Quando nessuno è disposto a credere in te puoi emergere solo se hai le spalle davvero larghe. Metaforicamente, s’intende, perché quel pregiudizio nasce proprio dalla tua fisicità. Una farfalla in mezzo agli elefanti, ma con una grazia ed un leggiadria senza pari, frutto di un talento cristallino che l’avrebbero fatta librare in mezzo a quei colossi. L’impatto di Allen Iverson è stato la risposta a un sacco di dubbi, quelli sulla sua riuscita in NBA e sull’esistenza di una star dopo Jordan. The Answer, appunto, come il suo soprannome insegna.
Infanzia difficile
È il 7 Giugno del 1975 quando Ann Iverson, allora quindicenne, dà alla luce Allen Ezail. Il padre è un malvivente e a questa categoria di persone piace fuggire. Madre e figlio, ancora in fasce, vivono ad Hampton, là dove regna la legge del più forte. Allen è accudito dal patrigno Michael Freeman il quale, a dispetto del nome che porta, è un ex galeotto. Le persone non cambiano, tant’è che sarà presto accusato di omicidio.
Il piccolo è un fulgida gemma della pallacanestro. Eppure, al tempo non gli piace neanche, anzi lo considera uno sport da femminucce. Per l’allenatore di football, il ragazzo potrebbe giocare tra i professionisti, tuttavia a quindici anni il suo percorso di vita subirà una straziante deviazione. Tony Clark, suo migliore di amico, viene ucciso a coltellate dalla fidanzata, si tratta dell’ottava vittima nella sua limitata cerchia di affetti. Nella notte di San Valentino del 1993, Allen viene coinvolto in una rissa interrazziale. Incastrato per un reato che non ha commesso, è condannato a cinque anni di reclusione, pena ridotta in seguito ad appena quattro mesi.
Scatto giovanile di Allen Iverson (casacca numero 10) alle prese con il football
Basket per il riscatto
Tornato a casa, Iverson viene a conoscenza dell’atto di carità del suo liceo che, in sua assenza, ha sfamato la famiglia. La madre ha supplicato il coach della Georgetown University, John Thompson, perché chiudesse un occhio sul passato del figlio. L’allenatore sarebbe diventato il padre che Allen non aveva mai avuto.
Nella stagione da freshman tocca una media di 20,4 punti, vincendo il premio di miglior difensore e miglior rookie della Big East. Il college, tuttavia, costa troppo per le tasche di Ann, che sta lottando contro l’epilessia della piccola Ileisha, la sorellina di Allen. Anche per questo, nel 1996, Allen si rende eleggibile per il draft e viene scelto con la prima pick assoluta da Philadelphia, preferito a Bryant, Allen, Marbury e Nash.
I numeri da matricola sono impressionanti: 23,5 punti di media, 7,5 assist e 4,1 rimbalzi, statistiche che gli valgono il titolo di Rookie of the Year. È inoltre la prima matricola a realizzare almeno quaranta punti in cinque partite consecutive. Insomma, una stagione di esordio costellata da record individuali.
Maglia, cappellino e dito che indica il numero 1: Allen Iverson celebra la sua chiamata come prima scelta assoluta al draft 1996
MVP e Finals
Nel 2000 Shaquille O’Neal viene plebiscitariamente eletto come MVP. Il collegio dei votanti non ha nessun dubbio. Fred Hickman, inviato per CNN e Sports Illustrated, ha votato qualcun altro e ne spiega il motivo: “Senza Iverson, i Sixers sarebbero una squadra di G-League”.
Una premonizione che sarebbe divenuta realtà poco dopo, dato che l’anno seguente The Answer si sarebbe aggiudicato il riconoscimento di MVP dell’All Star Game e, soprattutto, di MVP della regular season. È solo il preludio di una postseason da ricordare, con Iverson che trascina i suoi sino alle Finals NBA contro i Los Angeles Lakers.
Davide contro Golia, un incontro dall’esito scontato. Senonché in Gara 1, allo Staples Center di Los Angeles, il numero 3 ne infila 48, annichilendo il quintetto gialloviola. A un minuto dalla fine dell’overtime, alle prese con il goffo Tyronn Lue, Iverson aggira il suo marcatore, facendolo cadere rovinosamente a terra, e va a canestro in sospensione. Grazie a lui siamo testimoni di una delle fotografie più iconiche di questo quarto di secolo di basket NBA.
L’avversario, andato a contrastare il tiro, resta disteso sul pavimento sdrucciolevole del palazzetto californiano. Iverson, che si incammina verso la sua metà di campo, scavalca la docile preda, complice della sua genialità, caduta vittima del suo estro. The Step Over, questa follia rimarrà l’effige della carriera di uno dei più controversi campioni della pallacanestro a stelle e strisce.
“48 minuti ogni sera per vendicare una vita d’ingiustizie”, così scrive l’entusiastico Federico Buffa. Una flebile fiamma che accede i sogni di un’acquiescente franchigia, spenta dal superbo squadrone avversario nei quattro match successivi. E così svaniscono i sogni dell’umile uomo della strada.
L’iconico Step Over ai danni dell’attuale coach dei Clippers
Il lascito di Iverson
Un atleta formidabile, un superuomo dotato di una tenacia incrollabile. Dall’alto – si fa per dire – dei suoi 180 cm, The Answer affrontava e dominava quotidianamente giocatori più alti e robusti di lui. Picchiato e irriso dalla vecchia guardia della NBA, che col trash talking sedava la sua irrequietezza. A.I. è stato un cestista eclettico, la cui esuberanza veniva esaltata da uno stile di gioco fuori dagli schemi.
Seppur motteggiato dagli avversari, ad Allen non importava. In quei momenti ripensava ai sacrifici di sua madre, la sua spalla e guida durante gli anni dell’adolescenza. Indefesso, perché nessuno ha mai subito tante percosse. Eppure, da sportivo si metteva sempre in gioco. Iverson era un prestigiatore, dotato di una maestria sbalorditiva, era fulmineo e letale. Dal tiro in sospensione al crossover, sono tante le vittime della sua incredibile classe, finanche il più grande di sempre, Michael Jeffrey Jordan.
Iverson era The Answer ad ogni grattacapo. Ha lasciato il basket senza aver mai vinto un anello, ma con la speranza di essere ricordato per l’uomo che è diventato e non per ciò che è stato in campo:
La gente pensa che io sia un duro rinnegato, un essere malvagio dal cuore nero, ma quello non sono io. Preferirei avere più cuore che talento, ogni giorno.
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