Dorando Pietri, ad un passo dalla leggenda

Dorando - Puntero

Se è vero che la maratona olimpica del 1904 a St. Louis ha avuto risvolti tragicomici tali da obbligare il CIO a prendere dei provvedimenti, è altrettanto vero che non tutti gli aggiustamenti hanno funzionato sin da subito. Ed è proprio in questo scenario imperfetto che appena quattro anni dopo, alle Olimpiadi di Londra del 1908, nasce il mito di Dorando Pietri. Un atleta incredibile, entrato nella storia grazie ad una gara connotata da cuore, grinta, passione e fatica. Un campione cui, nonostante abbia tagliato per primo il traguardo, è mancato l’alloro più grande, sottratto nel nome di un regolamento così asettico da non piegarsi alla poesia di un momento in cui eroicità e totale assenza di colpa hanno consegnato il maratoneta azzurro alla leggenda come figura meritevole di lode, non certo come antesignano di Ben Johnson. Ma soprattutto un uomo che ha vissuto come ha corso: rovinando tutto poco prima del traguardo.

 

Origini del mito

Dorando Pietri nasce a Correggio il 16 ottobre del 1885. Di professione garzone di una pasticceria, Madre Natura non gli ha donato un fisico capace di trasmettere autorevolezza, dall’alto, si fa per dire, dei suoi 159 cm. Ciò però non gli impedisce di amare e praticare lo sport, entrando a far parte sin da ragazzo della società La Patria Carpi, gruppo sportivo emiliano attivo in varie discipline. Inizialmente la scelta ricade sul ciclismo, in cui dimostra talento pur senza eccellere. Tuttavia le cose cambiano quando, per limitazioni fisiche ma anche per paura, è costretto a rinunciare alle due ruote a causa di un infortunio derivante da una brutta caduta durante una gara locale. È quello il momento in cui il giovane sposta il mirino sulle corse di resistenza, con risultati sin da subito migliori di quelli raggiunti in sella ad una bicicletta. La pietra angolare su cui verrà eretta l’intera storia di questo ragazzo viene posata durante una gara dilettantistica del 1904, disputata proprio a Carpi sulla distanza dei 10 km, che vede tra i partecipanti anche il noto fondista azzurro Pericle Pagliani. La leggenda narra di un Pietri ai nastri di partenza con ancora indosso il grembiule da lavoro, ovviamente ben lungi dall’essere tra i favoriti della corsa. Sta di fatto che per l’intera gara Dorando tiene il passo di un campione come Pagliani, un risultato prestigioso che dà voce e vigore alle sue ambizioni.

Pochi giorni dopo esordisce in una gara ufficiale sulla distanza dei 3000 metri a Bologna, piazzandosi al secondo posto. È l’inizio di uno splendido viaggio che nel giro di pochi anni gli regalerà grandi soddisfazioni, il giusto abbrivio per intraprendere con successo la strada del fondo e del mezzofondo in un’epoca in cui l’agonismo è riservato principalmente ad atleti non professionisti, avvezzi a praticare sport solo nel tempo libero. Quando il lavoro glielo permette, Dorando è una macchina da guerra e nel 1905 ecco il primo sigillo di prestigio, il titolo di campione italiano nella 25 km a discapito di un atleta non giovanissimo ma blasonato come Giacinto Volpati. Ma l’ora in cui la sua carriera spicca definitivamente il volo scatta l’anno seguente: nel 1906 un giornale sportivo transalpino denominato L’Auto, già organizzatore del Tour de France, si fa promotore di una maratona internazionale dei dilettanti a Parigi, cui il giovane garzone vorrebbe partecipare. Il problema è economico, un fattore non irrilevante per un umile lavoratore che non trova la sponda di nessuno sponsor per poter partire alla volta della Ville Lumière. Messa alle strette, La Patria Carpi decide di alzare l’asticella e richiedere un sussidio nientemeno che al re:

Siamo certi che Voi, o Sire, che siete così caldo propugnatore degli sports, non vorrete negare l’ambito appoggio.

L’appello non cade nel vuoto, Re Vittorio Emanuele III finanzia la spedizione che si rivela un successo: al traguardo Dorando precede di oltre sei minuti il più diretto inseguitore, il beniamino di casa e favorito della vigilia Bonheure. Successo bissato nella maratona di qualificazione ai Giochi Olimpici intermedi di Atene del 1906, evento cui Pietri si presenta come favorito. E ha in mano il successo anche nella capitale greca quando, dopo oltre 24 km, è costretto al ritiro per problemi di digestione. È solo un inghippo che non scalfisce alcune granitiche certezze, ossia che ci troviamo di fronte al miglior fondista italiano e che si tratta dell’uomo giusto su cui puntare per tentare la corsa all’oro olimpico a Londra 1908.

 

Londra 1908 e percorso di gara

I Giochi della IV Olimpiade dell’era moderna prendono il via con il discorso di Re Edoardo VII il 27 aprile 1908. La struttura dell’evento è molto diversa da quella attuale: mentre oggi le Olimpiadi durano due settimane, a Londra la manifestazione ha un programma di addirittura sei mesi, con chiusura il 31 ottobre. La delegazione tricolore che prende parte ai Giochi è di tutto rispetto, ben 67 azzurri oltre al portabandiera Pietro Bragaglia. Un numero che oggi può apparire minimo ma che ha tutt’altra valenza analizzando il periodo storico: nelle prime tre edizioni delle Olimpiadi l’Italia aveva portato cumulativamente appena 12 atleti, peraltro disertando totalmente l’edizione di St. Louis del 1904. La spedizione, anche alla luce della diluizione semestrale e della conseguente esigenza di organizzare diversi viaggi fino al Regno Unito, rende necessario non solo l’aiuto economico di Re Vittorio Emanuele III ma anche una serie di raccolte fondi che permettano ai singoli sportivi di prendere parte alle loro competizioni.

Alla maratona olimpica partecipano 56 atleti, in sostanziale aumento rispetto al tragicomico appuntamento di quattro anni prima. Sebbene in maniera meno marcata rispetto alla gara di St. Louis, la nazione più rappresentata è quella ospitante. Dorando Pietri è l’alfiere dell’atletica azzurra ed uno dei due prescelti per tentare l’assalto all’oro assieme ad Umberto Blasi. In Italia la fiducia riposta nel 23enne pasticcere correggese è altissima eppure, nonostante un rendimento di prim’ordine, nel Regno Unito viene snobbato al cospetto di altri presunti favoriti: oltre ai padroni di casa e agli statunitensi, gli occhi del mondo si posano sul Britannia Bulldog Tom Longboat, nativo americano di etnia Onondaga e proveniente dalla Riserva delle Sei Nazioni, ancora oggi considerato uno dei più grandi atleti pellirossa della storia e presente ai nastri di partenza sotto le insegne canadesi.

La prima innovazione, che di lì a breve diverrà consuetudine, è data dalla lunghezza del percorso di gara. Inizialmente la corsa, con partenza dal castello di Windsor e arrivo al White City Stadium, avrebbe dovuto disputarsi sulla distanza delle 26 miglia, pari a 41,843 km. Tuttavia la presenza sugli spalti del re e della consorte influisce sulla lunghezza del percorso, dal momento che l’organizzazione di gara decide di allungare il tracciato per fissare il traguardo proprio innanzi al palco reale, per una complessiva distanza di 42,195 km, che diventerà la misura di tutte le maratone (sebbene ufficializzata solamente nel 1921). La partenza viene fissata alle ore 14.00 anziché di mattina, decisione motivata dalle temperature mediamente basse della City londinese.

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Un’immagine del vecchio White City Stadium, abbattuto nel 1985 per far spazio agli studi televisivi della BBC

 

La gara

Diversamente dalle attese del comitato organizzatore e in quella che di fatto rappresenterà, pur involontariamente, una diabolica perseveranza rispetto a quanto avvenuto quattro anni prima, la giornata del 24 luglio 1908 è molto calda rispetto agli standard britannici, clima che non rende agevole la maratona. Come da pronostico, vuoi per il maggior numero di esponenti o per le aspettative capaci di generare una grande carica agonistica, già dalle prime battute è la delegazione britannica a rubare la scena, portando davanti a tutti tre atleti: Fred Lord, Jack Price e soprattutto Thomas Jack, che imprime un ritmo tanto forsennato alla corsa da far pensare ad un primo e precoce tentativo di fuga. Alle loro spalle il plotone è compatto e gli stranieri più quotati, Tom Longboat e lo statunitense Johnny Hayes, ne rimangono alla guida, pur non unendosi allo strappo dei padroni di casa e limitandosi a controllare a distanza. Assieme a loro anche il nostro Pietri detta l’andatura del gruppo, attento a non perdere di vista i due accreditati rivali. La mini-fuga di Jack dura poco: sebbene il tentativo apparisse molto avventuroso a prescindere dalle condizioni da gara, è il caldo insopportabile a renderlo inefficace. Dopo appena 5 miglia dallo start, l’ex leader della corsa crolla e viene superato dai due connazionali. Riassorbito dal gruppo, si ritira dopo altre due miglia. Appena un miglio più tardi anche il nostro Umberto Blasi alza bandiera bianca.

La corsa procede regolarmente, con sporadici ritiri per il caldo e senza grossi colpi di scena fino a metà del percorso, con il britannico Jack Price a guidare la classifica provvisoria. Ma la sua leadership è destinata a durare ancora per poco. Già nel primo chilometro dopo il giro di boa Price inizia a perdere terreno e davanti a tutti si para il sudafricano Charles Hefferson, che mette il turbo e inizia a seminare gli avversari, dando il via a quella che pare essere una fuga non solo ragionata ma addirittura decisiva. Dopo 24 km Hefferson è al comando con due minuti di margine sulla coppia composta da Dorando Pietri e Longboat, che nel frattempo hanno preso un vantaggio rassicurante sul gruppo e sul temibile Hayes. Minuti che diventano tre e mezzo dopo 32 km. Neanche 500 metri dopo l’azzurro resta solo: il leggendario Longboat, non è chiaro se perché scoraggiato dal distacco, perché convinto di trarne energia o solo per un eccesso di guasconeria, accetta champagne da uno spettatore. Le bollicine e la bevanda ghiacciata ingerita gli causano un’indigestione che lo costringe al ritiro. Sembra il preludio ad una vittoria facile ma Hefferson inizia a calare e per risollevarsi accetta anche lui di rinfrescarsi con una bibita gelata. Al tracollo fisico già in corso si affiancano seri problemi di digestione, il sudafricano va in crisi e la notizia giunge alle orecchie del nostro Dorando, che decide di forzare per andare a prendersi l’oro.

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Dorando Pietri nel mezzo della maratona olimpica, seguito in bici dal suo entourage

 

Inizia la volata che consegnerà il maratoneta alla leggenda. Non pago del ritmo serrato impresso per tenere a distanza gli inseguitori, accelera ulteriormente e minaccia il leader della corsa, come uno squalo che sente l’odore del sangue della preda. Si avvicina gradualmente alla testa, iniziando a vedere Hefferson ai 38 km. L’approssimarsi del sudafricano carica ulteriormente l’azzurro, che decide di continuare a spingere fino allo straordinario sorpasso all’altezza dello Wimbledon Queue Bridge: a meno di 2 km dal traguardo, Dorando sta per compiere un’impresa titanica. Hefferson dietro di lui crolla non solo fisicamente ma anche psicologicamente, devastato per un sogno che sta sfumando nonostante fosse vicinissimo ad essere esaudito, e viene superato anche da Johnny Hayes. Il nostro connazionale ha un vantaggio consistente e si avvicina allo stadio per l’ultimo tratto di gara ma, anziché gestirsi, continua a volare sulle ali dell’entusiasmo. In un’intervista al Corriere della Sera, in seguito, dirà:

Mi sono dominato sinché avevo dinanzi a me qualcun altro; ora che la via è libera non so più frenarmi. Passiamo fra due ali di pubblico che vedo ma non odo. Vedo là in fondo una massa grigia, che pare un bastimento col ponte imbandierato. È lo stadio. E poi non ricordo più.

Già, non ricorda più. All’arrivo allo White City Stadium l’azzurro ha acquisito un vantaggio enorme ed inimmaginabile, superiore ai dieci minuti rispetto al più diretto inseguitore a causa dell’ulteriore aumento del passo di gara una volta preso il comando. La lucidità è carente, entra nello stadio ma sbaglia strada. I commissari gli dicono dove deve andare, torna sulla giusta via e si accinge a percorrere una porzione di percorso esigua, appena 325 metri. Ma cade. È stremato e confuso ed è solo l’inizio del calvario. I giudici lo aiutano a risollevarsi, Pietri prova a ripartire ma cade ancora. E succederà altre tre volte, per un totale di cinque cadute, capaci di fargli perdere molto tempo e per le quali servirà l’aiuto anche dei medici per rimettersi in piedi.

Il pubblico rumoreggia, si teme per la vita dell’azzurro a causa dello sforzo sovrumano, al punto che l’organizzazione di gara inizia a chiedere alla Regina Alexandra di Danimarca, moglie di Edoardo VII, di abbandonare il palco reale, in modo da evitarle di assistere alla cruenta scena della morte di un atleta in pista. Ma la regina, come tutta la platea, si è appassionata all’avventura di quel generoso ragazzo e non lascia la tribuna. Il vantaggio è talmente ampio che, nonostante la percorrenza dell’ultimo tratto interno allo stadio in ben 9 minuti e 46 secondi, Dorando Pietri vince la maratona olimpica e taglia il traguardo barcollando, con un passo incerto, assistito ai propri fianchi da un giudice di gara col megafono e da un medico. Uno sforzo che dovrebbe consegnarlo al mito e garantirgli un record olimpico ed una medaglia d’oro che non arriveranno mai: con 32 secondi di ritardo taglia il traguardo Hayes e la squadra statunitense presenta immediatamente ricorso contro il vincitore. Proprio come il connazionale Hicks aveva vinto l’oro a St. Louis quattro anni prima grazie al supporto fisico dei giudici di gara, oggi il vincitore della gara è stato risollevato nei momenti di intensa crisi nel finale. Un aiuto ritenuto illecito dalla delegazione al seguito di Hayes, con cui i giudici di gara si trovano a dover concordare: se prima hanno aiutato il nostro Dorando, adesso lo affossano, squalificandolo e cancellando dagli almanacchi un’impresa colossale. L’oro va a Hayes, davanti al sudafricano Hefferson ed al connazionale Forshaw. Una gara leggendaria e, nonostante l’alloro mancato, l’inizio di un mito.

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L’iconica immagine del taglio del traguardo con giudice e medico a fare la guardia a Dorando Pietri

 

Da Doyle agli Stati Uniti

Non tutto il male verrà per nuocere, per Dorando Pietri. Tra gli avventori dello White City Stadium c’è anche un nome noto della letteratura inglese, Sir Arthur Conan Doyle, la mente dietro il mito di Sherlock Holmes. Presente come cronista di gara per il Daily Mail, rimane impressionato dalla condotta di gara di quel piccolo ma coriaceo pasticcere di Correggio e decide di farsi portavoce dell’amore del popolo per questo sfortunato corridore. Quanto riportato dallo scrittore sulle colonne del quotidiano dà la dimensione non solo dell’impresa ma anche della sensazione suscitata dal nostro atleta:

Nessun romano antico seppe cingere il lauro della vittoria alla sua fronte meglio di quanto non l’abbia fatto Dorando nella Olimpiade del 1908. La grande razza non è ancora estinta. Il Dorando è degno infatti degli antichi trionfatori del Colosseo. Coloro che erano ieri nello stadio e videro la conclusione della gara, penseranno sempre, anche quando ogni altro ricordo dell’Olimpiade sarà scomparso, alla visione di quel viso smorto, di quegli occhi senza vita, di quelle povere gambe rosse, annaspanti nell’eroico sforzo per la vittoria. La squalifica del Dorando è una vera tragedia. Ma vi sono premi più ambiti del ramo di quercia offerto dal Re o di una medaglia. La meravigliosa performance dell’italiano non potrà mai cancellarsi nella nostra memoria e rimarrà scolpita per sempre negli annali sportivi.

Ma non sono solo le parole di Doyle a gratificare l’emiliano. Il giorno seguente alla gara, mentre i primi tre classificati ufficiali ricevono la loro medaglia, anche il nuovo eroe del pubblico presenzia allo White City Stadium ed è la Regina Alexandra in persona a conferirgli un premio speciale: una coppa d’argento, con una targhetta celebrativa della sua impresa (“A Pietri Dorando – In ricordo della maratona da Windsor allo stadio – 24 luglio 1908. Dalla Regina Alessandra”). L’azzurro viene anche tributato con una standing ovation, trattamento ben più caloroso di quello riservato ad Hayes e che chiarisce una volta per tutti quale sia stato il vero vincitore della gara, quantomeno per il sentimento popolare. Senza dimenticare il lato economico: grazie al Daily Mail, Arthur Conan Doyle promuove una colletta, quasi come segno di riconoscenza del pubblico nei confronti di un tale atto di coraggio e forza di volontà:

Sono certo che molti di coloro che videro lo splendido sforzo nello stadio in cui egli mise quasi a repentaglio la sua giovine vita, saranno contenti di sapere che lasciando Londra porterà con sé il ricordo dei suoi ammiratori inglesi.

Doyle si è documentato, sa che il sogno di Pietri è quello di aprire una propria panetteria e decide di aiutarlo con questa raccolta fondi, da lui avviata versando 5 sterline. Alla fine grazie al pubblico inglese viene raccolta la non irrilevante somma di 300 sterline, che al netto di inflazione e cambio valuta equivarrebbe ad oltre 37.000 euro del giorno d’oggi.

Ma la panetteria può attendere: l’epilogo tragico della maratona ha contribuito a rendere Dorando Pietri un mito in giro per il mondo e non solo in patria ed in Inghilterra, tanto da ricevere proposte di ingaggio per alcune corse speciali da disputarsi negli Stati Uniti. Il giovane pasticcere accetta di buon grado, unendo il dilettevole dell’amore per la corsa all’utile di introiti ingenti e inattesi per un dilettante. Grazie al patrocinio di Armando Cougnet, giornalista della Gazzetta dello Sport e di fatto fondatore del Giro d’Italia, inizia la sua carriera da professionista con una trasferta negli Stati Uniti lunga quasi un anno: la prima gara si disputa in pista al Madison Square Garden, un testa a testa di 262 giri (pari alla distanza su cui si corre la maratona) nientemeno che contro Hayes, oro olimpico. E nella Grande Mela, ancorché di minor valore, Dorando si prende la rivincita, grazie ad uno sprint finale nel quale stacca l’avversario e vince. Sul risultato di un successo a testa, a marzo 1909 i due avversari si sfidano nuovamente per dirimere definitivamente la contesa ed è ancora l’azzurro a vincere. Nel suo periodo di permanenza negli USA disputa 12 maratone, con 7 successi, e 10 corse di lunghezza inferiore e variabile, vincendole tutte.

Continua a correre fino al suo ventiseiesimo compleanno, ad ottobre 1911, data in cui annuncia il ritiro. In tre anni di professionismo, tra i premi dati dalle vittorie nelle varie corse e gli ingaggi e vitalizi per il periodo americano, Dorando guadagna l’impressionante somma di 395.000 lire, che rapportata al giorno d’oggi equivarrebbe ad oltre un milione e mezzo di euro. È diventato ricco, può ambire addirittura a più di quella piccola panetteria che sognava prima delle Olimpiadi. Quel successo sfumato ha rappresentato la sua vera fortuna.

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Dorando ed Hayes pronti alla partenza al Madison Square Garden di New York

 

Rovinare tutto nel finale

Richiamando quanto già specificato in premessa, Dorando Pietri ha vissuto esattamente come ha corso la sua gara più importante: sognando la gloria, spingendo sull’acceleratore e rovinando tutto a un passo dal traguardo. Perché la vita dopo la carriera da atleta non è stata esattamente quello che sognava, né ha tenuto fede all’immagine eroica che aveva trasmesso al mondo intero. Come imprenditore le sue iniziative sono state piuttosto fallimentari: il sogno della panetteria che aveva smosso l’animo di Arthur Conan Doyle venne abbandonato per far spazio ad un’impresa alberghiera con il fratello Ulpiano: a Carpi aprì il Grand Hotel Dorando ma il fiuto per gli affari non era buono come il passo di gara. Dopo appena sei anni, con gli affari a rotoli, ecco il cambio di destinazione: ceduto l’albergo venne aperta un’attività di noleggio con conducente denominata Garage Dorando, iniziata a Carpi e proseguita, dal 1923, a Sanremo. Sì, perché Pietri lasciò definitivamente l’Emilia Romagna, la terra in cui erano nati lui ed il suo sogno, per motivi tutt’altro che onorevoli.

Nel 1921, infatti, l’ex maratoneta aderì con entusiasmo al fascismo, non solo come iscritto al partito ma addirittura come squadrista, tanto da essere protagonista di alcune spedizioni punitive con esiti infausti: nel 1922, assieme ad altre camicie nere, organizzò un attentato nei confronti di un gruppo di adolescenti attivisti cattolici, dal quale derivò un bilancio di due morti e una decina di feriti. Evitata la condanna grazie ad un’amnistia, decise di lasciare per sempre Carpi ma senza rinnegare gli ideali fascisti che lo animavano. Il processo venne nuovamente istruito anni dopo, una volta caduto il regime, ma Pietri era già morto, ucciso da una polmonite nel 1942 durante il secondo conflitto mondiale. Chiese ed ottenne di essere sepolto con la sua camicia nera e così fu, alla presenza di gerarchi e simpatizzanti del movimento fascista che esposero in suo onore le insegne del PNF. Una condotta che mal si addice ad un uomo che si è visto intitolare strade, strutture e canzoni in tutto il mondo. Un finale che, benché più lungo rispetto a quei 325 metri all’interno dello White City Stadium, ha visto la sua eroica immagine barcollare e cadere più volte e che, pur non cancellando la storica impresa sportiva, ha parzialmente minato il sentimento popolare nei suoi confronti.

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Dorando Pietri in posa con la coppa d’argento donata dalla Regina Alexandra

 


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catenaccio

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.