Varcando la soglia del terreno di gioco dello stadio Lužniki di Mosca, Luka Modrić avrà certamente ripensato alla sua infanzia nel piccolo paesino di Zaton Obrovački, intento ad aiutare il nonno nell’allevamento del bestiame. Avrà ripercorso nella sua mente l’intera giornata dell’8 luglio 1998, quelle ore interminabili che lo separavano da una giornata storica per tutto il popolo croato: allo stadio Saint Denis di Parigi andava in scena la semifinale mondiale tra la rappresentativa balcanica e quella transalpina, in uno dei tanti confronti che la storia del calcio ha posto tra la grande favorita e la temibile outsider.
La finale di Russia 2018 è certamente il più grande traguardo raccolto dal calcio croato nella sua storia ma non è la prima grande impresa e probabilmente nemmeno la più iconica: uno scettro che spetta alla cavalcata memorabile nel mondiale francese del 1998 terminata in semifinale per mano, ça va sans dire, della Francia. Quella fu la prima competizione mondiale a cui la neonata repubblica croata, guidata da Franjo Tuđman, partecipò indipendentemente.
L’attaccante perfetto
La Croazia è una nazione forgiata da sanguinose lotte per l’indipendenza, di cui i celebri scontri tra ultras della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado allo stadio Maksimir furono precursori. Lotte necessarie a distaccarsi da una Jugoslavia ormai in totale dissoluzione e che negli anni ’90 riesce a produrre una quantità di talento impensabile per un Paese di appena tre milioni di abitanti. Šimić, Jarni, Štimac e Bilić in difesa, Stanić, Soldo e Asanović a centrocampo, Boban e Prosinečki (dalla panchina) ad inventare, Šuker e Vlaović in avanti sono solo alcuni dei componenti della rosa croata, capace di finire seconda nel girone dietro all’Argentina ed eliminare Romania e Germania prima di approdare in semifinale, beffata dalla doppietta di Lilian Thuram che neutralizzò il vantaggio di Davor Šuker, capocannoniere della manifestazione.
Proprio Davor Šuker è il più grande marcatore della storia della nazionale croata con 45 gol in 68 partite ed uno dei centravanti più mortiferi che gli anni ’90 abbiano visto. Possiede un primato alquanto singolare, che testimonia la stranezza ma anche il fascino di quegli anni: è divenuto capocannoniere di due competizioni internazionali con due nazionali diverse, con la camiseta a scacchi croata ma anche con la maglia blu della Jugoslavia all’Europeo Under 21 del 1990.
Dopo aver dominato il campionato croato prima con la maglia dell’Osijek e poi con quella più celebre della Dinamo Zagabria, la Spagna è stata la sua terra di conquista, indossando le maglie prima del Siviglia e poi del Real Madrid, con cui ha vinto Liga e Champions League. Il lento declino della sua carriera inizia con l’approdo in Premier League all’Arsenal di Arsène Wenger, con cui avrà un rapporto a dir poco conflittuale, per concludersi al West Ham prima ed al Monaco 1860, in Germania, poi.
Šuker ha incarnato la figura del centravanti un po’ atipico per quegli anni, molto diverso da quel Darko Pančev con cui incantava da giovane nell’allora Jugoslavia. Mentre Pančev, che i tifosi nerazzuri ricordano con ben poco piacere, preferiva occupare l’area di rigore perennemente, Šuker era un centravanti di manovra, capace di fungere da prima e seconda punta indifferentemente, riuscendo a completarsi perfettamente con qualsiasi tipo di partner, che fosse un elegante creatore di gioco come Maradona al Siviglia o una punta formidabile come Bokšić in nazionale. Nel gol contro la Danimarca ad Euro ’96 c’è tutto il repertorio del centravanti croato: scatto in profondità da seconda punta ad eludere la difesa avversaria, pallonetto di leggero esterno a superare un monumento vivente come Peter Schmeichel e finalizzazione dolcissima da grande attaccante.
Ma questa è una storia di sangue, di antiche rivalità politico-religiose, di etnie balcaniche diverse che hanno visto cadere centinaia di figli in una guerra lunga e straziante. E proprio in questo contesto è emersa una delle coppie gol più prolifiche, più letali e più invidiate degli anni ’90, in quel fantastico Real Madrid: il croato Šuker ed il montenegrino Mijatović. La storia di due ragazzi che hanno imparato prima a conoscersi, poi a rispettarsi ed infine a diventare grandi amici, come se il tempo non fosse mai passato, come se le bombe non fossero mai esistite. Semplicemente due ragazzi che si volevano bene, uno squarcio di luce nelle notti buie di Zagabria, Belgrado e Sarajevo.
Alen Bokšić, l’Alieno
Compagno di reparto di Šuker era Alen Bokšić, attaccante noto in Italia per aver indossato le maglie di Juventus e Lazio. “Per il 95% dell’azione, Alen Bokšić è il giocatore più forte del mondo, il problema è quel 5% finale” diceva di questo centravanti croato Alessandro Nesta, difensore che non ha certo bisogno di presentazioni. Perché Boksic incarnava esattamente quella tipologia di attaccante fenomenale nella costruzione dell’azione ma decisamente poco lucido in fase realizzativa, con una progressione ed una potenza fisica quasi inumane per il calcio dell’epoca.
L’alieno, così ribattezzato dai tifosi biancocelesti per alcune sue progressioni epiche, fu estromesso dal Mondiale a causa di un infortunio patito durante le qualificazioni, ma la sua storia di successi e cadute continue rappresentano plasticamente la sofferenza e la rinascita del popolo croato. Dal trionfo in Coppa Campioni con il Marsiglia contro il Milan di Capello, nell’annata più prolifica dell’attaccante, alla delusione per la finale persa quando vestiva la casacca bianconera contro il Borussia Dortmund. Dalle gioie del periodo biancoceleste al dolore per non essere stato protagonista in Nazionale nelle grandi manifestazioni.
Di certo ogni sportivo di etnia balcanica ha ben impressa nella mente la data dell’8 maggio 1991, quando al JNA Stadium si gioca la finale di Coppa Maresciallo Tito tra Stella Rossa e Hajduk Spalato, decisa proprio a favore dei croati da un gol di Boksic. Una partita giocata durante il massacro di Vukovar, una delle pagine più nere della guerra jugoslava in cui diversi croati vengono sgozzati vivi da ufficiali serbi. Il sangue delle strade viene riflesso in campo (vittima di un’accesa diatriba fu Mihajlovic, originario proprio di Vukovar), tra ragazzi che per decenni sono stati un unico popolo e che ora invece si nutrono dell’odio che le bombe hanno seminato.
Genio e sregolatezza
I calciatori jugoslavi sono sempre stati riconoscibili per il loro grande talento e l’altrettanta poca attitudine ad essere sportivi a tutto tondo, non a caso la Jugoslavia fu ribattezzata il Brasile d’Europa. Non faceva eccezione Robert Prosinečki, il mago europeo del dribbling, strumento usato per vincere le resistenze degli avversari e deliziare ed incantare i suoi tifosi. Tanto divino in campo quanto blasfemo fuori, questo fantastico tuttocampista riassumeva in pieno quell’amalgama multietnico che era stato per decenni la Jugoslavia: di padre croato e madre serba, cresciuto nell’allora Germania Ovest, divenne per anni faro e guida della Stella Rossa dopo essere stato estromesso dalle giovanili della Dinamo Zagabria per comportamenti poco consoni all’attività di un professionista (leggende narrano fumasse tre pacchetti di sigarette al giorno già a diciassette anni).
Chi lo nota e lo porta ai piedi del Marakana è Dragan Džajić, probabilmente il più forte calciatore della storia jugoslava che meriterebbe un approfondimento a parte, perché troppo spesso poco ricordato. Attribuire un ruolo in campo a Zuti (così veniva chiamato per via della sua chioma bionda) è un esercizio retorico pressappoco inutile: tecnica da dieci puro, grandissimo stoccatore di calci piazzati, fisico da mediano interditore e corsa da mezzala d’inserimento, Prosinečki era tutti questi ruoli e queste qualità concentrate in un unico corpo, che l’avrebbero potuto rendere il più forte al mondo se non si fosse fatto sopraffare dai vizi e, soprattutto, da una carriera costellata d’infortuni.
Le parentesi con più ombre che luci al Real Madrid ed al Barcellona (dove perfino un esteta come Crujiff deve presto arrendersi a cotanta incostanza), inframezzate da una buona stagione all’Oviedo, lo riporteranno in patria, finalmente, alla Dinamo Zagabria dove torna a risplendere una stella che sembrava ormai destinata ad un lento declino, tanto da convincere il CT Blazevic (sì, proprio colui che lo aveva estromesso dalla squadra croata da giovane) a portarlo ai Mondiali di Francia, dove vivrà l’ennesima tribolata manifestazione in cui un infortunio lo metterà fuori gioco.
Il canto del cigno lo vivrà lontano dalla sua amata terra, in Inghilterra, ai piedi dell’Isola di Wight, a Portsmouth. Forse l’aria di mare, forse la tranquillità dello Hampshire, forse l’essere lontano dalle luci della ribalta, creano un’alchimia irripetibile, che porteranno gli inquilini di Fratton Park ad amare Prosinečki, nonostante i suoi vizi. Ancora oggi, nella città che ha dato i natali a Charles Dickens, magari mentre si fa shopping in Commercial Road, sentirete qualcuno esclamare: “Oh, ma tu mica hai visto giocare Prosinečki!“.
Zorro, eroe croato
Ma il calciatore più forte, la figura di spicco, l’emblema, il capitano è Zvonimir Zorro Boban. Boban è l’incarnazione della rivincita di un popolo, è il nazionalismo croato elevato su di un campo da calcio, è colui che dice “Morirei per la Croazia“. E quanto avvenuto durante gli scontri del Maksimir è lì a testimoniarne il vero.
È il William Wallace di Braveheart, che anche sotto la scure del boia non implora pietà, ma urla la sua voglia di libertà. Così come Zorro non si tira indietro in quel terribile 13 maggio 1990, che gli costerà anche la partecipazione ai campionati mondiali in Italia. Troppo forte il desiderio di libertà, troppo doloroso guardare la polizia perpetrare soprusi nei confronti dei tifosi croati e lasciare liberi quelli serbi, troppo incalzante il desiderio di giustizia di un intero popolo che non si è mai realmente sentito jugoslavo e tantomeno vuole sentirsi succube dell’egemonia serba di cui il Presidente Milošević è grande fautore, tanto da essere incriminato per crimini contro l’umanità dalla corte penale de L’Aia per la pulizia etnica perpetrata nei confronti soprattutto dei musulmani in Croazia e Bosnia-Erzegovina.
Della carriera di Boban si sa tutto: i suoi fenomenali anni al Milan, gli scudetti vinti, la Champions League conquistata. Della sua versatilità in campo altrettanto, un centrocampista di tecnica sopraffina e carisma, ma anche interditore ed amante dei contrasti, prototipo di giocatore moderno che fa del difendere e offendere il suo mantra. Ma l’immagine del Maksimir, con Boban che colpisce un agente di polizia con un calcio volante per difendere un tifoso della Dinamo Zagabria vittima dell’abuso della polizia serba, rimarrà per sempre l’immagine manifesto della lotta per l’indipendenza croata, di un popolo che per 44 anni ha bramato, sognato, sperato di poter essere nazione.
L’iconica ginocchiata volante di Boban al poliziotto durante gli scontri del Maksimir
Non saranno i fatti del Maksimir a dar via alla sanguinosa guerra serbo-croata. La situazione era già molto tesa dopo la caduta del Muro di Berlino, quando tutte le ex repubbliche sovietiche iniziarono a chiedere l’indipendenza. Ma quel calcio, quella strenua difesa dei propri valori, che siano discutibili o meno, sono certamente l’architrave di un percorso lungo, doloroso, spesso opaco come la figura di Tuđman, che porterà la Croazia verso la democrazia, un percorso comune a quasi tutte le repubbliche di matrice sovietica.
Perché spesso la democrazia nasce del sangue, dalla violenza. Perché solo vivendo gli orrori si può apprezzare la libertà, valore insindacabile e non negoziabile, troppo spesso ridotto ad un mero esercizio retorico e non abbastanza tutelato.
Continuando il suo lento cammino verso il centro del campo del Lužniki, Modrić avrà ripensato a queste figure, sperando di compiere l’impresa che quella straordinaria generazione non fece. Non ci riuscirà, troppo più forte la compagine transalpina. Ma avrà ancora una volta riunito il popolo croato davanti alla tv, esattamente come lui con suo nonno in quel caldo luglio del 1998. Un popolo che ha finalmente trovato la libertà, che brulica di passione, desideroso di vivere una nuova alba, non più derivante da cannoni e carri armati ma semplicemente da un pallone ed un rettangolo verde di gioco.
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