Il capitano, nel calcio, esiste da circa due secoli. Ancor prima dell’introduzione del ruolo dell’arbitro, erano infatti gli stessi capitani delle squadre a garantire la regolarità delle partite. Non esistono requisiti precisi per designare il capitano di una squadra. Nel regolamento dell’IFAB, l’organo che stabilisce le regole del calcio a livello internazionale, la parola “capitano” viene menzionata solo 5 volte in oltre 200 pagine. È scritto che si debba indossare una armband, una fascia, per identificare il ruolo del capitano. L’Italia, pioniera da questo punto di vista, introduce la fascia di capitano a partire dalla stagione 1949-50, l’anno successivo alla strage di Superga, la tragedia che consegna alla leggenda il Grande Torino. In principio, si utilizza il termine “bracciale” anziché “fascia”, perché il fascismo è finito da poco.
Le regole della FIFA stabiliscono che le fasce dei capitani debbano contenere la scritta Captain, oppure essere identificate da una C, per renderle un simbolo uniforme a tutte le squadre. Una modifica introdotta di recente, prima non era così. Il primo a personalizzare la fascia da capitano è stato Johan Cruijff, nel 1976, il primo ad indossare una banda con i colori della Catalogna, a seguito della morte del dittatore spagnolo Francisco Franco. Un messaggio politico, identitario.
Nel 1976, Agostino Di Bartolomei ha 21 anni. Si sta, come si dice in gergo, “facendo le ossa” nel campionato di Serie B, con la maglia del Vicenza. Gioca davanti alla difesa, da centrocampista basso. Non eccelle nella velocità e nello scatto, ma ha un buon piede. I suoi lanci per gli attaccanti sono precisi. Spesso, tira anche da lontano, soprattutto i piazzati. È un giocatore leale, corretto, se c’è una qualità che non gli manca mai è la lucidità.
Famiglia e romanità
Ripercorriamo le tappe principali della sua carriera, vissuta soprattutto in giallorosso ma durante la quale ha vestito anche le maglie di Vicenza, Milan, Cesena e Salernitana, prima di trovare la morte, a San Marco di Castellabate, in Campania, il 30 maggio del 1994. A 10 anni esatti di distanza da una finale di Coppa dei Campioni, ne parleremo.
Si è sparato un colpo al cuore con una pistola Smith & Wesson calibro 38, a 39 anni, lasciando la moglie Marisa e il figlio Luca. E tanti tifosi che, di quel Capitano portano dentro la lealtà, la riservatezza, l’amore, sconfinato, per la Roma.
L’8 aprile 1955 è un venerdì. Franco Di Bartolomei, trentadue anni, legge il giornale. In prima pagina, si parla del rientro in Italia del Presidente del Consiglio Mario Scelba dopo una missione negli Stati Uniti. La cronaca locale del Messaggero dà spazio al tragico suicidio di un ballerino ungherese di 48 anni, Istvan Matè, il quale aveva anche fatto il massaggiatore della Roma. Della Roma e di Roma, in questa storia, si parla parecchio.
Franco Di Bartolomei è appena diventato padre per la seconda volta. La primogenita Daniela, di 4 anni, e poi Agostino. Decidono di chiamarlo come il nonno materno, che è venuto a mancare da qualche anno. La famiglia si sposta dal Tuscolano a Tor Marancia, una borgata che nel tempo è diventata un quartiere della street art, con diversi murales realizzati da artisti di fama internazionale. A parlare di Tor Marancia, nel 1954, è anche lo scrittore e poeta Alberto Moravia, nei suoi “Racconti romani”.
Vanno a vivere in via Francesco Gian Giacomo numero 12, poco distante dal campo della Chiesoletta, vicino all’oratorio. Un campo che il piccolo Agostino comincia a calpestare prestissimo, intorno ai 6 anni. Gioca prima per la Lante e poi per l’OMI, nel giro di pochi anni diventa chiaro a tutti che “il ragazzo si farà”. Gioca come mediano di spinta, quello che detta i tempi. Il cervello della squadra. Ha anche un tiro forte e preciso, soprattutto quando si tratta di battere i calci piazzati.
Da grande, Agostino vorrebbe fare il medico. È un ragazzo intelligente e studioso, anche se di poche parole. Nel giudizio finale al termine della scuola media i professori scrivono “Ha una buona inclinazione allo studio, è serio e costante nel metodo, ha l’apprendimento molto facile”.
A 13 anni rifiuta la proposta di un osservatore del Milan che lo aveva visionato, in seguito dirà che l’idea di diventare emigrante così giovane gli sembrava insopportabile. A convincerlo è invece il segretario del settore giovanile della Roma Camillo Anastasi. Nel 1969 la Roma è allenata dal Mago Helenio Herrera, che nelle 8 stagioni precedenti, alla guida dell’Inter, aveva vinto tutto: 3 campionati italiani, 2 Coppe dei Campioni e 2 Coppe Intercontinentali.
Helenio Herrera alla guida della Roma. Fu lui a benedire l’arrivo di un giovane Di Bartolomei
Leader sin da giovane
Il provino del 30 luglio 1969 si tiene sul campo delle Tre Fontane, dove si allena la prima squadra. Ad assistere c’è anche Helenio Herrera. Di ragazzi, ne prendono 42. Il Corriere dello Sport scrive e assicura che “è tutto quanto di meglio era sulla piazza”. Nella lista dei nomi, spicca proprio quello di Agostino Di Bartolomei, proveniente dall’OMI. Di lui, sottoscrive Herrera, si sentirà presto parlare. Il giovane centrocampista si fa strada in fretta, nel settore giovanile si fa apprezzare per la serietà e l’abnegazione. Ha un carattere schivo e introverso che non piace a tutti, inoltre continua a coltivare la passione per lo studio, in controtendenza rispetto a tutti i suoi compagni.
Nel luglio del 1973 supera l’esame di maturità con il voto di 38/60, ma guadagna già più dei suoi professori. Il 22 aprile ha infatti esordito in Serie A, è sceso in campo a San Siro al posto dell’assente capitano giallorosso Franco Cordova in un’Inter-Roma 0-0. Ma soprattutto ha appena vinto lo scudetto Primavera, oltre che da protagonista, da capitano.
Deve abbandonare l’idea di fare il medico, ma sceglie comunque di continuare gli studi iscrivendosi a scienze politiche. Da grande è ancora convinto che non farà il calciatore, forse diventerà giornalista.
La realtà però dice che l’anno successivo la Roma dei giovani è ancora più forte. L’allenatore è Antonio Trebiciani, un’istituzione nell’ambiente del club capitolino. Ad aggiungersi ad un gruppo già forte di suo è un ragazzo di Nettuno non molto alto, coetaneo di Agostino: si chiama Bruno Conti. Sarebbe potuto diventare un grande giocatore di baseball, un giovane di belle speranze su cui alcuni dirigenti dell’Università di Santa Monica, in California, avevano messo gli occhi. Rifiuta una borsa di studio per gli Stati Uniti per scegliere il calcio ma il primo provino con l’Inter non va secondo le aspettative.
A scartarlo, per un problema di statura, è ironia della sorte lo stesso Helenio Herrera.
Conti è alto meno di un metro e settanta, ma ha un piede sinistro che sembra fatato. E in quella squadra, la Roma Primavera, trova subito la sua dimensione.
Insieme a Conti e Di Bartolomei dovrebbe giocare anche lo sfortunato terzino Francesco Rocca. Lo chiamano Kawasaki, per via delle sue sgroppate sulla fascia destra. Figura ancora nel gruppo Primavera ma è uno dei più utilizzati dalla prima squadra con 30 presenze in Serie A, poco più che diciottenne. Lascerà il calcio a soli 26 anni, dopo una breve carriera rovinata dai continui infortuni al ginocchio.
La Roma Primavera nella stagione 1973-74 si aggiudica di nuovo lo scudetto e anche la Coppa Italia, ai calci di rigore contro la Juventus. Dopo un inizio incerto che costa la panchina all’allenatore Scopigno, reduce dal tricolore conquistato a Cagliari, invece, la prima squadra chiude il campionato all’ottavo posto. È cominciato il ciclo di Nils Liedholm, il Barone.
E proprio in occasione dei festeggiamenti per la vittoria del titolo Primavera, il nuovo tecnico giallorosso ha l’opportunità di mettere gli occhi su Di Bartolomei. Ha solo 19 anni, non sa cosa vuole fare da grande ma gioca e si comporta da veterano. Una maturità non comune per un ragazzo della sua età.
Essere nominato capitano di una squadra, per un atleta di qualsiasi sport, dovrebbe rappresentare un onore. I grandi capitani dovrebbero essere capaci di mettere l’interesse della squadra al primo posto. Dovrebbero essere coerenti, coraggiosi, carismatici. Nils Liedholm, mentre ascolta Di Bartolomei parlare alla fine della cerimonia, identifica in lui tutte queste qualità. Riflettendo fra sé e sé, ha modo di pensare: “Questo è un vero capitano”.
Nebbia calcistica e politica
Agostino Di Bartolomei ha un carattere introverso e riservato, tanto da dover convivere con una sorta di “fama di antipatico”. Per Agostino, amante della letteratura e dell’arte, il fatto che i romani siano persone allegre è soltanto un luogo comune. Egli sostiene, anzi, che debbano essere tendenzialmente persone tristi, perché consapevoli della decadenza rispetto ai tempi in cui l’Impero Romano dominava il mondo.
Agostino Di Bartolomei non vuole essere secondo a nessuno, ci mette tre stagioni a capirlo. Nel suo ruolo di centrocampista davanti alla difesa, il titolare è il capitano giallorosso Franco Cordova. Le perle preziose del settore giovanile della Roma allora decidono di andare a giocare in serie B. Per quegli anni una normale consuetudine. Bruno Conti viene mandato al Genoa, Agostino Di Bartolomei al Vicenza.
Dopo 33 presenze e 4 gol in serie B, una stagione vissuta sempre nei bassifondi della classifica della categoria cadetta, con una salvezza conquistata alla penultima giornata, Di Bartolomei torna nella capitale.
All’alba del campionato 1976-77, dopo 9 anni in giallorosso, il capitano Franco Cordova lascia la Roma. Il patron della squadra Anzalone, amante dei giovani, lo considera un esubero.
Il trasferimento sull’altra sponda del Tevere, alla corte della Lazio del presidente Lenzini, sa però di tradimento, provocando peraltro anche una fredda accoglienza da parte dei sostenitori biancocelesti.
Il nuovo capitano della Roma è il libero Sergio Santarini, ma la linea verde del progetto romanista di Liedholm è sempre più incentrata su di loro, Agostino Di Bartolomei e Bruno Conti. A loro si è aggiunto il promettente centravanti 22enne Giuliano Musiello, proveniente dall’Avellino. Al centro del campo e del progetto, Di Bartolomei è bersagliato dalle feroci critiche della stampa, soprattutto per la sua lentezza nei movimenti, in un calcio che sta sempre più evolvendo in direzione della velocità.
Nils Liedholm, quando può, lo difende a spada tratta, esaltandone le idee di gioco, la potenza nel tiro e la capacità quasi naturale di fungere da equilibratore, dentro e fuori dal rettangolo verde. In una Roma non esaltante che chiude all’ottavo posto, complice anche la delusione del nuovo arrivato Musiello che fatica in fase realizzativa, il tanto criticato Di Bartolomei è il migliore marcatore della squadra, con otto reti. E lo sarà anche l’anno successivo, questa volta toccando la doppia cifra con 10 marcature, di cui 4 su calcio di rigore. Liedholm è tornato a sedersi sulla panchina del Milan, mentre alla Roma è arrivato Gustavo Giagnoni dal Bologna.
Il campionato 1977-78 è una fotocopia del precedente: Juventus campione d’Italia, Torino che insegue, Roma all’ottavo posto. In una classifica però strettissima, con la metà delle squadre coinvolte nella lotta salvezza fino all’ultima giornata.
Per la Roma, i punti decisivi arrivano proprio nelle ultime due partite, un pareggio interno per 1-1 contro la Juventus, che proprio all’Olimpico festeggia il suo diciottesimo tricolore, e una vittoria esterna contro l’Atalanta. In entrambe le gare, c’è la firma di DiBa.
Alla fine retrocedono Genoa, Foggia e Pescara. L’ultima giornata del torneo si tiene il 7 maggio 1978. Due giorni dopo le Brigate Rosse fanno ritrovare il corpo di Aldo Moro in via Caetani, una strada emblematicamente vicina sia a piazza del Gesù, sia a via delle Botteghe Oscure, rispettivamente, le sedi nazionali della Democrazia Cristiana e del Partito Comunista. Contemporaneamente nella cittadina di Cinisi, in provincia di Palermo, viene assassinato il giornalista e attivista Giuseppe Impastato detto Peppino. Aveva tentato di denunciare le attività illecite di Cosa Nostra attraverso una radio libera.
Quella del 1978 è un’estate strana. Una stagione drammatica per la nostra Repubblica. Una stagione di sangue. La classe politica decide di mettere il proprio destino in mano ad un uomo di 82 anni. Nessuno immaginava che sarebbe stato il Presidente della Repubblica più amato di sempre: Sandro Pertini.
Ago nei suoi primi anni in giallorosso
Perno della nuova Roma
Il salto di qualità per la Roma del presidente Anzalone che proprio sui giovani fonda la sua filosofia di calcio, non arriva mai. Abbandona la guida del club giallorosso dopo 8 anni. L’ultimo regalo è il centravanti di belle speranze Roberto Pruzzo dal retrocesso Genoa, un attaccante con il vizio del gol: ne aveva messi a segno 27 in due stagioni di serie A con i grifoni.
Pruzzo sbarca nella capitale insieme all’esperto difensore Luciano Spinosi, per quest’ultimo un ritorno in maglia giallorossa dopo 8 stagioni alla Juventus. L’artefice principale di queste due operazioni di mercato è un consulente che farà parlare di sé, Luciano Moggi. Il suo sodalizio con la squadra della capitale dura soltanto un anno perché non piace al nuovo presidente Dino Viola.
L’arrivo del nuovo patron giallorosso coincide anche con il ritorno di Nils Liedholm, reduce dalla conquista del decimo scudetto alla guida del Milan. Il Barone chiede e ottiene di poter lavorare con i ragazzi che già aveva conosciuto e apprezzato nella sua esperienza precedente: arriva così il riscatto di Bruno Conti, che era nuovamente stato ceduto al Genoa, e la conferma di Di Bartolomei. Il presidente Viola spende inoltre più di un miliardo di lire per regalare a Liedholm un giovanissimo e promettente centrocampista che con il Parma è appena stato promosso in serie B, il 20enne Carlo Ancelotti.
Una girandola di nomi e di volti, con un grande punto fermo. È Agostino, il pubblico lo ribattezza “Ago”. È il riferimento di una squadra ancora modesta, che vuole diventare grande. Nonostante il suo atteggiamento in apparenza distaccato, in campo si spende stoicamente per la causa giallorossa. Il pubblico lo nota, lo percepisce. Arriva anche la prima partita da capitano, in uno spento 0-0 contro il Milan. Indossa la fascia proprio nello stadio che lo ha visto esordire, per il momento soltanto un episodio dettato dalle coincidenze e segnatamente dalle assenze di Santarini e di Rocca, il vice-capitano.
La difesa a zona di Liedholm produce i suoi effetti, arriva così il primo titolo. La Roma si aggiudica la sua terza Coppa Italia ai calci di rigore, dopo una estenuante sfida contro il Torino di Pulici e Graziani. Le due squadre saranno nuovamente contrapposte anche l’anno successivo, con una nuova vittoria giallorossa. In campionato, arrivano un settimo e un secondo posto.
Capitano, padre, guida
La formazione di Liedholm si è ulteriormente rinforzata con lo sbarco nella capitale di Paulo Roberto Falcao, centrocampista brasiliano proveniente dall’Internacional di Porto Alegre. Giocatore di grandi capacità tecniche, efficace sia nella fase offensiva che in quella difensiva. Nel mentre il capitano giallorosso ha cambiato nome. Il Barone ha scelto Agostino. Un calciatore di cui ha grandissima stima sin da quando era giovanissimo e giocava ancora per la Primavera.
“Molte volte con Agostino non c’era bisogno di parole. Faceva dei lanci lunghi 30 o 40 metri, di incredibile precisione. Era molto intelligente. Aveva l’idea del calcio praticato per gli altri, per il bene della squadra”. Lo ricorda così lo stesso Liedholm, in un’intervista di molti anni dopo.
Marisa De Santis è una hostess dell’Alitalia. È una bella donna, fascino ed eleganza proprio non le mancano. Si è sposata molto giovane e ha già avuto un figlio, lo sta crescendo da sola. Ago la incontra ad una festa, inizialmente però la scintilla non scoppia. Manca l’innesco. Il capitano della Roma ha un carattere schivo, ma ascolta molto. Un temperamento introverso che spesso nella sua vita rappresenta per lui un motivo di intralcio, quasi fosse un ostacolo, una mancata accettazione da parte degli altri.
Marisa ha la pazienza di capire. Ha 7 anni in più di lui, conoscendosi scoprono di avere molte passioni in comune: soprattutto l’arte e la letteratura. Frequentano spesso le mostre che si tengono in città, stringono amicizia con qualche personaggio illustre del panorama artistico della capitale. Nel 1982 nasce Luca, una gioia che compensa l’amarezza per non aver ricevuto la chiamata per il mondiale di Spagna, dal quale gli azzurri tornano vincitori e del quale “Il Folletto” Bruno Conti è stato grande protagonista.
L’anno della svolta è il 1983. Di Bartolomei è l’uomo in più. Liedholm decide di arretrarlo nella posizione di libero, gioca di fianco al giovane stopper Pietro Vierchowod acquisito dalla Sampdoria.
Una delle tante innovazioni tattiche di quella stagione che per la Roma diventa subito magica. In tutto il campionato, escono sconfitti solamente 3 volte. Un unico brivido, la paura di non farcela dopo la sconfitta interna contro la Juventus di Tardelli, Scirea e Platini. Poi si rialzano, grazie alla vittoria di Pisa nel turno successivo. Per Ago, romano e romanista, il terrore di perdere tutto è sempre dietro l’angolo. Poi i punti di vantaggio della Roma nei confronti della Juventus diventano 4.
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Quando la Roma festeggia il suo secondo scudetto sono le 17.43 dell’8 maggio 1983. È appena finita la gara contro il Genoa, un pareggio per 1-1 che ai grifoni ha regalato la salvezza e ai capitolini un trionfo atteso per quarant’anni. La festa della domenica successiva, nella passerella all’Olimpico contro il Torino, coinvolge tutta la città. Un tripudio di cori e di bandiere che culmina in una emozionante celebrazione sportiva, per un grido di gioia, quello della capitale, che per troppi anni è rimasto strozzato in gola.
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Dolore che non si cancella
Nessuno avrebbe potuto immaginare che di lì a un anno di distanza la Roma del Barone Liedholm avrebbe disputato la finale di Coppa dei Campioni, all’esordio assoluto nella competizione.
Goteborg, CSKA Sofia, Dinamo Berlino, Dundee United. Vittime illustri di una squadra che non si arrende mai, che se gioca come sa fare può sconfiggere chiunque. Una cavalcata trionfale sublimata dalla rimonta in semifinale contro gli scozzesi del Dundee. Dopo aver perso l’andata per 2-0, i giallorossi sono stati in grado di ribaltare il risultato segnando 3 reti nella gara di ritorno: doppietta di Pruzzo e rete di Agostino su calcio di rigore. Il presidente Viola aveva addirittura tentato di corrompere l’arbitro della gara, il francese Michel Vautrot, ricevendo una sanzione da 200mila franchi. Una vicenda sportiva e giudiziaria che ancora oggi si porta dietro qualche strascico.
Fatto sta che, in un modo o nell’altro, la Roma di Nils Liedholm conquista la finale.
Come fosse un racconto di fantasia, si gioca proprio allo Stadio Olimpico. Di fronte ci sono gli inglesi del Liverpool guidati dal centravanti Ian Rush.
È il 30 maggio 1984. Il popolo giallorosso è sicuro di farcela. Tra i 70mila che assistono alla gara sugli spalti c’è anche il futuro tecnico della Roma Sven Goran Eriksson. La sua filosofia di calcio si fonda sul pressing. È un gioco veloce, temerario, innovativo. Molti anni dopo nella capitale vincerà un campionato di Serie A. Lo farà sull’altra sponda del Tevere, con i colori della Lazio. Ma questa è un’altra storia.
La partita rimane in assoluto equilibrio per 120 estenuanti minuti. I tempi regolamentari si chiudono sul punteggio di 1-1. La rete di Phil Neal per il Liverpool, la risposta di Pruzzo per la Roma. Poi il risultato non cambia più, per la prima volta nella storia la Coppa dei Campioni viene assegnata ai calci di rigore.
Il destino sembra poter andare in direzione della Roma quando Agostino trasforma dal dischetto in seguito all’errore dell’inglese Nicol. Il destino, però, cambia presto traiettoria. La Roma esce sconfitta, risultano fatali gli errori di Bruno Conti e di Ciccio Graziani, a fronte di due segnature dei Reds. Non c’è nemmeno il bisogno di battere il quinto rigore. Una ferita che fa male.
Lo scambio di gagliardetti con Souness prima della drammatica finale del 30 maggio 1984
Ultimi anni di carriera
L’arrivo di Eriksson sulla panchina giallorossa e la contemporanea rottura con la dirigenza mettono Agostino alla porta dopo quindici anni di fedeltà alla stessa maglia, difesa con ogni mezzo. Se ne va senza un perché, con un triste commiato dei suoi tifosi. Per una volta, decide di non tenere tutto dentro. Così, si racconta al Corriere dello Sport.
Possono dire tutto, ma sulla mia professionalità nessuno deve aprire bocca. Potrei dire tante cose, ma non farò polemiche. Hanno detto tante cose, ma non ho mai dato peso alle meschinità. Hanno detto che sono troppo amico di gente importante, della stampa, dei giornalisti. Se in qualche caso è vero, ne sono orgoglioso. Perchè me ne vado? Non lo so. Spero solo sia una scelta tecnica, altrimenti la società darebbe prova di debolezza. Lascio da vincitore, non da uomo sconfitto.
Va a giocare per il Milan, seguendo il percorso del suo maestro Nils Liedholm. Non lega molto con i compagni, eccetto il britannico Ray Wilkins, collega di centrocampo. Ironia della sorte, si ritrova a segnare una rete proprio contro la sua Roma, lasciandosi andare ad un’esultanza che il popolo giallorosso non gli perdonerà mai. La partita di ritorno si chiude quasi in rissa, con un’accoglienza gelida da parte dei suoi ex tifosi.
Durante la permanenza a Milano, stringe buoni rapporti con il nuovo patron della società rossonera, Silvio Berlusconi. L’imprenditore però ha già in mente di congedare Liedholm in favore dell’emergente Arrigo Sacchi. Una scelta folle, ma terribilmente visionaria. Per Ago non c’è più spazio.
Le ultime tappe della carriera con le maglie di Cesena e Salernitana gli consentono di raggiungere due nuovi importanti traguardi: una salvezza conquistata con i romagnoli, una storica promozione in serie B con i campani, segnando peraltro anche la rete decisiva.
La scelta di Salerno, di andare a giocare in Serie C, è tutt’altro che un caso. Ago e Marisa avevano deciso di avvicinarsi ai genitori di lei, di comprare casa nella frazione di San Marco di Castellabate, una villetta vista mare.
Ago con la maglia del Milan
Addio, Ago
Nel 1990 il ritiro dal calcio giocato per portare avanti un progetto ambizioso: l’apertura di una scuola calcio per giovani talenti, per insegnare loro i valori dello sport. Non tanto attraverso le parole, che Agostino non sa gestire, ma grazie al suo temperamento equilibrato, mai sopra le righe. A modo suo, aveva fatto sapere che avrebbe desiderato tornare a Roma. Contava di vivere una carriera da allenatore. Si stupiva che il calcio, l’amore di una vita, gli avesse voltato le spalle.
Che gli avesse chiuso le porte da un momento all’altro, dimenticandosi di lui.
Adorata Marisa
Mi hanno rifiutato il mutuo. Mi sento chiuso in un buco. Il mio grande errore è stato quello di cercare di essere indipendente da tutto, di non aver saputo dire di no su nulla alla mia famiglia. Ti adoro, e adoro i nostri splendidi ragazzi, ma non vedo l’uscita dal tunnel.
Quando Agostino Di Bartolomei si toglie la vita è il 30 maggio 1994. Sono passati dieci anni esatti dalla finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool. Un mese e due giorni dalla vittoria del patron del Milan Silvio Berlusconi alle elezioni politiche. 28 giorni dalla morte di Ayrton Senna al Gran Premio di San Marino, presso l’autodromo di Imola.
Ago si toglie la vita con una pistola Smith&Wesson calibro 38, un solo colpo, dritto al cuore. Nessun segnale, nessun movente apparente. Solo quel “non vedo l’uscita dal tunnel”, una lettera che la moglie trova diversi giorni dopo il tragico gesto. Si parlerà di debiti, di qualche investimento finito male. Di uno stato di malessere che perdurava da diverso tempo. Approfondire questo aspetto non avrebbe alcuna rilevanza.
Il Messaggero, idealmente, consegna la sua fascia di capitano ai posteri. Il titolo “Povero figlio mio” è uno sfogo personale di suo padre Franco. “Mio figlio cercava soltanto comprensione. Nelle lettere, hanno detto, non chiedeva nulla. E quando mai Agostino ha chiesto qualcosa?”. Nella stessa pagina, in alto, un trafiletto titola “Totti supergol. La Roma Primavera fa 9-0.”
Nel giorno dei funerali la Roma gioca ancora una volta contro il Torino. I giocatori hanno il lutto al braccio. Viene osservato un minuto di silenzio. In Curva Sud c’è uno striscione. Recita “Niente parole… solo un posto in fondo al cuore. Ciao Ago”.
Il saluto della Curva Sud al suo capitano
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