Chernobyl, la città della morte. Alla foce di un rivo, acqua dolce e salata s’incontrano disegnando una cartolina, una di quelle riprese che tanto si vedono in quei documentari sulla natura.
Percorrendo i confini rocciosi dell’estuario la corrente marina, più densa e perciò pesante, galleggiando sul fiume forma un cuneo, un conflitto pacifico. Nonostante le somiglianze tendiamo ad accomunarli, ma socialismo e comunismo non si mescolano: gemelli diversi della stessa madre, si respingono.
L’ideale di terzo Stato, il proletariato, sarebbe asceso al potere per ribaltare l’ordine costituito a vantaggio di egualitarismo ed eguaglianza. Dal crollo del muro sarebbe disceso il brunire del pensiero rosso-bruno.
La Guerra Fredda
Il liberismo fendeva il capitalismo di tangheri americani che, rifugiati in un bivacco dell’inesplorata Bretton Woods, avrebbero votato per il ruolo egemonico degli Stati Uniti nell’economia globale. Il nichilismo ha contribuito alla diffusione del pensiero esistenzialista, da cui sarebbero generati orrore e meraviglia per l’atomica.
I sovietici diedero inizio a un processo di gentrificazione, disegno di rinnovamento di nuovi complessi urbani, acciambellati a ingombranti reattori nucleari. Attingendo uranio impoverito dal proprio arsenale bellico, a metà degli anni Settanta, durante la costruzione di Chernobyl, lo zar avrebbe eretto una nuova città industriale.
Gli esperti del comitato scientifico ucraino si rifiutarono di costruire l’impianto nei paraggi di Kyiv, decidendo di fondare, a debita distanza, la cittadella di Atomgrad Pripyat. Una metropoli, sulle sponde dell’omonimo fiume, asservita a rifugio per gli ingegneri elettrici della centrale della vicina Chernobyl.
L’atomica
Il nucleare permise di promuovere il modello avveniristico sovietico. Il progresso industriale, manifesto dell’inclusività sociale del regime, avrebbe implementato il sistema di approvvigionamento elettrico del Paese.
Benché la propaganda fosse deterrente all’impiego degli ordigni al plutonio, i cittadini dovettero inventarsi un espediente per sopravvivere. Per farsi piacere un simile postaccio, d’altra parte, occorreva trovare una valvola di sfogo, qualcosa li tenesse impegnati e al tempo stesso li distraesse dal resto.
L’archivio fotografico immortala le attrazioni della cittadina: parco giochi, cinema, teatro e persino una piscina. In Ucraina, al confine con l’odierna Bielorussia, l’Unione Sovietica aveva veicolato un pensiero progressista, un’architettura avanguardista e tipicamente russa.
Il calcio a Chernobyl
Per consentire ai più giovani di svagarsi nel loro tempo libero, un terreno incolto, destinato alla coltivazione di patate, divenne campo di pallone. La cultura dello sport non aveva scardinato la concezione dei soviet, i quali preferivano insegnare come imbracciare un’arma da fuoco ovvero maneggiare una falce, piuttosto che come tirare di collo esterno. In cerca di una libertà apparente, gli operai di Pripyat si convinsero di fondare una società di calcio amatoriale.
Composto perlopiù dai giocatori del villaggio di Chistohalivka, la loro era una squadra di costruttori, la traduzione cui deriva il nome dell’organico. Persino la Lokomotiv Mosca era formata dai tranvieri della stazione ferroviaria della capitale. La fondazione dell’FC Stroitel Pripyat è da attribuire a Vasili Kizima Trofimovich, insignito del prestigioso titolo di membro dell’Ordine di Lenin.
La maglia
Con il passare del tempo, però, il club ha ottenuto degli ottimi risultati, abbastanza da arrivare alle porte dei campionati nazionali in seconda divisione sovietica. La polisportiva del dopolavoro avrebbe presto acquisito notorietà, riuscendo a convincere tanti buoni giocatori a sposare la causa.
Addirittura Stanislav Goncharenko vestì la loro maglia, un’uniforme tanto iconica quanto stravagante. Dalle foto – ormai ingiallite – di quegli anni, sottili strisce rosse e azzurre erano intervallate da rombi giallo ocra con il colletto a polo che chiudeva una casacca da fantino.
Icarus Football, brand di abbigliamento sportivo sperimentale, ha lanciato una ricostruzione fedele e storicamente accurata della divisa:
“Il motivo si ispira al Costruttivismo, un movimento artistico nato in Russia e strettamente associato all’Unione Sovietica, mentre i colori sono tratti dallo stemma di Pripyat. Lo stemma è una versione modificata di questo simbolo e le magliette hanno la scritta LEGASOV (in russo) sul retro per rendere omaggio a Valery Legasov, un chimico sovietico che indagò sulle cause del disastro e si impegnò a fondo per mitigarne le conseguenze e la possibilità di futuri disastri“.
Dopo oltre dieci anni di competizioni amatoriali, la squadra si unì alla quarta divisione del campionato nazionale. Nel 1981, guidato da Anatoly Shepel, ex giocatore di Dynamo Kyiv e Chernomorets Odessa, lo Stroitel fece il suo ingresso in Coppa, vincendo l’Oblast, il campionato della capitale.
Dopo l’arrivo di Goncharenko, l’organico del club si sarebbe rimpolpato di fugaci bucaneve: atleti, che, proprio come il fiore, duravano il tempo di un inverno. Il gruppo, che si era distinto per i risultati sportivi, avrebbe raggiunto il culmine della sua notorietà nel 1985.
Lo stadio
Arrivati primi nel girone eliminatorio, avrebbero così partecipato alla fase finale del campionato, rimediando una sconfitta contro l’FK Naftovyk Okhtyrka. Così facendo gli atleti persero il diritto ad accedere alla Vtoraya Liga, torneo di secondo livello organizzato dalla Repubblica Socialista Sovietica di Ucraina. La crescita dell’FC Stroitel, in ogni modo, aveva reso necessario un investimento per la costruzione di una nuova struttura, uno stadio che potesse ospitare svariate migliaia di spettatori.
L’inaugurazione dello Stadion Avanhard era prevista per il primo maggio del 1986, in concomitanza con la Festa dei Lavoratori, gli stessi che avevano contribuito alla sua nascita. L’impianto era sorto nel cuore della città industriale, nelle vicinanze della derelitta ruota panoramica, simbolo della città fantasma.
Il disastro di Chernobyl
26 aprile 1986, lo Stroitel Pripyat si stava allenando per prepararsi alla semifinale di Coppa della regione Kyiv contro il Mashinostroiteli della vicina Borodyanka, quando il reattore numero quattro della centrale di Chernobyl esplose. Come un’eruzione piroclastica, l’effusione gassosa aveva trasmesso una contaminazione endemica virale. Gli ospiti, sfortunati spettatori del disastro atomico, tentarono, invano, di sfuggire alla nube tossica.
Le autorità avrebbero evacuato 350.000 persone, registrando, ciononostante, 66 morti accertate e 116.000 sfollati. Ripercussioni che si sarebbero allargate anche ai paesi vicini. Per rimanere in ambito calcistico, al capitano dell’Aston Villa, il bulgaro, Stilijan Al’ošev Petrov, nel 2012 fu diagnosticata una grave forma di leucemia. Secondo Mihael Iliev, medico della Nazionale bulgara, la malattia era la diretta conseguenza dell’esposizione alle radiazioni di Chernobyl, assorbite dall’organismo di Petrov quando era ancora un bambino, in Bulgaria.
Le stime dei decessi richiamano da 4.000 a centinaia di migliaia di vittime. I bonificatori, soldati dell’esercito e operai volontari, sanificarono il perimetro dell’area infetta liberandolo dai detriti, rimanendo tuttavia esposti alle radiazioni.
La città fantasma
La flora infestante ha soffocato lo Stadion Avanhard che, come un teatro vuoto, avvolto della brulicante natura della steppa russa, non avrebbe udito mai nessuna voce. Una Casa dello Spasimo sovietica, l’ultimo chiodo della croce del regime – mausoleo a cielo aperto del proselitismo bolscevico.
Pripyat venne evacuata, anche se qualche giocatore, ignaro dei fatti della settimana precedente, si sarebbe presentato comunque al campo da calcio. La cenere cadeva a fiocchi, facendo da contorno a un clima apocalittico, distopia che potrebbe essere tranquillamente ispirata da uno dei racconti di Lovecraft.
Coperto da uno strato spesso di cemento, le sfortunate vittime speravano, in questo modo, di sventare la coltre mietitrice. La centrale, paradossalmente, ha continuato a funzionare per quattordici anni, fornendo l’energia di cui aveva bisogno Kyiv.
Si era alzata una nuvola di polvere, che avrebbe lasciato scendere una pioggia radioattiva. I rovesci si abbatterono sui tetti di quei piccoli abitacoli, abbandonati frettolosamente dai locali, sperando, perciò, di avere salva la vita.
La rinascita
Le famiglie furono ricollocate fra Bielorussia e Ucraina, ironicamente due tra le tre parti coinvolte nel conflitto umanitario in Crimea. La corsa agli armamenti accrebbe la credibilità dell’URSS agli occhi del mondo che, dal canto suo, avrebbe assistito alla disgregazione del predominio sovietico.
I forti venti propagarono il contagio fino in Svezia, che avrebbe denunciato il tentativo di occultamento da parte di Gorbaciov. Abbiamo diritto di dire che Pripyat sia la lapide mortuaria del comunismo russo: da lì a poco, infatti, il muro sarebbe crollato e con lui anche le convinzioni del regime.
A quarantacinque chilometri di distanza, lontano dall’epicentro atomico, sarebbe sorta Slavutych, città la quale, sulle catacombe dell’ecatombe, avrebbe ospitato i lavoratori di Chernobyl e le loro famiglie.
I calciatori dello Stroitel dovettero rinunciare a partecipare al campionato ucraino ma non si arresero a quell’inferno, decidendo di fondare la squadra dell’FC Stroitel Slavutych. Si voleva tornare alla normalità e l’unica ancora a cui ci si poteva aggrappare era la comunità e il proprio indomo desiderio di vivere.
La partita della memoria
La fioca fiamma dell’entusiasmo, nondimeno, si sarebbe presto spenta. Un dolore inconsolabile, il numero di vite rubate a questo mondo era davvero troppo grande per i vecchi lavoratori-giocatori. Nel 1998, dopo due stagioni anonime in campo regionale, il dramma collettivo portò allo scioglimento definitivo del club e alla diaspora dei suoi tesserati.
Una macchia di cui la Russia non si è mai liberata e mai lo farà. Eppure, nel 2018, a un ritrovo dei membri della FC Stroitel Pripyat, i calciatori hanno finalmente giocato la famosa gara contro gli iridati campioni dello Mashinostroiteli. Un ultimo simbolico evento per preservare la memoria di una squadra diventata, ormai, indimenticabile.
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