Alzi la mano chi da piccolo, tra una sessione di spacchettamento e l’altra, non si è studiato quasi a memoria i tabellini di ogni singolo calciatore riportati sotto le figurine dell’album Panini. Ore e ore passate a memorizzare concetti fondamentali, domandandosi come fosse possibile che Dino Baggio fosse nato a Camposampiero e Roberto Baggio a Caldogno, salvo scoprire qualche anno più tardi che non avevano alcun rapporto di parentela, pur essendo originari della stessa regione.
Magari non ci ricordavamo benissimo la tabellina dell’otto, ma che Pino Taglialatela fosse nato a Isola d’Ischia e che Vincenzo Italiano, a dispetto del cognome, abbia visto la luce a Karlsruhe, in Germania, erano per noi nozioni basilari. Chi non ha mai provato, luoghi di nascita alla mano, a stilare una top 11 per ogni regione d’Italia? Quante volte abbiamo maledetto Lazio e Lombardia per aver dato i natali a così tanti candidati per le formazioni regionali, mentre Molise e Basilicata ci facevano penare?
Un gioco da bambini che abbiamo provato a rendere universale e ancora più difficile ora che siamo adulti, anche se la carta d’identità è spesso bugiarda quando parliamo di pallone. Chi è il calciatore più forte mai prodotto da ciascuna regione d’Italia? Dopo lunghe riflessioni, abbiamo provato a sceglierne uno e uno soltanto per ognuna delle venti. Nella prima puntata di questa mini serie di tre articoli prendiamo in considerazione Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino Alto Adige, Veneto e Friuli Venezia Giulia.
VALLE D’AOSTA – Sergio Pellissier
La Vallée è la regione più piccola e meno popolosa dello Stivale. Non sorprende, pertanto, il fatto che il suo apporto in termini di calciatori forniti al massimo campionato sia piuttosto scarno.
Il calciatore valdostano più rappresentativo della storia della Serie A è senz’altro Sergio Pellissier. Prodotto del vivaio del Torino e divenuto bandiera del Chievo, conta la bellezza di 459 presenze e 112 gol in massima serie.
È l’unico calciatore della sua regione ad aver vestito la maglia azzurra della nazionale maggiore: nella sua unica presenza, contro l’Irlanda del Nord nel 2009, Pellissier ha anche trovato la rete.
Si sono legati agli Azzurri, seppur in maniera differente, anche altri tre corregionali, tutti con in comune un passato nella squadra più vincente della Serie A, la Juventus.
Paolo De Ceglie, infatti, è riuscito anche ad ottenere una convocazione alle Olimpiadi di Pechino 2008, mentre Hans Nicolussi Caviglia al momento si è fermato all’Under 21, pur potendo coltivare ancora il sogno di vestire la casacca della nazionale maggiore.
Ad inizio anni Sessanta, invece, Lelio Antoniotti mise a frutto le sue 246 presenze in Serie A per diventare docente ai corsi di Coverciano per giovani calciatori ed esaminatore per il Supercorso per gli allenatori.
Curiosità: avrebbe potuto far parte della lista dei papabili anche Calvin Bassey: il centrocampista nigeriano, oggi al Fulham ed eletto nel Team of the Year dell’Europa League nel 2022, è nato ad Aosta da genitori nigeriani ma è emigrato in Inghilterra prima di poter acquisire la cittadinanza.
Il gol in azzurro di Pellissier, all’Arena Garibaldi. Rimessa di Dossena, assist di Brighi, girata di Sergione
PIEMONTE – Gianni Rivera
Se si parla di calcio e di Piemonte, le prime due parole che vengono in mente sono, quasi obbligatoriamente, Torino e Juventus. Due formazioni monumentali, tra le prime ad aver consegnato al calcio una dimensione mista tra leggenda e sport del popolo, capaci di annoverare nelle loro storie pluricentenarie campioni senza tempo ed epopee irripetibili. Impossibile dimenticarsi delle gesta del Grande Torino guidato da Valentino Mazzola, lombardo di Cassano d’Adda, il cui invincibile percorso si è interrotto tragicamente sulla collina di Superga. Altrettanto infattibile non citare gli innumerevoli cicli vincenti della Juventus, il team più titolato d’Italia, la cui maglia bianconera è stata indossata da un numero di campioni arduo da contare.
Eppure, forse, il giocatore più forte ad esser mai nato in questa terra coperta dall’ombra gigantesca di questi due colossi del pallone non ha mai indossato né l’una né l’altra maglia.
La prima divisa da calcio del giovanissimo Gianni Rivera è grigia, come un’alba nebbiosa tra le campagne e le risaie, e sul petto c’è lo stemma dell’Alessandria. I suoi primi passi nel mondo del pallone impressionano persino un altro grande campionissimo piemontese, il più grande bomber italiano di tutti i tempi: Silvio Piola, un altro che in questo paragrafo avrebbe avuto pieno diritto a starci.
“Rivera fa cose che io, alla sua età, potevo solo sognarmi di fare“.
Un’investitura pesante, che avrebbe potuto piegare le gracili spalle di un ragazzino di provincia e che invece si rivela profetica. Il piccolo Gianni diventa il grande Rivera, volando sulle ali di un talento smisurato, inventandosi da solo un ruolo in campo che prima non esisteva e che tuttora è difficile da definire. I telecronisti moderni direbbero che era un giocatore che amava giocare tra le linee per innescare gli attaccanti: ecco, sappiate che ogni volta che sentirete il Pardo o il Piccinini di turno descrivere così un giocatore, quella cosa lì l’ha fatta per primo Gianni Rivera.
Diventerà simbolo e capitano del Milan, squadra lontana (ma neanche così tanto) dalla sua regione di nascita, difendendone i colori per venti gloriosi anni e incarnando un ciclo di straordinarie vittorie in patria e sui campi di tutta Europa. Sarà al centro delle discussioni in ogni bar, salone di barbiere e piazza d’Italia nell’estate del 1970, quando 55 milioni di allenatori si prendevano per i capelli litigando su chi dovesse giocare tra lui e Mazzola, in quel mondiale messicano in cui arrivò secondo solo dietro a un certo Pelè. Riuscirà a rendere concreto il suo soprannome d’infanzia, Golden Boy, quando, nel 1969, sarà il primo calciatore nato in Italia a portarsi a casa il Pallone d’Oro messo in palio da France Football, quando ancora il premio valeva qualcosa e non era una gara tra agenzie pubblicitarie, procuratori e social media.
Col suo stile inconfondibile, Rivera è stato uno dei totem inarrivabili di due interi decenni di calcio italiano. Non ce ne vogliano il già citato Silvio Piola o un altro nume tutelare della regione come Giampiero Boniperti: il calcio, in Piemonte, si chiama Gianni Rivera.
Il gol contro la Germania, speriamo, lo conoscete tutti. Allora è il caso di vedere cosa faceva Rivera con le maglie di Alessandria e Milan.
LOMBARDIA – Paolo Maldini
La storia del calcio italiano è piena di grandissimi protagonisti provenienti dalla Lombardia, vincenti e determinanti con la maglia dei loro club ma anche, in taluni casi, con quella della nazionale.
Non ce ne vogliano gli esclusi e ci perdoneranno gli “azzurrocentrici” ma il nome scelto è quello di Paolo Maldini.
Figlio d’arte del Cesarone nazionale e, a sua volta, padre di Daniel, altro calciatore militante nel massimo campionato, Maldini è stato bandiera e immagine universale del calcio italiano e, al tempo stesso, colonna portante indistruttibile ed invalicabile, per ragioni di ruolo.
Il suo nome permea la figura tipica del calciatore e del cittadino italiano nel mondo: difensivismo, tattica, tecnica, affidabilità, bellezza, romanticismo.
Per il ruolo, quello di difensore, ma anche per la sua grande duttilità: nato terzino destro, Maldini si trasforma fin da giovane in terzino sinistro senza pagare lo scotto del piede debole e, anzi, dimostrandosi prontamente calato nella sua nuova realtà, padroneggiando il possesso col piede mancino e diventando uno dei più grandi interpreti del ruolo nella storia del calcio.
Con il passare degli anni si è trasformato in difensore centrale, salvo tornare nel suo ruolo originario sul finire della carriera. E, anche se non più giovane, le sue performance non sono mai calate, frutto di affidabilità e professionalità, in partita come in allenamento, simbolo di una carriera esemplare.
Maldini è stato il capitano di più di una generazione di tifosi del Milan, cui non ha mai voltato le spalle neanche a carriera terminata, ma anche un giocatore di una bellezza abbacinante, in primis stilisticamente e, perché no, anche esteticamente: un marchio e un vanto per l’italianità intera nelle 126 occasioni in cui ha vestito la maglia azzurra.
Una sorta di rappresentazione calcistica di una divinità pagana, oggetto di culto per alcuni e di mera ammirazione artistica per altri. Un calciatore che neanche i rivali potevano esimersi dal rispettare e che nessuno era capace di disprezzare.
Nella sua carriera, fatta di 7 scudetti, 5 Coppe dei Campioni o Champions League ed altri 14 trofei tra coppe nazionali, intercontinentali e supercoppe, manca solo l’alloro con la nazionale, rimasto fermo sul dischetto a Pasadena nel 1994.
Destino comune al compagno di mille battaglie Franco Baresi ma non ad altri corregionali: come la bandiera dei rivali storici, lo Zio Giuseppe Bergomi, o Gigi Riva, miglior cannoniere della storia azzurra e più importante tra i lombardi capaci di imporsi come bandiera altrove, o, ancora, Andrea Pirlo, campione del mondo e rappresentante di ben tre squadre della regione.
Discorso a parte meriterebbe Giuseppe Meazza, due volte campione del mondo e monumento del calcio lombardo tanto da vedersi intitolato lo stadio milanese. Una carriera esemplare ed anche di grande impatto sul territorio, vestendo la maglia di ben quattro squadre della sua regione, con 216 reti in Serie A in 367 presenze.
Pur non potendo sottovalutare il loro apporto, Paolo Maldini ha rappresentato il calcio ed il Bel Paese come pochi altri e l’assenza di coppe all’epoca di Meazza ci fa propendere per lo storico capitano rossonero.
Il titolo di questo video la dice lunga: Paolo Maldini, il più grande difensore di sempre.
TRENTINO ALTO-ADIGE – Klaus Bachlechner
Torniamo a regioni con un livello un po’ più basso, con tutto il rispetto per i protagonisti.
Paradossalmente, nonostante una popolazione che supera il milione di abitanti, trovare un giocatore trentino o altoatesino che abbiano avuto una carriera degna di nota in Serie A è più complicato di quanto avvenuto in Valle d’Aosta.
A spuntarla, in questo duello dal sapore ben meno nostalgico e talentuoso di quello che si leggerà per altre regioni, è Klaus Bachlechner, difensore centrale classe 1952 proveniente da Brunico e capace di ritagliarsi una carriera in Serie A di tutto rispetto.
A far pendere la bilancia da suo lato è stata, in questo caso, la vittoria della Coppa Italia del 1982 con la maglia dell’Inter, squadra con cui ha anche conosciuto l’esordio nelle coppe europee.
Un successo al fotofinish, in volata su un corregionale in attività e capace anche di esordire in nazionale, Andrea Pinamonti, centravanti del Sassuolo.
Sebbene ad oggi Bachlechner sia anche il recordman regionale di presenze in Serie A (204 con un gol all’attivo), tale record sarà presumibilmente battuto da Pinamonti e forse anche da Fabio Depaoli, oggi in Serie B con la Sampdoria ma con sole 37 presenze di distanza.
Menzione d’onore per Carlo Sartori. Sebbene la sua carriera in Serie A sia stata deludente (appena 2 presenze nel Bologna 1973-74 senza mai scendere in campo nella Coppa Italia vinta), il centrocampista di Caderzone Terme è stato il primo straniero nella storia del Manchester United.
Nelle giovanili dei Red Devils si è formato assieme ad un genio del calcio come George Best, riuscendo a fare il salto in prima squadra e a mettere insieme 39 presenze nel massimo campionato inglese.
Il primo gol di Bachlechner in Serie A arriva in un Bologna-Pistoiese. Non esattamente il suo pane: per lui è un giorno memorabile.
VENETO – Roberto Baggio
Fermi tutti, già lo sappiamo: molti di voi non saranno d’accordo. Sembra già di sentire le voci di dissenso che si alzano: “Ma come Baggio? E Del Piero?”
Domanda legittima, ci mancherebbe altro. Entrambi sono rappresentanti di un gioco poetico, un calcio fatto di pennellate d’autore e di gol memorabili, di discese ardite e di risalite. Un percorso, il loro, che in alcuni tratti delle rispettive strade si somiglia molto, fino ad incrociarsi inesorabilmente nell’estate di Francia ’98.
L’azzurro è una parabola che i due figli del Veneto condividono, anche se vissuta in maniera opposta. Roberto Baggio dalla gioia al dolore, dall’ebbrezza delle notti magiche fino al rigore di Pasadena, per poi passare ai centimetri che hanno diviso un tiro al volo dalla rete di Barthez fino all’esclusione trapattoniana del 2002, quando forse neanche il suo talento ci avrebbe protetto dalle nefandezze di Byron Moreno. Del Piero dal dolore alla gioia, un mondiale di Francia in ombra e il successivo Europeo perso solo all’ultimo atto e con prestazioni aspramente criticate da giornali e tifosi. Il riscatto più bello, poi, con l’alloro del 2006 in Germania, agli ordini dell’uomo che con lui ha vinto tutto alla Juventus: Marcello Lippi.
Roberto Baggio assume i contorni di una figura quasi mitologica. Con le ginocchia sbriciolate da infortuni gravissimi già da ragazzo, ha saputo costruirsi una carriera straordinaria, anche se mai legata ad una singola squadra come Pinturicchio. Il Codino come simbolo di stile, diventato presto Divino tra Fiorentina e Juventus, con un Pallone d’Oro strameritato a corredo di magie da prestigiatore. Un premio ottenuto ad un punto della carriera in cui non aveva vinto ancora niente, se non la Coppa Uefa con la Juventus. Immaginatela oggi, una cosa così.
Una fantasia, la sua, spesso osteggiata anche da allenatori rigidi e da schemi che spesso sembravano gabbie studiate a mestiere per imprigionarne il talento. Eppure lui ha sempre saputo mostrarla, perché non poteva farne a meno. Non si può chiedere ad un pittore di smettere di dipingere: anche se gli togli tele e pennelli, troverà sempre il modo. Così ha fatto all’Inter, in un’epoca non esattamente sorridente ai nerazzurri, così ha fatto ancor prima a Bologna, trascinando la sua squadra in Europa a dispetto di un mister che forse mal sopportava la patina dorata che circondava il suo calciatore più forte. E poi il periodo quasi favolistico di Brescia, l’amore del compianto Carletto Mazzone, l’infortunio spezza-carriera e quel ritorno quasi impossibile, ma che c’è stato davvero.
È difficile, quasi impossibile raccontare Roberto Baggio a chi non l’ha visto. Ed è esattamente questo il motivo per cui è il calciatore più forte mai uscito dalle scuderie venete. Per quanto Del Piero, degnissimo rivale, gli arrivi alle spalle solo per poche incollature.
Fate un po’ voi.
FRIULI VENEZIA GIULIA – Dino Zoff
Di calciatori importanti nati in terra friulana se ne contano tanti, in particolar modo tra quelli che hanno fatto le fortune della nazionale azzurra tra gli anni ’60 e ’80. Inevitabile citare Tarcisio Burgnich, colonna difensiva dell’Inter di Picchi, oppure Fabio Capello, eroe del gol a Wembley contro l’Inghilterra, che al Milan ha concluso la sua carriera iniziandone un’altra fuori dal campo, dove diventerà uno degli allenatori più vincenti della storia del pallone. Anche Fulvio Collovati si merita un posto tra i grandi della regione: uno scudetto e una Coppa Italia col Milan, prima di alzare al cielo di Madrid la Coppa del Mondo del 1982.
Ma in quella spedizione vincente, a pochi metri da lui nello spogliatoio e in campo, gravitava il più grande friulano di tutti i tempi. Uno che il pallone, più che altro, lo toccava con le mani: Dino Zoff.
Elencarne le tappe della carriera rischia di essere esercizio inutile, ma alcune sono talmente importanti che vanno citate per forza. Zoff è l’unico calciatore italiano ad aver vinto sia l’Europeo (1968) che il Mondiale (1982) ed è stato ad un gol di Wiltord e successivo golden-gol da aggiungere anche un Europeo da CT al suo palmarès. Ha difeso per 11 lunghe stagioni la maglia della Juventus, senza mai saltare una singola partita, per la disperazione di tutti i portieri di riserva che speravano di rubare un’apparizione alle spalle del numero 1.
L’highlight più memorabile di una carriera lunga e produttiva è forse la parata senza senso contro il Brasile, nella partita simbolo dei Mondiali di Spagna. Un colpo di testa forte, preciso, angolato. Una grande percentuale di portieri non avrebbe neanche tentato il tuffo, alcuni ci avrebbero provato, altri in qualche modo avrebbero smanacciato. Lui no, lui si butta e blocca in due tempi. Senza quella parata probabilmente non si parlerebbe della tripletta di Paolo Rossi e quasi sicuramente non avremmo quattro Mondiali da esporre in bacheca.
Un uomo di poche parole ma di tante parate, capace anche di far coppia col mitico Sandro Pertini nella partita a scopone sull’aereo di ritorno da Madrid, il mazzo di carte in mezzo al tavolino e la Coppa del Mondo a fianco.
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