Lo Sheffield Zulus, il racconto della resilienza di un popolo rinato grazie al calcio. Ma prima di entrare nel merito della vicenda occorre passare da alcune doverose premesse.
La storia
Agli inizi del XIX secolo il Regno Unito aveva acceso un conflitto territoriale con il Sudafrica. Il Paese apparteneva ai possedimenti dell’Olanda, a cui la Corona aveva strappato la penisola del Capo e del Natal.
Laddove lo Stato di Sua Maestà non aveva intenzione di estendere l’influenza britannica nell’entroterra, i boeri si opponevano al diritto alla schiavitù. Da lì a poco sarebbe cominciato il Grande Trek, un fenomeno migratorio che coinvolse l’etnia caucasica, sottratta all’egemonia della regina Vittoria.
La polizia coloniale era intervenuta per sedare i moti rivoluzionari e seviziare i rivoltosi. Dopo la scoperta di giacimenti diamantiferi, il governo spinse per il coacervo della regione del Kimberley. Sulla scorta del modello canadese, questa manovra diede seguito alla politica di annessione del Regno di Zulu, uno dei pochi Stati africani ancora indipendenti.
Merito dell’egida di Shaka, il regname aveva unito il suo popolo sotto un’amministrazione pubblica centralizzata. Esteso fino al confine con il Mozambico portoghese, nonostante i rapporti di buon vicinato, Sir Bartle Frere dichiarò guerra ai coloni. Il principale ostacolo alla politica espansionistica dell’Impero erano stati proprio gli zulu, colpevoli di avere instaurato un apparato militare ostile al Regno Unito.
La battaglia
Appoggiato dal comandante delle forze britanniche in Sudafrica, Lord Chelmsford condusse un’importante azione propagandistica contro gli aborigeni. L’arme è rimasta coinvolta nella seconda guerra anglo-afghana. La Corona, dal canto suo, era riluttante a scendere sul campo di battaglia. I segnali non erano incoraggianti e, dopo l’ultimatum a Cetshwayo, si sarebbe combattuta la battaglia di Isandlwana. I britanni subirono una disfatta, centinaia di soldati del 24° Reggimento furono massacrati sulle rive del Ntombe.
Il disarmo delle insegne sull’altare dell’Africa nera, prova della resilienza degli indigeni opposti all’ingordigia della monarchia inglese. La supremazia dell’uomo bianco era stata arrischiata dalle urla di battaglia di quei selvaggi che, imbracciate le zagaglie, avevano messo in fuga i sudditi dell’Impero.
“Utilizzando la tattica dell’izimpondo zankomo di accerchiare il nemico, gli zulu sopraffecero l’esercito britannico con i loro numeri e gli inflissero più di mille morti. Ancora provato dalla disastrosa sconfitta, l’esercito imperiale affrontò la sfida successiva lo stesso giorno nella stazione di missione di Rorke’s Drift. Una misera forza di poco più di 150 soldati respinse un esercito zulu di 3.000-4.000 guerrieri, fornendo un punto di raccolta vitale per l’esercito britannico”, scrive l’ecclettico Somnath Sengupta.
Attori o calciatori?
Le cronache di Nottingham, Dublino e Glasgow riferivano di maltrattamenti a sfondo razziale, Mr. Brewer avrebbe riunito una squadra di calcio amatoriale chiamata Sheffield Zulus. Sia chiaro, nulla a che vedere con gli omonimi warriors, gli hooligans appartenenti alla perigliosa tifoseria della Steel City: “Le football ends del Birmingham, facinorose e rabbiose, sono state occupate fino all’inizio degli anni ’80 da gruppi di skinheads e bootboys, per lo più dichiaratamente razzisti”.
Proprio in questo periodo però in Gran Bretagna, luogo che da sempre è terreno fertile per la nascita e lo sviluppo delle più svariate sottoculture giovanili, prende vita il two tone ska, anche detto second wave ska, ossia un genere musicale che mescola ska con elementi punk rock.
L’imprenditore di Fargate era appassionato di football, una nuova disciplina sportiva che aveva preso piede nel South Yorkshire. Il gruppo avrebbe partecipato ad alcuni tornei di beneficenza, delle raccolte fondi per le vedove di guerra. Così sembrava, sebbene gli atleti si spartissero in parti uguali il ricavo della serata.
Come si legge su The Victorian Football Miscellany, armati delle spoglie di guerra, i giocatori si annerivano il volto, scimmiottando la black face. Dalle tragedie greche al teatro Kabuki, gli artisti facevano giocoleria come i moderni Harlem Globetrotters. Un tour itinerante, le loro esibizioni intrattenevano fiumi di folle. Del resto era un’epoca in cui il calcio era considerato più alla stregua di una fonte di intrattenimento che di uno sport a pagamento.
L’Accademy dell’Hallamshire formava aspiranti attori nella veste di nemici da fischiare. Il pubblico era fatto non solo di tifosi ma di gente che voleva sapere dei risvolti della guerra al fronte. I figli dell’Albione, d’altro canto, erano caduti vittima delle armi bianche degli zulu; ai loro padri non restava altro che ridere. In un’epoca in cui Sheffield era fucina di fabbri e calciatori, questo team era una macchietta parodistica delle tribù africane.
Gli attori degli Zulus
La sospensione dell’incredulità scendeva nell’irreale, tant’è che a giocare erano soprattutto accattoni in cerca di un facile guadagno. Il pittoresco Magnenda era James Reddie Lang, operaio il quale, caduto vittima di un incidente sul lavoro, aveva perso un occhio. Assunto in una ditta produttrice di coltelli, lo scozzese restava seduto su uno sgabello tutto il giorno per preservarsi per l’incontro di sabato.
Re Cetewayo o Thomas Buttery aveva cinquant’anni quando ebbe inizio la sua carriera da difensore. Jack Hunter era già nel giro della Nazionale inglese. Lo stesso di The Sheffield Dodger Billy Mosforth che, da buon bomber, giocava in cambio di casse di birra e cene pagate.
Gli zulu avrebbero giocato una serie di incontri a Scarborough, suscitando l’interesse del pubblico di casa. Il riscontro fu così positivo che decisero di cominciare una tournée in giro per le città più popolose della Confederazione.
L’esordio
Mentre la finale di FA Cup, disputata al Kennington Oval di Londra, radunava tra i cinque e i seimila spettatori, le gare di Re Cetewayo erano viste da circa duemila persone.
Il 24 novembre 1879, sotto una pioggia battente, avvolti dalla proverbiale foschia britannica, si disputò un match al Recreation Ground di Chesterfield e, come riportato da un pezzo di In Bed With Maradona: “La squadra locale Town Club (l’attuale Chesterfield FC) ospita i Messrs Brewers and Rolling’s Original Zulus. Gli Zulu si presentano con un aspetto molto tollerabile: indossano maglie nere con frange bianche e calze nere, hanno volti scuri con piume come copricapo e perline al collo”. Una sfida destinata a passare alla storia come la partita del perdono.
Con la fascia da capitano al braccio, Re Cetewayo intona un discorso in inglese. Inginocchiati al cospetto di Sua Maestà, dopo avere combattuto gli invasori nel Sudafrica, gli zulu erano approdati in terra straniera per batterli nel loro sport nazionale.
Mietere i Tre Leoni, lasciando loro l’incasso del botteghino per aiutare le famiglie delle vittime di guerra. Prima del fischio d’inizio, battendo le assagai sugli scudi, come i Māori con la Haka, gli ospiti si esibirono in una danza rituale propiziatoria.
Nell’aprile del 1880, sotto il nome Sheffield Holmes Zulus, il club si recò a Hampden Park per affrontare il Queens Park, blasonata formazione della vicina Scozia. Gli zulu persero 7-0 contro gli avversari, che potevano schierare il capitano Andrew Watson, il primo calciatore di colore a giocare un incontro internazionale – rimasto sorpreso del viso color carbone della controparte.
L’epilogo
Come si evince da un articolo de L’uomo nel Pallone: “Fin dall’inizio fu chiaro che gli Sheffield Zulus erano un appuntamento popolare, tanto da ricevere un invito a giocare in Scozia. Tuttavia, le loro imprese a nord del confine non ebbero altrettanto successo”.
Il progetto sarebbe sfociato in un contradditorio con la Federal Association che aveva ricevuto segnalazioni dall’arbitro William Pierce-Dix, segretario onorario di Sheffield: “Gli zulu andavano in giro per il paese a giocare partite in un modo che, secondo il comitato, era calcolato per degradare il gioco e portare discredito su coloro che vi erano collegati; inoltre, questi giocatori ricevevano un pagamento per giocare”.
La compagnia teatrale era accusata di assumere la forma non più di una squadra di amatori ma di professionisti. I tesserati, prontamente ammoniti, furono minacciati di venire squalificati a vita: “In futuro qualsiasi giocatore che abbia partecipato ad una partita con gli Zulu o che in qualche modo abbia ottenuto una ricompensa, sarà sospeso da tutte le partite sotto l’egida dell’Associazione”.
Il lieto fine
Nell’Inghilterra settentrionale, a nord del Vallo di Adriano, tra le counties di Darwen e di Lancashire il football aveva fatto breccia nei cuori dei patrizi e della working class. In quegli anni l’ex centromediano degli Zulus avrebbe fondato il Blackburn Olympic, la prima selezione operaia a vincere la FA Cup.
Nel 1885 Re Cetewayo, al secolo Cetshwayo Kampande, ultimo sovrano dell’Impero Zulu, fatto prigioniero nella capitale, avrebbe incontrato la Regina Vittoria. Era grazie al suo popolo se il calcio era diventato qualcosa di più di un semplice passatempo. Come si legge su Bleacher Report: “Cinquant’anni dopo la visita di Cetewayo in Inghilterra, la sua nazione ha potuto vantare una propria squadra di calcio quando è stato fondato lo Zulu Royals United (poi conosciuto come Amazulu). Da quella data, il club è diventato l’orgoglio e la gioia di milioni di zulu che vivono nella provincia di KwaZulu-Natal”.
Richard Sanders in Beastly Fury: The Strange Birth Of British Football, racconta che, col salto nel mondo dei professionisti, non prima del dissolvimento del club, molti calciatori si sarebbero accasati allo Sheffield Wednesday. Come si legge su Hatters, Railwaymen and Knitters: Travels through England’s Football Provinces di Daniel Gray, possiamo azzardare che lo Zulus sia la prima squadra professionistica del mondo. Un affaire politico e una storia di calcio.
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