascesa della nuova star in the making del tennis americano.
In uno Stato pieno di problemi, il calcio ha rappresentato l'unica via d'uscita.
Come è cambiata tatticamente la squadra di Juric e come dovrà ancora cambiare.
This website uses cookies.