Allucinazioni, stricnina e cani randagi alla maratona di St. Louis

Maratona - Puntero

Da sempre la maratona è una delle gare simbolo nel panorama olimpico, ormai divenuta una sorta di evento di chiusura dei Giochi. Faceva parte del novero delle discipline già in occasione delle prime Olimpiadi dell’era moderna nel 1896, inizialmente con fini rievocativi, con l’obiettivo di omaggiare l’impresa di Fidippide, emerodromo al servizio della città-stato di Atene ed incaricato di coprire i 40 km di distanza tra la città di Maratona, luogo della battaglia, ed Atene per comunicare la vittoria ateniese su Sparta. Secondo la leggenda, giunto ad Atene dopo aver percorso la distanza correndo e con indosso l’armatura, avrebbe pronunciato le parole “abbiamo vinto”, prima di cadere esanime al suolo e morire.

Ancora oggi la maratona olimpica rappresenta un appuntamento quasi sacro per gli sportivi di tutto il mondo. Eppure c’è stata un’edizione grottesca e paradossale, quella del 1904 disputata a St. Louis, ricca di colpi di scena tali da renderla più idonea ad una commedia dai risvolti tragici che allo sport.

 

Partecipanti e organizzazione problematica

Com’è facilmente intuibile vista l’epoca di riferimento, le economie delle varie federazioni non erano esattamente floride, di conseguenza il numero di partecipanti alle Olimpiadi svolte 120 anni fa non fu paragonabile a quello odierno. La maratona non fece eccezione e ai nastri di partenza si presentarono solamente 32 iscritti. Anche le nazioni rappresentate furono poche: d’altronde l’organizzazione logistica, con un viaggio intercontinentale da sostenere, rese molto difficoltosa la partecipazione ad atleti di continenti diversi da quello americano. Dei 32 partecipanti, ben 18 erano statunitensi, uno canadese (Bob Fowler, unico rappresentante del Dominion di Terranova nella storia delle Olimpiadi) e uno cubano. Oltre a loro presenziarono nove atleti greci e tre sudafricani che, pur essendo di fatto i primi rappresentanti del Continente Nero a partecipare ad una gara di atletica alle Olimpiadi, formalmente corsero sotto la bandiera del Regno Unito.

Le previsioni andavano nella direzione di un dominio dei padroni di casa. Un pronostico che, seppur realizzato, si sarebbe scontrato con situazioni non preventivabili, colpi di scena, problemi fisici e uomini incapaci di prendere seriamente un evento di tale importanza.

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I due atleti sudafricani Taunyane e Mashiani

 

La gara si disputò il 30 agosto, inusualmente in orario pomeridiano anziché di mattina come consuetudine per questo tipo di competizione. Una scelta folle. Alla partenza, fissata per le ore 15, il termometro segnava 31 gradi e l’umidità era vicina al 90%. Come se non bastasse, anche la scelta del percorso e la relativa organizzazione si rivelarono a dir poco bislacche. La corsa si articolava sulla distanza dei 40 km (solo a partire dalle Olimpiadi di Londra del 1908 si iniziò a correre gli odierni 42,195 km, che divennero ufficiali nel 1921) ma il percorso era irto di ostacoli che resero la corsa ancor più proibitiva di quanto non sarebbe stata in condizioni normali.

In primo luogo, la fatica venne portata all’estremo dalla presenza di ben sette dislivelli ad alture variabili, circostanza idonea ad esporre gli atleti ad un’ulteriore fatica nei tratti in salita. Ma il problema principale era il manto stradale: per larghissimi tratti si corse su uno sterrato non opportunamente lavorato, con la presenza di sassi che misero a dura prova i piedi dei maratoneti. Senza contare la strada chiusa al traffico solo parzialmente, con auto e cavalli che lungo i 40 km di percorso alzavano nuvoloni di terra e polvere. Non esattamente il massimo per correre sotto sforzo. Insomma, un dramma annunciato.

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Il disagevole sterrato lungo il percorso

 

Da Cuba con furore

Tra i personaggi che presero parte all’Olimpiade, il più bizzarro e peculiare risultò il cubano Félix Carvajal. Soprannominato Andarín, nella vita di tutti i giorni era un postino e non navigava certo nell’oro. Al netto delle difficoltà economiche sue e della federazione, tuttavia, riuscì a prendere parte ai Giochi grazie a una colletta. L’iniziativa garantì al cubano i fondi necessari per imbarcarsi per gli States, arrivare fino a St. Louis, sostentarsi e comprare l’equipaggiamento necessario per la gara. Carvajal demandò quest’ultima incombenza al periodo immediatamente precedente alla corsa, una strategia che si sarebbe rivelata errata.

Nel lungo tragitto da L’Avana fino a St. Louis, Andarín fece tappa a New Orleans. Entrò in un bar ma lì incontrò una distrazione fatale: il gioco d’azzardo. Alcune persone stavano giocando ai dadi e l’atleta decise di provare. Un lancio tira l’altro e nel giro di poco tempo Carvajal perse tutti i soldi raccolti con la colletta. Il maratoneta però non aveva alcuna intenzione di rinunciare al proprio sogno, non fosse altro perché avrebbe comunque avuto difficoltà a rientrare a casa, visto che era a secco. Arrivare a St. Louis, oltre a ripagarlo di anni di sforzi a livello agonistico, gli avrebbe garantito qualche chance in più di tornare a Cuba ed evitare il vagabondaggio. Con l’autostop arrivò fino a St. Louis, in abiti borghesi e a digiuno da quasi due giorni. Si presentò alla partenza in camicia, pantaloni tagliati all’altezza del ginocchio durante il viaggio e scarpe da passeggio con tanto di piccolo tacco. Un abbigliamento non proprio consono all’evento.

Una volta iniziata la corsa, ecco i primi problemi. La fatica della maratona mal si concilia con la fame, quindi lungo il tragitto Andarín rubò delle mele da un frutteto per sedare i crampi allo stomaco. Purtroppo si sarebbe rivelato un palliativo inefficace, perché di lì a poco i crampi si sarebbero trasformati in altro: le mele erano acerbe e gli causarono gravi problemi di digestione. Problemi che non gli avrebbero comunque impedito di chiudere la gara in una posizione onorevole e forse addirittura di vincerla, se non fosse stato per l’atteggiamento guascone del postino cubano, che durante il percorso si fermò più volte a chiacchierare con gruppi di spettatori, rivelandosi un intrattenitore più che un atleta assetato di medaglie. Nonostante tutto, Carvajal chiuse con un clamoroso quarto posto.

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Il bislacco abbigliamento di Carvajal

 

La gara

Carvajal non fu l’unico a riscontrare problemi di stomaco lungo il tragitto. La ciliegina sulla torta della carente organizzazione era il punto di ristoro, ossia la zona in cui i partecipanti avrebbero potuto bere e rinfrescarsi. Una trappola bilaterale: da una parte la scelta di utilizzare un unico punto di ristoro apparve sin da subito insufficiente rispetto alle necessità degli atleti, stremati dalle condizioni climatiche proibitive; dall’altra il meccanismo del rifornimento a gara in corso rappresentava una novità per gli europei, abituati ad orari mattutini, a percorsi meno impegnativi e di conseguenza a non dare eccessiva importanza alla necessità di mantenersi costantemente idratati come invece sarebbe servito nell’inferno di St. Louis.

Sta di fatto che, dopo oltre 18 km in condizioni proibitive, gli atleti arrivarono al punto di ristoro lanciandosi a bere copiosamente per tentare di combattere il caldo e l’arsura causata dalla copiosa presenza di terra sul percorso. Non una buona idea: sette dei nove greci fecero indigestione d’acqua, sei di loro si ritirarono, il settimo arrivò ultimo. Iniziò quindi una gara a eliminazione, con una serie di piaghe drammatiche che frustrarono il regolare andamento della maratona.

Poco dopo il ritiro massivo della delegazione greca, anche il sudafricano Bertie Harris dovette abbandonare per indigestione e di lì a poco altri concorrenti furono costretti ad alzare bandiera bianca a causa di caldo e fatica. Chi subì le conseguenze peggiori fu lo statunitense William Garcia: la direzione di gara, rigorosamente a cavallo, con la conseguenza di contribuire ad alzare ulteriormente la polvere e a rendere sempre più difficoltosa la corsa, lo trovò riverso a terra esanime. I medici lo salvarono per un pelo: le particelle di polvere respirate e ingurgitate correndo a bocca aperta gli avevano causato una lesione della membrana dello stomaco ed una grave emorragia interna.

I più temuti della vigilia da parte della delegazione statunitense erano i tre sudafricani che correvano per la Gran Bretagna. Detto del ritiro di Harris, tuttavia, anche gli altri due concorrenti risultarono inoffensivi. Jan Mashiani chiuse al dodicesimo posto mentre Len Taunyane, partito molto bene, venne aggredito da alcuni cani randagi e, dopo una sgradita deviazione di quasi due km, si piazzò in nona posizione. A tagliare il traguardo alla fine furono solo 15 maratoneti, numero più basso della storia delle Olimpiadi moderne. La lotta per il successo si ridusse ad un testa a testa che non sarebbe stato esente da polemiche e altre bizzarre anomalie.

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È la dose che fa il veleno

Uno dei pretendenti alla vittoria era Thomas Hicks, anche lui non dispensato da difficoltà. Dopo 16 km, iniziò a mostrare i primi segni di cedimento. Il suo entourage lo sostenne con una serie di aiuti, elargiti in particolare dal suo allenatore. Dopo qualche altro chilometro, lo statunitense era disidratato e chiese di poter bere, ricevendo in risposta un secco rifiuto da parte del coach che aveva ancora negli occhi il non edificante spettacolo degli atleti greci rimasti vittime di un’indigestione: decise quindi di dare momentaneo sollievo al suo assistito limitandosi a bagnargli le labbra con dell’acqua distillata.

Il sollievo ovviamente non durò molto, Hicks voleva mollare e chiese quindi di potersi sdraiare per riprendere le energie. Ma ecco il colpo di genio dell’allenatore, che si inventò la soluzione per ridare sprint e vitalità all’atleta: un beverone a base di albumi d’uovo, brandy e una dose di solfato di stricnina, una sostanza che a piccole dosi rappresentava uno stimolante in un’epoca in cui il doping non era vietato ma che, in dosi maggiori, viene usata come veleno per topi. Fortunatamente il dosaggio non fu sbagliato e Hicks si riprese, trovandosi in testa dopo 30 km. Pochi chilometri dopo però le cose cambiarono radicalmente: il mix tra sole, alcool, stricnina e stanchezza si trasformò in un’arma quasi letale. Dopo una lunga serie di segnali di cedimento, infatti, lo statunitense riprese una marcia costante: non era velocissimo ma continuo, anche perché ormai sembrava avere l’anima fuori dal corpo e procedeva per pura inerzia. Il giornalista Charles Lucas, cronista accreditato per seguire i Giochi e autore l’anno successivo del libro The Olympic Games 1904, commentò così il rush finale di Hicks:

Hicks stava procedendo meccanicamente, come un macchinario ben oliato. I suoi occhi erano opachi, senza luce; il colore cinereo del suo viso e della sua pelle si era intensificato; le sue braccia sembravano pesi ben legati; riusciva a malapena a sollevare le gambe, mentre le sue ginocchia erano quasi rigide.

Eppure, nonostante l’andamento regolare e imperturbabile, Hicks non era più il leader della corsa, in quanto appena superato da un concorrente.

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Hicks aiutato dal suo staff nella fase finale della corsa

 

Energie inattese

In una corsa al massacro, stupì vedere qualcuno avere così tante energie. Quel qualcuno era Frederick Lorz, anch’egli statunitense. A meno di 5 km dalla fine della maratona effettuò il sorpasso su Hicks e volò via verso la vittoria, senza più rivali, tagliando per primo il traguardo. Un successo netto, con tanto di onori dedicati al vincitore e foto di rito nientemeno che con Alice, figlia del presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt. Sennonché dagli spalti qualcuno iniziò a rumoreggiare e ad esporre una teoria infamante: Lorz è un imbroglione e ha barato, la vittoria dev’essere revocata. Ed effettivamente andò proprio così: andato in debito di ossigeno dopo poco meno di 14 km, il presunto vincitore salì sulla macchina guidata dal proprio allenatore e si fece accompagnare sino ai 30 km quando, abbandonata l’auto a causa di un guasto, riuscì a rientrare nel percorso di gara al terzo posto.

Ovviamente rinfrancato dalle energie risparmiate, riprese la marcia a ritmo battente, superando dapprima Albert Corey e successivamente Hicks. Un imbroglio inizialmente pagato caro da Lorz, che venne squalificato a vita, salvo godere di un successivo annullamento per i contorni grotteschi della sua condotta: in realtà non si era trattato di imbroglio ma di goliardia, tanto che alcuni concorrenti avrebbero confermato di averlo visto passare accanto a loro salutandoli dal finestrino dell’auto.

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Fred Lorz, imbroglione scoperto troppo presto

 

Epilogo

La medaglia d’oro andò a Hicks, con un finale di gara ancora più turbolento di quanto sin lì già sofferto. A due chilometri dal traguardo, l’atleta iniziò a chiedere di poter mangiare, venendo rimpinguato con un’altra dose del tremendo beverone dopante che aveva già ingerito. Di lì a poco Hicks venne colto da allucinazioni: si trovava vicino allo stadio ma diceva al suo allenatore che sapeva di dover correre ancora per 20 miglia. Arrivato all’interno dello stadio, il suo corpo andò in panne: non riusciva più a correre, era come immobilizzato. L’allenatore e un altro membro del suo staff lo sollevarono e lo condussero fino al traguardo (circostanza che non ne causò la squalifica, a differenza di quanto sarebbe avvenuto in futuro) mentre Hicks continuava a muovere i piedi credendo di essere ancora a terra e in fase di corsa. Chiuse con il tempo di 3 ore, 28 minuti e 53 secondi, il più alto mai registrato per un vincitore di una maratona olimpica. Appena i due aiutanti lo lasciarono, Hicks crollò a terra. Si rialzò solo dopo un’ora e con l’aiuto di quattro medici.

Completarono il podio i connazionali Albert Corey, arrivato 5 minuti e 59 secondi dopo il vincitore, e Arthur Newton, con un ritardo di 18 minuti e 40 secondi. Alle loro spalle come detto si piazzò Carvajal. Fu la chiusura di una gara bestiale e surreale, che avrebbe offerto molti spunti di miglioramento per il futuro.

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Uno stremato Hicks celebrato dalla commissione di gara

 

Imparare dagli errori

Le critiche all’organizzazione furono talmente aspre da far riflettere il CIO circa l’eliminazione della maratona dal programma olimpico. Alla fine, con i giusti accorgimenti sul manto stradale, l’orario di inizio e i punti di ristoro, il rischio fu scongiurato e, nonostante qualche altro incidente negli anni a seguire, a tutt’oggi i 42,195 km sono lo scenario di uno degli eventi più attesi della manifestazione a cinque cerchi.

Nonostante la terribile esperienza, Hicks continuò la sua carriera, raggiungendo un prestigioso secondo posto alla maratona di Boston del 1905, alle spalle proprio di Lorz, che dopo la redenzione aveva smesso di imbrogliare. Insomma, tutto bene quel che finisce bene? Tutti avevano imparato la lezione? Non esattamente. La pecora nera del gruppo rimase il mitico Félix Carvajal. Andarín, tornato a Cuba, continuò la sua vita da spiantato, senza smettere di allenarsi e di coltivare la passione per la corsa, fin quando una nuova occasione non bussò alla sua porta. Nel 1906 ottenne il patrocinio del governo greco per partecipare alla maratona dei Giochi intermedi in programma ad Atene per celebrare il decennale dell’era olimpica moderna. Intrapreso il lunghissimo viaggio per l’Europa, Carvajal non prese però parte alla gara, scomparendo nel nulla e senza dare notizie, tanto che in patria i giornali ne annunciarono la morte. Un anno dopo il postino riapparve dal nulla a L’Avana. Ovviamente senza il becco di un quattrino.

 


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catenaccio

Di Manuel Fanciulli

Laureato in giurisprudenza e padre di due bambini, scrivo di sport, di coppe e racconto storie hipster. Cerco le risposte alle grandi domande della vita nei viaggi e nei giovedì di Conference League.