La storia di Derek Redmond ci serve come spunto per augurare, ai nostri lettori e alle nostre lettrici, buona Festa del papà. E per ricordare a tutti che, in un modo o nell’altro, ci sarà sempre qualcuno disposto a credere in voi e ad accompagnarvi al traguardo. Qualunque cosa accada.
A Derek Redmond il mondo è crollato addosso due volte. Dietro quella fredda dicitura sui tabelloni luminosi — DNF (“Did Not Finish”) — ha visto sgretolare i propri sogni sotto i duri colpi delle avversità di una carriera sfortunata, piena di gravi infortuni. Ma la sua storia è un formidabile esempio di perseveranza. Perché Derek Redmond è un campione, non deve dimostrare nulla a nessuno. Così gli ha ricordato l’uomo che lo ha stretto forte per portarlo al traguardo, lo stesso che vent’anni prima lo accompagnava per le prime volte sui campi di atletica.
Gli inizi da star dell’atletica
Quando Derek batte il record britannico dei 400 metri piani nel 1985 — con il tempo di 44″82 — non ha ancora compiuto vent’anni, ma corre già da più di dieci. Suo padre Jim lo porta sui campi di allenamento sin da quando ha 7 anni e non perde occasione per iscriverlo a tutte le gare dei campionati giovanili di atletica nei dintorni di Milton Keynes, nel sud-est dell’Inghilterra. La natura gli ha donato il talento della corsa: una falcata morbida, elegante e sinuosa. La forza che scarica sul terreno, ad ogni passo, sembra inebriata di una leggerezza che non ti aspetti. La resistenza allo sforzo e alla velocità è invece qualcosa che si acquisisce durante l’allenamento e soltanto se hai la giusta mentalità. Determinazione e costanza: sono questi i due ingredienti principali che il padre Jim cerca di trasmettere al proprio figlio.
Nel 1986 entra a far parte della squadra britannica della staffetta 4×400 metri, è uno dei velocisti più talentuosi del Regno Unito e tra i principali indiziati per lanciare il guanto di sfida alla temibile nazionale statunitense. Con il rivale e compagno di nazionale Roger Black condivide in quell’anno due successi, le medaglie d’oro ai Campionati Europei e ai Giochi del Commonwealth. Black riesce per un attimo a sottrargli il primato dei 400 piani ma Redmond ricambia la cortesia un anno più tardi, fermando il cronometro a 44″50. La nazionale britannica non riesce, però, a ripetere l’impresa: ai Mondiali del 1987 di Roma Redmond, Black e compagni devono accontentarsi del secondo gradino del podio, battuti dagli Stati Uniti.
Il quartetto Roger Black, Phil Brown, Derek Redmond, Kriss Akabusi, medaglia d’argento ai Mondiali di Roma 1987
Seul: l’inizio di un calvario
La gara della staffetta, di per sé, è qualcosa di particolare: c’è una strana sensazione di pressione condivisa, una tensione comune. Derek Redmond ha ottenuto tutte le medaglie della propria carriera grazie alla staffetta. Se chiedeste però a qualsiasi atleta, tutti preferirebbero vincere una gara “da solisti”, perché è soltanto lì che si realizza il talento della velocità, quell’irrefrenabile brivido di essere davanti a tutti.
E così è per Derek Redmond: la sua preparazione per le Olimpiadi di Seul del 1988 è maniacale, le sensazioni della vigilia rivelano la consapevolezza di poter portare a casa una medaglia. Ma in Corea il mondo di Derek crolla per la prima volta: quando mancano 90 secondi allo start della gara di apertura dei 400 metri piani, la sua specialità, sente tirare il tendine d’Achille. Poi, quella scritta DNF sul tabellone luminoso. L’inizio di un calvario che lo porterà a sottoporsi — nel giro dei quattro anni successivi — a ben otto interventi chirurgici a causa dei ripetuti infortuni.
Cadere e rialzarsi
Mentre si rialza per la prima volta, Redmond può udire ancora una lingua orientale, in lontananza. Nonostante la condizione non ottimale, l’allenatore della squadra dei velocisti vuole rischiare e sceglie di includere l’atleta di Milton Keynes nella lista dei partenti per il Giappone. L’impresa sportiva si compie ai Campionati Mondiali di Tokyo del 1991: da sfavoriti, i velocisti britannici riescono sconfiggere gli Stati Uniti e stabiliscono anche il record europeo del tempo, con una prestazione da 2’57″53. Derek corre la seconda frazione e riceve il testimone da Roger Black, prima di passarlo a John Regis, che a sua volta lo consegna a Kriss Akabusi. Un successo memorabile per la squadra del Regno Unito.
Nel 1992 Redmond è all’apice della carriera: la forma fisica è alle stelle dopo i vari infortuni, mentre alle porte ci sono i Giochi Olimpici di Barcellona. Nella gara dei 400 metri piani in Catalogna l’atleta britannico domina i quarti di finale, facendo segnare il miglior tempo assoluto. In semifinale indossa il pettorale 749 e occupa la corsia numero 5, una delle migliori per via del raggio di curva e perché regala piena visibilità su tutti gli avversari. Appena dopo lo sparo dello starter, Derek comincia con forza la propria progressione. Cento, duecento, duecentocinquanta metri, poi il mondo gli crolla sotto i piedi per la seconda volta. Derek sente una specie di nuovo sparo, è un doloroso strappo alla coscia destra. Si ritrova a terra, straziato dal dolore.
Derek Redmond sulla pista dello Stadio Olimpico di Montjuïc, Olimpiadi di Barcellona 1992
Just do it
Che cosa avrà potuto provare, in quel momento? Qualche lettore, penserà alla sensazione della vergogna. Perché gli occhi del mondo, improvvisamente, cadono su di lui. Mentre gli avversari stanno tagliando il traguardo — successo con record mondiale di 46″78 per lo statunitense Kevin Young — Derek si trova ancora lì sulla pista, accasciato e in lacrime, mentre si tiene la gamba infortunata. Dopo aver lavorato in modo estenuante per quattro anni, ancora una volta, il destino ha deciso di voltargli le spalle nel momento decisivo.
C’è un giudice di gara che si avvicina nell’intento di aiutare Redmond ad abbandonare la pista. “Questa volta no” avrà pensato Derek: il velocista ha ancora in mente quell’amaro DNF sul tabellone luminoso di Seul. Per quanto lancinante potesse essere il dolore al bicipite femorale destro lesionato, quella sofferenza non poteva essere paragonata al fatto di non concludere la gara. Fosse anche l’ultima della carriera. Un boato del pubblico lo accompagna mentre si rialza in piedi e, stremato, saltella sulla gamba sinistra per cercare di giungere al traguardo. Dopo qualche decina di metri, nell’inquadratura delle televisioni compare un uomo che cerca di sfuggire alla sicurezza della pista. Quell’uomo è papà Jim Redmond.
L’infortunio di Redmond in finale e il padre che lo accompagna al traguardo
I giudici di gara si avvicinano per convincere i Redmond a desistere, ma a Jim e Derek questo non importa. I due, stretti in un abbraccio commosso di tristezza e lacrime, sono determinati a giungere al traguardo. Appena superata la linea, tutto lo Stadio Olimpico di Montjuïc si alza in piedi e dedica un’ovazione a quello straordinario momento di un figlio affranto e del proprio padre, l’uomo che ha sempre creduto in lui.
La foto di Jim Redmond che indossa il cappellino con la scritta “Just do it“, “Fallo e basta”, in seguito è stata scelta da Nike per la campagna pubblicitaria “Courage” del 2008, per descrivere con una sola immagine lo spirito dei Giochi Olimpici.
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