Nel gennaio del 2016 l’allora allenatore del Trapani Serse Cosmi scrisse una lettera aperta in cui tesseva le lodi ad un giocatore che aveva da poco deciso di smettere con il calcio, Sodinha. La frase che riassume l’intera dedica è questa: “Con me ha giocato 213 minuti: sono stati più belli di interi campionati disputati da altri calciatori“. Difficile dare torto all’ex mister del Perugia di Gaucci, quello dei miracoli e del 3-5-2 con Materazzi, Liverani e Grosso.
Sì perché se c’è una dote che al trequartista ex Brescia non è mai mancata nel corso della sua carriera è il talento, cristallino e che non ammette repliche, troppo evidente per passare inosservato. Poi ha difettato in tutto il resto, certo: la forma fisica, la continuità, la mentalità da professionista e tanto altro ancora. Cosmi – potrebbe pensare qualcuno – ebbe vita facile ad esporsi pubblicamente nei confronti di un ragazzo che la stragrande maggioranza degli appassionati di calcio italiani aveva preso in simpatia per i giochi di prestigio da andare fuori di testa abbinati alla pancetta da impiegato.
Sembra un caso di scuola di quella corrente nata con i social network che va sotto il nome di “bomberismo”: ah che figo Sodinha che non si allena ma è comunque fortissimo, è uno di noi, se ne frega delle regole, è uno fuori dagli schemi, è come noi a scuola quando gli insegnanti dicevano alle nostre mamme “suo figlio potrebbe ma non si applica”.
Dodici minuti, quasi tredici, di Sodinha che fa cose. Soprattutto tocchi di suola
Meglio il sacrificio
Eppure, pensandoci bene, Cosmi si è dimostrato parecchio coraggioso ad esporsi per un fantasista sregolato di Serie B, perché in Italia la tendenza è quella di santificare la caparbietà e l’impegno e raramente di esaltare il talento, potenziale o realizzato che sia. Nessuno si sognerebbe di contestare le celebrazioni di uno stadio intero per un mediano che ha militato dieci o più stagioni nello stesso club (Ligabue vi dice niente?). Siamo un Paese in cui il sacrificio di un centravanti capace di inventarsi tornante sembra assolverci da tutti i nostri peccati.
Abbiamo goduto delle doti celesti di Baggio, ma la sua parabola sarebbe risultata meno gustosa da tramandare se in mezzo non ci fossero stati infortuni terribili e sofferenze indicibili. Tanti altri sarebbero gli esempi di una mentalità tutta nostrana che è letteralmente l’opposto di ciò che avviene in altre nazioni. Generalizzazioni? Forse, anche se la storia della Nazionale azzurra post 2006 sembra confermare il nostro fastidio più o meno celato per gli esseri umani in grado di produrre qualcosa di speciale con il pallone tra i piedi.
Mario, super ma non abbastanza
In principio fu Balotelli, l’attaccante che avrebbe dovuto essere il nostro numero 9 per almeno un decennio, ma forse anche 15 anni, e trascinarci a lottare con le altri grandi a cui avremmo dovuto contendere Mondiali ed Europei. E invece eccoci a fine 2023 a parlare di un ultratrentenne che per colpa sua, solo ed esclusivamente sua secondo il popolo del pallone, ha buttato via la carriera. È davvero così?
SuperMario ha più volte ammesso di aver toppato e di aver soltanto sfiorato, peraltro per periodi limitati, il massimo a cui poteva ambire. Nessuno può negare che Balotelli abbia disatteso ciò che prometteva nei primi anni all’Inter e che sia stato un progetto di superstar solo abbozzato. Eppure i numeri nello sport qualcosa contano e andando a spulciare i suoi scopriamo che forse, almeno in Nazionale, dove la concorrenza nel ruolo non è sempre stata di altissimo livello, Mario non può essere definito una catastrofe.
Rimane infatti il dubbio che insistere su di lui tentando di smussarne gli spigoli caratteriali (o ignorandone, seppur controvoglia, qualcuno) avrebbe giovato alla Nazionale, soprattutto in anni in cui, prima del successo all’Europeo del 2021, i risultati sono stati a dir poco scadenti.
I 14 gol in 36 presenze e alcune prestazioni memorabili, a partire dalla celebre doppietta rifilata alla Germania, sono stati il massimo che l’Italia è riuscita a scucire ad un centravanti dotato di alcune caratteristiche tecniche élite, a partire dal tiro (anche da fermo) e da una presenza fisica con pochi precedenti nella storia della Nazionale.
Ma Balotelli era ingestibile, dirà qualcuno. Sì, lo era ma ha comunque fatto parte di gruppi vincenti a livello di club. Lo era ma ha segnato oltre 150 gol in carriera militando in squadre di vertice in Europa. Lo era eppure ha disputato intere stagioni senza combinare chissà quali stramberie.
Di testa, gol. Destro terrificante sotto la traversa, gol. Qui è quando abbiamo pensato di aver trovato il centravanti perfetto
Balotelli era un problema
Insomma, era davvero impensabile puntare con decisione sul talento indiscutibile di Balotelli in un’epoca in cui il materiale umano scarseggiava? Perché questa è stata la scelta, quella dei ct, ma in generale dei media e dei tifosi: considerare Balotelli un problema e soltanto un problema, un peso, un giocatore difficile da incastrare in un contesto tecnico e ancor di più da inserire in uno spogliatoio popolato da qualche campione non più in grado di fare la differenza in azzurro e soprattutto da molti onesti mestieranti di una Serie A ben lontana dai fasti dei decenni precedenti.
Gli aspetti da considerare sono molti quando si giudica la carriera di un giocatore e di certo non bastano i gol a raccontare l’impatto che si ha in una squadra, ma negare che Balotelli abbia rappresentato un capro espiatorio per alcuni fallimenti dell’Italia è un’operazione che flirta con la malafede.
Altrettanto ipocrita è negare che pure la storia personale di SuperMario e le sue origini africane abbiano giocato un ruolo nell’evoluzione del personaggio Balotelli, apertamente disprezzato da intere tifoserie per alcune uscite pubbliche in cui poneva la questione del razzismo nel calcio italiano, un argomento che a tutt’oggi resta irrisolto e controverso. Basta scorgere la lista infinita di giocatori fischiati per il colore della pelle e quella delle curve storicamente impunite nonostante atteggiamenti xenofobi ricorrenti.
Novembre 2019: Balotelli, allora al Brescia, scaglia il pallone in curva in segno di protesta per i continui cori razzisti del tifosi veronesi
Insomma, tante e complesse sono le cause che oggi portano a parlare dell’attuale attaccante dell’Adana Demirspor come di un fallimento totale anche in azzurro. Di sicuro Balotelli è stato uno dei casi più evidenti di talento che il sistema calcio italiano ha faticato a digerire. E a rimetterci è stata soprattutto la Nazionale che con lui al centro del progetto tecnico ha comunque centrato una finale degli Europei, poi persa nettamente con una Spagna che nel 2012 era praticamente imbattibile.
Il calcio è uno sport complesso oggi più che mai, però non sfugge ad un assunto tanto semplice quanto immutabile: è più facile ottenere risultati schierando gli elementi maggiormente dotati tecnicamente. Attorno a questi un bravo allenatore costruisce un sistema in grado di esaltare il più possibile le doti di ogni singolo componente della squadra. Balotelli per anni, pur tra mille contraddizioni, ha avuto potenzialità superiori a molti compagni. Ma nonostante ciò l’Italia da lui ha ricavato molto poco.
L’ex baby prodigio
Poi c’è Verratti, che a differenza di Balotelli non è attaccabile nemmeno dal punto di vista della continuità di rendimento, tra l’altro dimostrata in una delle squadre più attrezzate al mondo, il Psg. Nonostante ciò l’avventura azzurra dell’ex baby prodigio del Pescara di Zeman, stando alla vox populi, è scivolata via senza acuti memorabili (sì, c’è l’Europeo vinto ma lui non è stato uno degli uomini copertina).
Un po’ come per l’attaccante originario del Ghana, Verratti non ha mai scaldato il cuore degli italiani, incapaci di affezionarsi ad un talento purissimo, a uno dei centrocampisti più continui dell’ultimo decennio se si parla di top team.
L’esordio in Nazionale ad appena 19 anni sembrava l’inizio di un’ascesa da predestinato. La realtà invece racconta di una parabola azzurra non solo al di sotto delle attese ma, soprattutto, di un livello decisamente inferiore a quella tracciata dall’abruzzese con la maglia del Psg a suon di partite da almeno 7 in pagella in Champions League. Senza parlare dei nove campionati francesi vinti.
Il primo intoppo nella carriera azzurra di Verratti si è palesato immediatamente: per tutti era il nuovo Pirlo, il direttore d’orchestra che in punta di bacchetta avrebbe diretto a meraviglia l’intera manovra. Ma la verità è che Verratti era (ed è) una mezzala e non un regista, aveva caratteristiche tecniche distanti da quelle del numero 21 di Lippi, con cui sicuramente però condivideva la classe cristallina.
Verratti in campo faceva un altro mestiere perché, semplicemente, le sue doti erano diverse da quelle di Pirlo. Oggi, ad appena 30 anni, il ragazzo di Manoppello ha optato per il ricco Qatar firmando per l’Al-Arabi, di fatto mettendo fine alle sue velleità nel calcio che conta. Un sospetto rimane: avrebbe scelto diversamente se, quando incantava il mondo nei campi di tutta Europa, i calciofili italiani lo avessero considerato maggiormente? Chissà.
Il toccante addio di Verratti al Psg, club di cui è diventato una vera leggenda
Di certo a Verrati qualcuno non ha mai perdonato, seppur incosciamente, di non essersi mai legato ad una squadra italiana e anche per questo motivo ha ricevuto poche gocce di stima dai suoi connazionali. I francesi, come dimostra la celebrazione per salutarlo dopo un decennio di giocate pazzesche e trofei vinti, lo hanno sommerso di affetto e gli hanno riconosciuto quel ruolo nella storia recente del calcio di cui noi abbiamo scarsa percezione.
Di recente l’ex Psg ha dichiarato di voler chiudere la carriera a Pescara, una scelta logica visto che la città abruzzese è forse l’unica enclave verrattiana d’Italia. Se manterrà la promessa, a quel punto probabilmente Verratti sarà celebrato anche da milioni di italiani. Ma sarà troppo tardi.
Un fuoriclasse in porta
Se Verratti e Balotelli sembrano entrambi avviati ad un’ultima fase di carriera lontani dalle luci del grande calcio, differente è la situazione di Donnarumma. Il portiere del Psg può vantare un’esperienza internazionale senza pari se si considera che ha compiuto 24 anni nel febbraio scorso e che ha già messo in bacheca successi con i club e pure l’alloro europeo con l’Italia.
Il talento dell’estremo difensore campano, a detta dei tecnici che lo hanno allenato, è da fuoriclasse assoluto, considerando anche il fatto che il ruolo gli potrebbe consentire di avere davanti a sè almeno un’altra decina di stagioni ad altissimo livello. Nonostante ciò, di recente la sua titolarità in Nazionale è stata messa in discussione a causa dell’ascesa del collega Vicario.
Non solo. Donnarumma, oltre al pessimo rapporto con la tifoseria milanista, per colpa della partenza a parametro zero in direzione Francia, sin dai primi anni di carriera è stato bollato come un calciatore più interessato al conto in banca che ai successi in campo.
Donnarumma l’antipatico
Per quanto possa risultare assurdo, per buona parte dell’opinione pubblica e per milioni di tifosi, Donnarumma è passato ben presto dall’essere un ragazzo prodigio ad essere bollato come un antipatico buon calciatore, sopravvalutato per motivi che ad oggi rimangono oscuri.
Perché se è vero che le ultime due stagioni hanno evidenziato un rallentamento della curva di crescita tecnica del numero 1 della Nazionale, d’altra parte Donnarumma è senza dubbio il portiere italiano più affidabile (e non soltanto il più talentuoso). E questo nulla toglie alle ottime prestazioni che, da circa 12 mesi stanno offrendo Vicario, Meret, Provedel e anche di altri portieri che possono ambire alla maglia azzurra, come Di Gregorio e Falcone.
Il punto è però un altro: ha senso, per una Nazionale reduce da due mancate qualificazioni ai Mondiali, mettere in discussione uno dei pochi calciatori che a livello internazionale sono riconosciuti come top del ruolo?
Una breve compilation di parate, giusto per ricordarci chi è Donnarumma quando indossa i guanti
In altre parole, non stiamo forse correndo il rischio, un po’ come successo con Verratti, di scaricare responsabilità eccessive su un giovane talento che non milita in Serie A e che, per varie ragioni, non incontra il favore di buona parte delle persone che seguono il pallone in Italia?
A questa domanda sembra aver risposto in maniere inequivocabile Luciano Spalletti, che ha nominato Donnarumma vice capitano e ha blindato la sua titolarità. Si tratta di due mosse che sembrano andare in una direzione chiara: prima di tutto tutelare il talento. La formazione si costruisce partendo dai talenti più evidenti nel tentativo esaltarne le doti. Il successo del nuovo corso dell’Italia passa anche da scelte simili, specie in un periodo storico in cui i pochi fuoriclasse presenti a Coverciano soffrono di solitudine.