Da quando la Juventus ha richiamato in panchina Massimiliano Allegri nell’estate del 2021, la tifoseria bianconera si è divisa in due. Nel mirino dei detrattori c’è soprattutto la scarsa proposta di gioco della squadra e sui social l’hashtag #Allegriout per mesi è stato uno dei più popolari. La mancanza di vittorie (fino ad ora) del secondo ciclo allegriano ha condizionato il giudizio di molti. È innegabile, però, che rispetto alla prima esperienza alla Juve del mister livornese, le possibilità di portare trofei a Torino siano diminuite a causa del miglioramento della concorrenza in Serie A: Inter, Milan e Napoli, infatti, sono o sono state avversarie decisamente attrezzate, come dimostrato anche dai loro recenti cammini europei.
La dirigenza bianconera non sembra scontenta dell’operato di Allegri, specie oggi che la squadra è in lotta per il primo posto con l’Inter. Dal canto suo, il mister della Vecchia Signora è a suo agio nel ruolo del perfetto aziendalista che cerca di valorizzare al meglio ciò che ha a disposizione.
Il mister Allegri in una delle sue espressioni tipiche
Nelle ultime stagioni la Juventus ha raggiunto sul campo l’obiettivo minimo prefissato della qualificazione alla Champions League, manifestazione a cui quest’anno i bianconeri non partecipano a causa della penalizzazione arrivata per il caso plusvalenze. In questo inizio di stagione, nonostante l’accusa di proporre un gioco speculativo e difensivista ad oltranza, i risultati stanno dando ragione all’allenatore livornese. La sua Juve infatti per ora è l’unica vera antagonista dell’Inter nella lotta scudetto e l’avvio positivo in termini di risultati ha calmato gli animi di buona parte dei tifosi che considerano chiuso il ciclo allegriano. Il motto “vincere è l’unica cosa che conta”, del resto, è un mantra che piace non soltanto ai dirigenti.
Rimangono però aspre le critiche che arrivano dall’esterno dell’ambiente Juve. I detrattori si fanno forti di dati come possesso palla, occasioni da gol e xG, statistiche sì importanti, ma che spesso non descrivono la forza e soprattutto la reale efficacia di una squadra. Badare al risultato dopo il triplice fischio, per molti, è un esercizio quasi superfluo e per loro Allegri rappresenta il nemico perfetto. In questo contesto è evidente la scelta del tecnico di impegnarsi nello spegnere fuochi per proteggere un gruppo che lavora bene a fari spenti mentre il suo condottiero rilascia dichiarazioni da underdog. Non è casuale nemmeno il comportamento del mister nei momenti delicati dei match più importanti, vedi il recente Milan-Juventus, lancio della giacca incluso, gesto su cui ormai Max ha il copyright.
Lo show nei minuti finali del match di San Siro di ottobre
Il tecnico livornese sembra non curarsi delle critiche, anzi alimenta la narrazione che lo vuole leader del movimento dei risultatisti. Più viene criticato (qui una delle liti con Adani post match a Sky), più si mostra ironico, pungente e sicuro di sé. Vuole lanciare un messaggio chiaro: ottenere punti gli interessa molto di più che ricevere complimenti per il bel gioco espresso dalla sua squadra.
L’approccio con i media e gli atteggiamenti tenuti in panchina sono due modi per veicolare messaggi sia all’esterno che all’interno dello spogliatoio. Analizzando le sue esperienze passate, si riscoprono diverse versione di Max Allegri. Chi lo ha visto da giocatore racconta di un Allegri in possesso di doti fisiche e tecniche tali da poter ambire ad una carriera di altissimo livello. Pur avendo militato per diverse stagioni in A, invece, la sua ascesa non lo ha mai portato in una grande squadra. “Acciughina”, soprannome giovanile che resiste nel tempo, si descrive come un giocatore senza la mentalità giusta per sfondare fino in fondo. Giovanni Galeone, che lo ha allenato soprattutto a Pescara, lo riteneva un allenatore in campo, un calciatore in grado di leggere le situazioni di gioco come pochi altri.
La versione migliore dell’Allegri calciatore si è vista senza dubbio nell’anno in Serie A con il Pescara di Galeone (12 reti all’attivo).
Nel 2005 l’allora tecnico del Grosseto strega Cellino, noto talent scout di allenatori sconosciuti, mettendo in difficoltà i sardi in un’afosa serata agostana in Coppa Italia. Gli uomini di Tesser riescono a ribaltare il vantaggio maremmano segnato da Pellicori, ma il patron sardo non si dimentica di Allegri. Si convince infatti a reclutarlo per la stagione 2008-09, grazie anche al brillante risultato ottenuto col Sassuolo nella stagione precedente.
La squadra emiliana, infatti, per la prima volta nella storia raggiunge la serie B e il presidente del Casteddu vede nel suo ex giocatore l’uomo giusto per il club rossoblù. Max, infatti, è stato già nell’isola da giocatore quasi 15 anni prima, in un Cagliari che era arrivato a 90 minuti dal sogno di approdare in finale di Coppa Uefa. Allegri ha la possibilità di lavorare fin dal primo giorno con un gruppo di calciatori che sembrano rispecchiare in pieno la sua idea di calcio, a partire dal pacchetto di centrocampo.
La tesi presentata a Coverciano delinea in maniera inequivocabile la parola chiave del vocabolario del mister: equilibrio. Nell’elaborato, incentrato sulle varianti di centrocampo a tre, Allegri insiste su un concetto: tutta la squadra deve ragionare come un blocco unico e anche le punte devono sacrificarsi a ricoprire compiti difensivi. Sono peraltro pochi i ruoli a cui non viene richiesto di partecipare alla manovra, segno che l’impostazione è tutt’altro che difensiva e speculativa.
In un calcio dove ancora non si parla di costruzione dal basso, pressing a tutto campo e applicazione totale in fase difensiva, il livornese è uno dei primi che traccia una linea di demarcazione con il passato. I terzini avanzano e indietreggiano a tutta fascia, le mezzali stanno strette in fase di possesso dando spazio ai terzini ma poi, quando il pallone ce l’hanno gli altri, si allargano a coprire le avanzate degli esterni avversari. Il vertice basso e quello alto sono in continuo movimento e si scambiano spesso il pallone tra di loro in fase di possesso.
Mentre in fase difensiva il trequartista va a disturbare il play avversario, il regista ha il compito di chiamare il pressing, alzare la linea del baricentro o coprire l’avanzata di una delle mezzali verso la palla. Nemmeno le punte sono risparmiate dal lavoro difensivo: in fase di non possesso il Cagliari si dispone di fatto con un 4-3-3 che vede Cossu alto al centro, in una posizione che oggi definiremmo da “falso nueve”, mentre i due attaccanti si allargano a disturbare le uscite laterali. In fase di possesso la capacità di movimento di Matri, Jeda e Acquafresca permette di non stazionare con due punte in area, facilitando gli inserimenti profondi di terzini e mezzali. Di fatto i rossoblù attaccano spesso con sei uomini nell’ultimo terzo di campo.
Il ruolino di marcia iniziale è tragico: zero punti nelle prime cinque partite, un cammino che sembra l’anticamera del disastro e il preludio all’inevitabile esonero. Una decisione che non coglierebbe nessuno di sorpresa, vista la fama di “mangia-allenatori” di Cellino. Già in passato il vulcanico chairman ha cacciato allenatori con percorsi molto migliori di quello di Allegri, ma stavolta, in controtendenza con le sue abitudini, pazienta. E fa bene. Il tecnico livornese ha solo bisogno di più tempo per creare la macchina perfetta, grazie anche alla presenza in rosa di alcuni uomini chiave. Un regista arretrato in possesso di tutte le caratteristiche necessarie per il ruolo (Conti), interni di centrocampo abili nelle due fasi (Biondini e Dessena ma talvolta anche Fini e Lazzari). A questo si aggiunge l’esplosione di un trequartista come Cossu addosso al quale, nel solco del predecessore Ballardini, Allegri cuce il ruolo perfetto dentro il suo 4-3-1-2.
Da lì a poco i rossoblù risalgono la china: il pari alla sesta contro il Milan di Ancelotti e, soprattutto, la vittoria in trasferta contro il Torino sono l’inizio di una cavalcata che vede i ragazzi di Allegri vincere successivamente ben sette partite su otto in casa. A fine ottobre il Cagliari saluta la zona retrocessione e non ci rimetterà piede per l’intera stagione.
I sardi concludono l’annata al nono posto con 53 punti (record del club negli ultimi 20 anni). Merito di un calcio a tratti spumeggiante, soprattutto in casa, dove la squadra può contare sull’incessante apporto di un pubblico entusiasta. Le soddisfazioni non mancano neanche lontano dalle mura amiche, anche se nelle trasferte in continente la banda allegriana non sempre raccoglie quanto meriterebbe. È l’altra faccia della medaglia, che sembra quasi paradossale accostare alla figura dell’Allegri che abbiamo imparato a conoscere negli ultimi anni. Il Cagliari, infatti, pecca di troppa spavalderia fuori dal Sant’Elia: una hybris dettata dall’entusiasmo di una stagione baciata dagli dèi, che però fa perdere ai rossoblù alcuni punti per strada.
La serata di Milano contro l’Inter è l’esempio perfetto: Acquafresca fredda Julio Cesar e gela San Siro, ma il Cagliari non si accontenta e continua ad attaccare, sfiorando il raddoppio con Biondini pochi minuti più tardi. Sarà Zlatan Ibrahimovic, con uno dei gol più facili della sua vita, a livellare le cose e a consentire a Mourinho di strappare almeno un punto. Se il Max Allegri di 15 anni dopo avesse potuto, come un fantasma dei campionati futuri, palesarsi davanti al suo corrispettivo del 2008, gli avrebbe probabilmente bisbigliato all’orecchio tre parole: chiuditi e riparti.
La partita manifesto di quel Cagliari, però, arriva qualche settimana dopo. L’ultimo giorno di gennaio il pullman rossoblù arriva allo stadio Olimpico di Torino, la casa della Juventus è in costruzione al tempo. I gol di Biondini, Jeda e Matri suggellano una prestazione coraggiosa di fronte ad una squadra di caratura superiore. I bianconeri giocano e creano diverse occasioni pericolose salvo poi rendersi conto troppo tardi che i sardi decidono di scherzare come il gatto con il topo. A panchine invertite rispetto alla stagione attuale, Allegri e Ranieri si affrontano con obiettivi differenti. La Juve, ancora in ricostruzione dopo Calciopoli, vuol dar fastidio ad un’Inter lanciatissima verso il titolo, il Cagliari vuole invece sognare l’Europa. Un obiettivo che avrebbe suscitato più di una risata, se qualcuno si fosse lanciato in un pronostico simile dopo i primi cinque turni di Serie A.
Come dichiarato di recente a Tuttosport da Jeda, il segreto di quella gara fu anche nelle parole del mister al gruppo: “Prima della partita ci aveva spiegato che l’unico modo per limitare la Juve era attaccarla, senza timore della maglia o dei nomi scritti sulla schiena. Ci aveva spronato a essere sbarazzini”. Per il Cagliari, giocare a viso aperto in casa della Juve è un evento così raro che prestazioni simili si contano sulle dita di una mano: la corazzata tricolore di Riva, il sorprendente gruppo di Giorgi nei quarti di coppa UEFA nel 1994, quello del 2009 targato Allegri.
La sintesi della gara di Torino contro la Juventus di Ranieri in quel fine gennaio del 2009
In vista della seconda stagione targata Allegri, Cellino non se la sente di fare rivoluzioni tecniche e consegna alle cure del tecnico labronico una rosa quasi identica a quella che tanto ha stupito l’annata precedente. Dopo il mercato estivo alcuni elementi salutano: Acquafresca e Bianco tra i titolari, Fini tra i rincalzi di lusso. Con l’ossatura quasi intatta, il Cagliari si dota di carta carbone e disegna un percorso quasi identico a quello del 2008/09. Inizio a rilento (un punto in quattro gare), poi una serie positiva che issa i sardi sino al settimo posto dopo la vittoria di metà gennaio contro il Livorno.
Un successo che spara in orbita Cossu e compagni, con 30 punti in classifica e un posto con vista sulla Champions League. La quarta piazza occupata dalla Juventus è infatti lontana appena tre punti e i sardi hanno una partita da recuperare: a Udine, infatti, una copiosa nevicata impedisce alla partita di svolgersi regolarmente. La musichetta della Champions, anche se solo virtuale, forse strega il Cagliari come le sirene fecero con Ulisse e Allegri non ha abbastanza tappi per le orecchie per evitare ai suoi ragazzi di farsi sedurre da quelle note immaginarie. Negli ultimi tre mesi di campionato, infatti, i rossoblù si sgonfiano e collezionano una sola vittoria. Un crollo verticale che sveglia Cellino dal letargo e lo spinge all’esonero di Allegri, premiato appena poche settimane prima con la prestigiosa “Panchina d’Oro” per l’eccelso lavoro della stagione precedente.
In città la voce di popolo più forte è quella di una squadra frenata apposta da chi non vuol pagare un premio per una qualificazione europea che non avrebbe potuto avere seguito sul campo. Il Cagliari gioca le sue partite in un ormai vetusto Sant’Elia, privo di licenza UEFA, con la traballante struttura originaria sostenuta da pratici ma esteticamente rivedibili tubi Innocenti. Fuori dall’isola però la versione più diffusa è quella di un Cellino furioso con il suo mister, apparentemente reo di essersi promesso a diverse società più blasonate. A fine stagione Allegri finirà effettivamente sulla panchina del Milan: un passaggio reso possibile anche dai buoni rapporti che uniscono Cellino a Galliani, come ammesso anche recentemente dall’attuale deus ex machina del Monza.
Allegri riceve il premio “Panchina d’oro”. Al suo fianco due futuri mister dei sardi: Semplici e Bisoli
Il periodo milanista e quello del primo ciclo juventino ci mostrano un Allegri diverso rispetto agli esordi in provincia. Chiunque potrebbe dire che allenare a Milano o Torino non sia come farlo a Sassuolo o Cagliari: in parte avrebbe ragione. Nel periodo milanista la maturazione del tecnico livornese lo porta a sviluppare maggiormente la praticità e il pragmatismo che oggi abbiamo ben chiaro quando parliamo di lui. Vari cambiamenti tattici lo portano a rinunciare sempre più spesso all’estro di Pirlo e Seedorf, ma a fare maggiormente le spese del nuovo voto di praticità professato dal toscano è Ronaldinho, che a gennaio infatti viene ceduto.
Quel Milan vince lo scudetto e la mano del mister è chiara: pochi fronzoli, concretezza e sfruttamento delle qualità dei singoli per ottenere il massimo dell’efficacia. L’uomo simbolo di quell’impostazione è senza dubbio Antonio Nocerino. Il mediano chiude l’anno con ben 10 reti all’attivo, capitalizzando gli assist e le giocate di uno straordinario Zlatan Ibrahimovic con una capacità d’inserimento che forse, sotto sotto, neanche lui stesso pensava di avere in canna.
Allegri e Ibra: due visioni diverse e un rapporto via via logoratosi con accuse reciproche
Dopo l’addio al Milan, Allegri non si guarda indietro e si sposta di 150 chilometri più a ovest, ereditando da Antonio Conte la panchina della Juventus. Inizialmente il mister livornese non tocca l’assetto vincente del biennio contiano, utilizzando per la prima volta la difesa a tre, vero marchio di fabbrica di quella squadra. Negli anni successivi l’istrionico mister modellerà la squadra fino a ricondurla a uno schieramento più simile a quelli sempre usati in passato. L’occasione per rispolverare ed aggiornare il pragmatismo degli anni milanesi è l’addio di Andrea Pirlo, evento che lo riconduce verso un centrocampo muscolare, salvo tornare sui suoi passi l’anno successivo. L’arrivo di un play come Pjanic ridisegna il centrocampo, mostrando al mondo che Allegri è un tecnico capace di cambiare le proprie idee in funzione delle diverse qualità a disposizione.
Doti da camaleonte che non si limitano alla gestione del centrocampo, ma che si riflette sulla disposizione degli uomini d’attacco. Durante il suo quinquennio a Vinovo si alternano nel ruolo di terminale offensivo Morata, Matri, Tevez, Higuain, Mandzukic, Dybala, fino all’arrivo di Cristiano Ronaldo. Una lista di attaccanti con skillset tutti diversi tra loro, che però Allegri è bravo a sfruttare nel migliore dei modi cambiando spesso il modo di offendere della sua squadra. In comune, anche per uno strapotere fisico e qualitativo rispetto alle rivali, tutte le Juventus di quel lustro hanno la capacità di essere estremamente ciniche e di saper usare, a seconda delle necessità, sia il fioretto che la spada. Con questo atteggiamento pragmatico Allegri permette a quella Juve di accarezzare il sogno di vincere la Champions League in due occasioni e proseguire nella serie interminabile di vittorie domestiche (5 scudetti, 4 coppe Italia, 2 Supercoppe italiane).
La sua prima Juventus non è stata probabilmente spettacolare come altre del passato e non può competere con i top club europei di questo ultimo periodo storico. Tuttavia, rimane una squadra che quando ha potuto esprimersi al meglio ha praticato un buon calcio ed ha dominato la scena nazionale risultando tra le più vincenti della storia bianconera.
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